lunedì 26 dicembre 2011

Omelia 25 dicembre 2011

Natale del Signore 2011

I giorni che hanno preceduto il Natale sono stati accompagnati nella nostra parrocchia dalla triste scoperta che qualcuno si era impossessato di Gesù Bambino. Nell’armadio dov’era riposto non c’era più. Solo la culla, il cuscino e il cellophane bombato di cui era avvolto. Chissà, se è il gesto di un devoto che voleva portarselo a casa, di un dissacratore che voleva distruggerlo o di un qualcuno che pensava di ricavarne qualche soldo. Non sarebbe la prima volta che Gesù viene venduto per trenta denari. A malincuore siamo andati ad acquistare una nuova statua di Gesù Bambino che, davanti all’altare, nuovamente rimane con noi. Alla tristezza del gesto si associa però un altro sentimento, molto più difficile da gestire. La sensazione che quello che è avvenuto in un armadio della sacrestia possa corrispondere a quello che capita nell’armadio della vita.
Sì, perché qualche volta funziona così. Gesù viene chiuso in un armadio, una mano invisibile ce lo sottrae e quando avemmo bisogno di lui non lo troviamo più.
E in questo caso non se ne può comprare un altro. Dove ti ho lasciato, Signore? Chi ti ha rubato?
A volte è una mano seducente, che screditando la chiesa e i cristiani variamente indica un’esistenza beata lontana da Dio: “Dio non c’è goditi la vita”. Peccato che la vita non sempre ci riservi il godimento. Altre volte è una mano più subdola che cancella la memoria cristiana della solidarietà e in tempi di crisi ci suggerisce l’idea di badare a se stessi, ai propri interessi, allontanando l’altro percepito come un potenziale pericolo. Rassegnarsi di fronte all’assenza di Dio ci espone al pericolo, al disorientamento, alla povertà. Perché con Dio non se ne va un orpello della vita, un optional. Se ne va la nostra umanità che non possiamo custodire senza di lui.
Dio non si rassegna a questa distanza. Ritorna. Ci ritrova perché lo ritroviamo. E il Natale ne è la rinnovata possibilità. Dove ci dà appuntamento Dio?

1.    Anzitutto nel mistero della piccolezza. Eccolo lì l’artefice dell’universo, per il quale tutte le cose sono state create: avvolto nelle fasce di un neonato e deposto nella mangiatoia. Poteva giungere su un destriero come un possente guerriero macedone, poteva apparire all’areopago di Atene tra i filosofi, poteva stagliarsi sulla scena politica di Roma. E invece lo si incontra inerme come un bambino, custodito tra le braccia di sua madre. Dio non vuole farti paura, non vuole sorprenderti con proclami ad effetto. Si consegna ad un abbraccio come ti vien voglia di fare con ogni cucciolo d’uomo perché tu la smetti di difenderti da lui e riattivi quella pagina di tenerezza con la quale anche Dio vuole parlare di sé. Se qualcuno t’ha sottratto Dio, verifica che non sia l’idea che hai di lui. L’idea che sia il tuo avversario, una sorta di sistema a garanzia dell’apparato, un codice di procedura. Di fronte a questi sospetti Dio rinuncia anche alle parole in sua difesa e ti fa udire unicamente un vagito. Da lì riparte il vangelo.

2.    E poi il mistero di una notte. Lui non ne ha paura e ne abita l’oscurità, perché ogni oscurità ne sia rischiarata. L’oscurità che lo invoca e l’oscurità che lo rifiuta. La notte della malattia, del disagio, della fatica del vivere. Ma anche la notte della malvagità, del cuore indurito, dell’indifferenza. Del peccato che non vorresti aver mai commesso e di quello di cui neppure ti rendi conto. La notte del perdono che non arriva e quella del perdono che non dai. E vieni in una grotta al freddo e al gelo non è suggestione di antiche melodie ma l’ostinata pretesa da parte di Dio di illuminare e riscaldare gli anfratti più spaventevoli della vita. Chi ti ha rubato il Signore? Forse la sensazione che nessuno possa essere compagno dei tuoi giorni? O forse la rassegnazione di chi, abitando solamente la notte, finisce per credere che non esista il giorno? Lui, luce del mondo risplende nell’oscurità. E quell’oscurità non l’ha vinto. Se appena ti lasci illuminare, la realtà può apparirti in maniera diversa dal quel film che continuamente replichi, sia che si tratti del cinepanettone del vuoto, sia si tratti del documentario delle tue paure alle quali non vorresti assistere.

3.    Ed infine Dio ci dà appuntamento nella vita di una famiglia, tra i gesti della quotidianità che Gesù abiterà per ben trent’anni. Il filosofo francese Fabrice Hadjadj, di origine ebraica, convertito al cattolicesimo dopo vent’anni di ateismo, ha pubblicato un interessante saggio: La fede dei demoni. Egli sostiene che Satana, puro spirito, usa strategie raffinate per convertire le persone più avvedute. E li suggestiona con un spiritualismo magico, etereo, elegante che promuove una spiritualità individualistica, egoistica, snob e detesta la "carnalità" cristiana che costringe a sporcarsi le mani e a investire nella direzione della premura per l’altro, del coinvolgimento nelle situazioni, nell’esserci. Ecco il furto di Gesù Bambino potrebbe essere quello dell’incarnazione: vuoto che innalza preghiere e non innalza la vita, che si compiace delle riflessioni e non riflette speranza, che si cura del dibattito culturale e non cura il fratello. Nel quotidiano Dio ti dà appuntamento: nella tua famiglia, nel tuo lavoro, nelle tue relazioni. Se non lo trovi qua, hai trovato solo te stesso e forse neanche quello.
Chi ti ha rubato Gesù Bambino? Guarda che il furto non è più tale. Dio te lo restituisce ancora una volta quel suo Figlio. Perché da lui nuovamente ti lasci sorprendere e perché con lui ricominci a vivere.

lunedì 19 dicembre 2011

Omelia 18 dicembre 2011

Quarta domenica di Avvento
In Italia secondo i dati Caritas almeno ottocentomila persone sono cadute in povertà dopo la separazione e fra loro si contano tanti uomini che, pur con un lavoro remunerativo, ora sono diventati nuovi poveri perché i soldi se ne vanno per assegni di mantenimento, psicologi e avvocati. A Milano, presso i padri oblati di Rho, è sorta una struttura dove è possibile soggiornare al costo di 200 euro mensili per circa un anno, il tempo di stabilizzare la propria posizione.
«Ho dormito anche in un furgone insieme ai miei materiali di lavoro – racconta uno di loro – e ho provato la convivenza con altri in un appartamento, ma mi sentivo come uno studente universitario senza legami. Qui, a Rho, c’è invece un entusiasmo diverso, contagioso». È una vita rimessa in gioco, una casa che si apre dopo che un’altra casa si è chiusa. E, pur nei limiti di queste situazioni, c’è in esse qualcosa di divino simile alla vicenda di Davide raccontata nella prima lettura. Il re vuole costruire una casa per il Signore, ma sarà il Signore a costruire una casa per il re. Una nuova possibilità di vita e di alleanza destinata a durare nel tempo. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre. Ecco, in questo tempo di avvento, mentre anche noi cerchiamo di fare una casa per Dio, in realtà è lui che ci fa una casa, che ci rende la sua casa. Come avviene per Maria, abitazione nella quale Dio prende dimora. Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Come si diventa casa per Dio? Come le nostre costruzioni talvolta in rovina possono trovare nuova possibilità di stare in piedi?

1.    È una casa che nasce anzitutto da un invito alla gioia. È una dimensione che oggi talvolta ci sfugge quando costruiamo una casa, primo perché farlo è diventato un’impresa difficile, secondo perché gli aspetti tecnici ed economici prendono il sopravvento. Ma una casa è anzitutto esperienza di gioia di chi rilegge se stesso, la propria famiglia, le relazioni, il futuro, il modo con cui accosterà la vita. La fatica con cui una famiglia oggi può accedere ad una casa propria, soprattutto in città, riduce gli spazi della gioia, rischia di aumentare le preoccupazioni e appesantire il carico dei giorni. Così a volte anche con Dio. Vivere nella sua casa a volte ci sembra più un onere che una gioia, tributi da pagare più che bellezza che ridisegna la vita. Ma l’angelo a Maria non dice: prega, studia, impara, impegnati. Dice: Rallegrati. Dio ostinatamente vuol essere bella notizia. Perché? L’angelo lo dice immediatamente: piena di grazia. Puoi essere nella gioia perché sei riempito dalla simpatia, dalla vicinanza, dalla tenerezza di colui che ti ama da sempre. Se mi ama da sempre – osserva qualcuno – che mi tolga le mie sofferenze: allora sarò nella gioia! Dio non percorre questa strada, perché non porta da nessuna parte, perché di sofferenze, di richieste, di desideri ne avresti sempre e non troveresti mai la gioia. Dio invece abita il tuo presente e lo sostiene, se solo gli permetti di entrare. Entrando da lei disse: Rallegrati. Se ti barrichi nella tua tristezza, nella tua solitudine, nella tua commiserazione, nella tua autosufficienza, non c’è posto per lui, né per la sua casa, né per la sua gioia.

2.    È una casa fatta di attenzione, di spessore, di comprensione e discernimento. A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. Dio costruisce con chi si interroga e riflette non con la superficialità. Un fenomeno interessante di questi giorni è un film muto: The artist. E i giornali si interrogano sul fatto che la gente va a vederlo e ne rimane affascinata. Chissà perché. E chissà che proprio quei giornali non ne siano la causa. Perché forse c’è oggi un eccesso di comunicazione e l’eccesso non comunica più ma nasconde. Apparentemente per affermare ragioni, verità. Vince chi grida di più. Ma quel grido non ci convince del tutto e torniamo ad affermare l’esigenza di riflettere, di capire. Le parole che valgono sono quelle pesate, quelle che nascono dal silenzio, dalla possibilità di capire i fatti e le ragioni non quelle che si nutrono di luoghi comuni, della contrapposizione e della polemica. Nell’ascolto attento Maria accoglie la Parola vera ne diviene dimora. Senza tale atteggiamento alberghi solo te stesso.

3.    E infine la casa di Dio allarga i suoi confini. Vedi Elisabetta tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio. La casa che Dio vuol fare è sempre un po’ più larga della tua. Ci domanda la sua realizzabilità anche intorno a noi. In questi giorni finalmente si è aperto qualche spiraglio per il mondo del carcere, per una situazione di sovraffollamento non più tollerabile. A volte questo mondo è circondato da stereotipi che popolano anche i discorsi dei cristiani. “Sono in albergo”. Certo, anche il bagno in camera; peccato che sia una turca maleodorante. “Non fanno niente dalla mattina alla sera”. Certo, perché non possono accedere programmi di reinserimento per i quali mancano i fondi. “Se si comportavano bene non sarebbero lì”. Ma il carcere non ospita più detenuti di forte pericolosità sociale, ma gente che nel 70% proviene da zone di emarginazione e povertà. Carcere che è diventato manicomio, ricovero, centro di accoglienza. La casa di Dio forse riguarda anche questa gente, almeno da guardare con occhi diversi e di cui parlare con maggior cognizione, se non con misericordia.
Il Signore Dio ti farà una casa. Ancora una volta lui prende dimora. Non come villeggiante, ma come coinquilino. Per indicarci un’umanità possibile e una convivenza nuova.

domenica 11 dicembre 2011

Omelia 11 dicembre 2011

Terza domenica di avvento

A volte le navigazioni in rete ti portano a vedere quello che mai avresti voluto. E ti rendi conto che la realtà virtuale tale non è poiché ospita fatti tragici di cui siamo capaci.
C’è un video drammaticamente cliccatissimo che riprende la scena di una bambina cinese travolta da un furgone. Un furgone che volutamente la investe e vi passa sopra due volte sparendo dalla scena. E ancor più tragica la presenza di passanti che osservano e si scostano come se la questione non li riguardasse. Questa è la Cina, dove la politica del figlio unico porta le famiglie a provare ad avere un maschio esponendo l’eventuale figlia femmina all’abbandono e alla miseria quando la morte non sia già intervenuta con pratiche abortive. È uno scenario di desolazione che forse, per contrasto, può farci comprendere come diversamente hanno inciso da noi duemila anni di storia cristiana. Vangelo che è stato nuova possibilità di convivenza tra gli uomini, nuovo concetto di dignità della persona, denuncia di quanto si oppone al riconoscimento e alla salvaguardia dell’altro. Un cristianesimo che è divenuto testimonianza di un altro modo di vivere e di stare insieme e che ha prodotto una storia di civiltà. Ebbene, che ne abbiamo fatto di tale testimonianza? I segnali della sua debolezza e del suo rifiuto ci fanno capire che essa non solo è estranea in Cina, ma è in percolo anche da noi mentre ci misuriamo con un contesto che dal cristianesimo vorrebbe prendere le distanze. La figura di Giovanni Battista ci consegna i tratti di una testimonianza da riconoscere e liberare. Chi è il testimone?

1.    Non era lui la luce ma doveva dare testimonianza alla luce. È interessante il fatto che nella sua presentazione Giovanni per tre volte dica: Io non sono. Il testimone sa di essere portatore di luce, ma che ha altrove la sua sorgente. La luce proviene da Cristo e dal suo vangelo. Non abbiamo niente di diverso da dare al mondo rispetto a quanto già possiede se non in relazione a Gesù. Senza di lui rimangono solo le nostre miserie che indeboliscono la nostra testimonianza e la rendono opaca. Pensiamo di portare Cristo ma in realtà portiamo noi stessi. È il rischio gnostico che la chiesa ha incontrato tra II e III secolo. Il cristianesimo veniva svuotato della sua forza salvifica e lo si proponeva come gnosi, come conoscenza di una sapienza che apparteneva agli illuminati ma non era quella del vangelo. Pensate ad esempio a come reinterpretiamo la fede facendone una misura pretaporter. Matrimonio? Meglio convivenza: basta che ci si voglia bene. Messa la domenica? Ci vanno quelli che si fanno vedere: io dico una preghiera per conto mio che vale di più. Fine vita? Piuttosto di soffrire meglio farla finita. Ecco la sapienza umana che prende il posto di quella divina. Non era lui la luce ma doveva dare testimonianza alla luce. Se non troviamo la luce di Cristo rimaniamo in una penombra che ci confonde e ci perde.

2.    All’insistenza con cui sacerdoti e leviti interrogano Giovanni, risponde il Battista, ma anche l’evangelista che in maniera ripetuta afferma: Egli confessò e non negò e confessò. Il testimone lo fa insistentemente, anche a costo di non essere capito. Pensate ad esempio a questa polemica estenuante sulla Chiesa e sull’Ici. Da quattro anni con dovizia di dati pubblicati continuiamo a dire che l’Ici la paghiamo sugli immobili a reddito, che se questo non avviene è violazione della legge, che se un albergo ha una cappella al suo interno paga ugualmente, che l’esenzione di cui godiamo non riguarda solo la chiesa ma tutti gli enti no-profit sindacali, assistenziali, sanitari, ricreativi, umanitari. E la polemica imperversa sui giornali, sui talk/show, al bar nutrita da luoghi comuni faziosi e irriverenti. Qualunque altro risponderebbe a questa situazione con una serrata dimostrativa. Pensate se chiudessimo scuole, ospedali, centri Caritas, oratori, anche le chiese visto che per qualcuno sono un patrimonio immobiliare. Serve che riapriamo il file delle scuole materne per verificare l’onere che si accolla la chiesa in relazione all’istruzione? Lo stato versa o meglio “dovrebbe versare” 584 euro a bambino della scuola paritaria a fronte dei 5800 che eroga per un bambino della statale. Risparmio 6 milioni di euro annui. Evitiamo di dire che la chiesa deve dare il proprio contributo, perché lo sta già facendo. Però, vedete la tenacia della testimonianza? Non tiriamo giù le serrande, non buttiamo la gente per strada, persuasi di una responsabilità che ci appartiene anche a costo di diventare il bersaglio del tiro al piattello, sport ultimamente di moda nel nostro paese. Attento che però potrebbe non essere il piattello, ma il piatto nel quale mangi o nel quale mangiano i poveri.

3.   Infine Giovanni dice: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete. La testimonianza induce l’attenzione a qualcosa di inatteso. Pensi di conoscere, ma c’è di più. Certo, quelle parole si riferiscono a Gesù. Ma se Gesù rivive nel cristiano, l’inatteso sta proprio lì, in quello che di sorprendente i cristiani riescono a liberare. Libera un po’ di sorpresa evangelica. Nei pensieri, nelle parole, nei gesti. Mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore. Apri l’anno di grazia di Dio con un gesto di sorpresa. Perché chi ti incontra ti dica: così non ti conoscevo. Ma conoscendoti si accorga anche di Qualcun altro. L’unico che può far nuova la vita.

domenica 4 dicembre 2011

Omelia 4 dicembre 2011

Seconda domenica di Avvento

Fragile, isolata, ostaggio dei mercati, è la fotografia dell’Italia in crisi. Cresce la povertà, domina la finanza,s’indebolisce la politica,i giovani sono sempre più penalizzati e cercano lavoro. Non serviva il 45.mo rapporto del Censis sulla situazione del nostro Paese per dirci come vanno le cose. Ce ne rendiamo ben conto tanto che i telegiornali suonano quasi come una minaccia per il nostro equilibrio. C’è una parola che particolarmente ci inquieta: fine. Fine dello sviluppo, fine della prosperità, fine del governo tecnico, fine dell’euro. In queste fini vediamo un po’ la nostra fine e per questo preferiamo cambiare canale.
Forse dunque è salutare quello che abbiamo ascoltato poco fa: inizio. Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio. Se tutto intorno a noi proclama un epilogo, Dio non si lascia travolgere dai funesti presagi e rilancia nei suoi cominciamenti. Di che inizio si tratta, come avviene?

1.    Inizio del Vangelo. Non si tratta di ripristinare gli scenari perduti, ma di ritrovare una buona notizia. E la bella notizia è lui, Gesù, il Figlio di Dio, la sua parola, le sue indicazioni, il suo modo di vedere le cose. Se troviamo lui allora gli inizi riprendono. Il medesimo rapporto Censis segnala ad esempio che, pur nel disorientamento e nella fatica, il 65% degli italiani ritiene la famiglia un valore importante, il 50% indica tra gli obiettivi da raggiungere la riduzione delle diseguaglianze, mentre il 55% ritiene necessario perseguire moralità, onestà e rispetto per gli altri. Forse abbiamo compreso che è finito il tempo delle furberie, che chi evade le tasse impoverisce gli altri, che la famiglia è una risorsa da proteggere e non da disperdere o da colpire. Abbiamo compreso anche il valore della solidarietà se sei Italiani su dieci sono disposti «a sacrificare in tutto o in parte il proprio tornaconto personale per l’interesse generale del Paese». Ecco il vangelo che diventa inizio, parola che si fa storia. Perché questi valori che stiamo riscoprendo hanno alla base un’idea di bene comune che dal vangelo ha preso forma e ha disegnato gli scenari del nostro paese e la convivenza dei suoi abitanti, almeno finché altre logiche di profitto e di utilitarismo non l’hanno estromessa. Nel deserto in cui siamo finiti forse riusciamo a intravedere la via per la quale ritornare.

2.    Gli inizi sono segnati da una voce. Voce di uno che grida. Gli inizi divengono tali se c’è una voce che li indica con coraggio. Ma il segnale che quella voce indica gli inizi è il fatto che gridi nel deserto, in una zona inospitale. Di voci che gridano ce ne sono tante. Ma alcune si guardano bene dal farlo nel deserto. Chi ti sta ad ascoltare? Pensate all’informazione, al modo con cui alza i toni, con speakers del TG che gridano le notizie incalzate da un musica ritmica che fa di tutto per catturare l’attenzione. Quali notizie vengono date? A quali esigenze rispondono? In ogni caso bisogna fare i conti l’auditel che premia e boccia giornalisti e testate. Mentre ero in macchina e seguivo una trasmissione radiofonica si parlava di Aids. Il 1° dicembre era la giornata di sensibilizzazione. Ebbene, a fronte di tante polemiche l’unico giornale che ha messo la notizia in prima pagina è stato Avvenire. Perché? Perché questa notizia non fa vendere, specie se si ricorda che di Aids ancora si muore e che un nuovo contagio si verifica ogni due ore, tremila casi all’anno. Ma come? Ci eravamo illusi che si potesse curare e invece constatiamo che non sempre è possibile. Ci avevano detto che era questioni di preservativi che la chiesa oscurantista vieta di adoperare. Peccato che il contagio si diffonda in gran parte tra chi la protezione non la vuole proprio e non certo perché così stabilisce la chiesa. Allora forse la questione riguarda il senso della sessualità e la sua custodia, riguardi la disinvoltura delle relazioni, riguardi il rispetto di tua moglie quando sei stato con un’altra. E non solo il rispetto per il possibile contagio ma anche per la sua dignità che forse è anche la tua. Ecco, questi discorsi qualora li pubblichiamo, li mettiamo a pagina 20 perché implicano un’idea di sessualità che non è più di moda e che se ti permetti di affermare sei tagliato fuori. Ecco la voce che grida nel deserto. Gli inizi veri sono quelli che non indicano scorciatoie ma strade dove l’uomo viene custodito e non mercanteggiato.

3.    E infine gli inizi sono affidati a qualcuno di più forte. Io vi ho battezzato con acqua, - dice Giovanni - ma egli vi battezzerà in Spirito Santo. Tu inizi se lasci che inizi lui. Il Signore, il suo Spirito. Questo tempo di avvento è l’occasione per lasciarlo iniziare di nuovo. È uscito nei mesi scorsi un libro di Walter Nudo, l’attore di numerose fiction televisive. Nel suo passato c'è una vita da ribelle: la fuga dal servizio militare, il mestiere di spogliarellista negli Stati Uniti, l'esperienza del carcere, il successo grazie al Maurizio Costanzo Show, la frequentazione del mondo dorato e superficiale dello spettacolo. E poi un forte crollo psicologico e morale, una grave crisi economica che lo ha costretto a toccare il fondo, una dolorosa separazione dalla compagna e dai figli fino all’incontro con Dio, sintetizzato in un atteggiamento che è il titolo del libro: Ho alzato lo sguardo. Ecco qua l’inizio, quando alzi lo sguardo verso di lui e da lui ti lasci cambiare. E non serve scrivere un libro: scrivilo in un atteggiamento che affidi al Signore perché da quell’atteggiamento lui ricominci. Inizio del vangelo di Gesù e inizio tuo.

domenica 27 novembre 2011

Omelia 27 novembre 2011

Prima domenica di Avvento

Il mese scorso Alessio Gherlone, 18enne astigiano e talento della primavera del Novara è tornato ad allenarsi sul campo di calcio dopo un brutto incidente stradale del sabato notte trascorso in discoteca tra fumi e alcol. 19 giorni di coma poi il sorprendente risveglio e la paziente riabilitazione. E riabilitazione dell’intera esistenza, perché Alessio comprende che c’è qualcos’altro che deve uscire dal coma insieme al suo corpo: la famiglia, gli affetti e la fede. Riaggancia il rapporto con i propri genitori con i quali non c’era dialogo e riaggancia il rapporto con Dio: «Ho scoperto l’importanza della preghiera, un appuntamento personale e quotidiano a cui non so più rinunciare».
Il coma non è solo conseguenza di un trauma. A volte corrisponde a un’esistenza intorpidita, impoverita e rinunciataria nella quale piombiamo senza rendercene conto. Ecco allora l’invito insistente di Gesù: Vegliate. Lo ripete per tre volte, aiutandoci a comprendere che tale atteggiamento non può essere disatteso o recepito con sufficienza. Ne va dell’incontro con lui, ma anche della restituzione a noi stessi. Quale vigilanza ci raccomanda Gesù?

1.    Il primo vegliate è connesso all’attenzione. Fate attenzione, vegliate. Vivi facendo attenzione a te, agli altri, alle cose che capitano, ai segni di Dio. Si vince il coma combattendo distrazione e superficialità. Abbiamo ascoltato nei giorni scorsi le parole del presidente Napolitano affinché i bambini di stranieri nati in Italia possano ottenere la nostra cittadinanza. Le parole, com’era comprensibile, hanno destato reazioni molto forti, rivelando la complessità della questione. Far attenzione è necessario. Da un lato non si può passare indiscriminatamente dallo jus sanguinis allo jus solis perché questo potrebbe realisticamente esporre ad una nuova emergenza immigrazione. Dall’altro non possiamo dimenticare quei ragazzi di seconda generazione che, pur figli di immigrati, con il paese d’origine hanno ormai ben poco in comune e si sentono italiani. Questi ragazzi non sono solo una zavorra per il nostro Paese che se ancora riesce ad avere un saldo naturale positivo, è solo per la nascita dei figli degli stranieri che costituiscono il 13% dei nati in Italia. Fare attenzione e vigilare significa mettere in discussione la nostra propensione alla vita, al futuro. Pensata alla fatica dell’adozione e alle polemiche relative alle tecniche abortive. Quattro Babbi Natale, guidati dal ginecologo Silvio Viale, che è anche presidente nazionale dei Radicali italiani. hanno recapitato davanti alla sede della Giunta regionale piemontese quattro sacchi pieni di Ru486, la pillola abortiva. Viale ha spiegato: «Costringere le donne alla sola opzione dell'intervento chirurgico è una forma di violenza verso le donne». Peccato che molti altri ginecologi mettano in evidenza la violenza di quella pillola che trasforma l’aborto in un’esperienza solitaria tra dolori e emorragie. Peccato che nessuno ricordi la violenza fatta ad un individuo che non nascerà. Vigilare come il portiere di cui ci parla Gesù vuol dire fare attenzione a ciò che entra in casa nostra e a ciò che esce, distinguere valori da slogan ad effetto, valutare ragioni proprie e quelle degli altri perché non defraudare non tanto il padrone, ma l’umanità del suo patrimonio di vita e di futuro.

2.    Il secondo vegliate è legato a un altro verbo: fate in modo. È un verbo che dice non solo valutazione ma anche azione, creare le condizioni perché qualcosa si realizzi. E qualcosa di importante: l’incontro con Dio. L’incontro alla fine dei tempi non è slegato a quello che comincia già oggi, nella misura in cui lo rendiamo possibile. Ebbene, fa’ in modo che incontro ci sia, per te e per gli altri! Fa’ in modo ad esempio di salvaguardare la relazione col Signore nella preghiera. Oggi noi ne abbiamo perso i tempi e le modalità. E si realizza quello che descrive Isaia nella prima lettura: Noi siamo avvizziti come foglie… portati via dal vento. Viene la crisi economica e siamo disorientati, sopraggiunge una fatica in famiglia e pensiamo alle conclusioni dei rapporti, ci confrontiamo con le cose che non vanno come vogliamo e siamo preda della delusione. Se tu squarciassi i cieli e scendessi!  Prova a dirglielo al Signore. Fa’ in modo di restituirgli un po’ di tempo all’inizio e alla fine della giornata, fa’ in modo che la domenica non si svuoti dei significati che l’hanno generata, fa’ in modo che la preghiera non sia estranea ai significati che suggerisci a tuo figlio, mettendolo in contatto con l’assoluto e preservandolo dal vuoto. Se mai ti vede pregare, all’inizio potrà fidarsi di te, ma quando anche tu sarai insufficiente, a chi affiderà la sua vita? Fate in modo. Quale modo devo attivare per rendere credibile la mia esistenza di cristiano?

3.    La terza volta in cui Gesù dice vegliate è legata a chi lo deve fare. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate. Il rischio del coma appartiene a tutti e l’esigenza della vigilanza pure. E allora l’invito di Gesù ci restituisce ad una straordinaria esperienza di solidarietà. Nel momento in cui vegliamo, nei pensieri, negli atteggiamenti, nella preghiera, non lo facciamo solo per noi, ma per restituire l’uomo, ogni uomo alla sua vocazione autentica, per dirgli: sei fatto di cielo, non tutto è qui. E ogni volta che qualcuno torna a indicare il cielo, il cielo si fa più vicino. Inizia a scendere e ci rende suoi inquilini, risvegliati dal coma. E ci rende meno paurosi perché in quel cielo non c’è aria rarefatta, ma Colui che lo abita e verso il quale la storia è in cammino e che nuovamente torna per ricordarcelo.

domenica 20 novembre 2011

Omelia 20 novembre 2011

Cristo Re 2011
Ascoltando questa pagina del vangelo ci viene in mente il giudizio universale di Michelangelo. Il Cristo che leva energiche braccia nell’esercizio di una giustizia divina che separa i buoni dai malvagi. Venite benedetti del Padre mio… via, lontano da me maledetti, nel fuoco eterno. Gesti e parole che ci sconcertano perché ci consegnano una pagina minacciosa con la quale facciamo fatica a misurarci. È importante però che recuperiamo la fisionomia corretta di quel giudice che appare sulle nubi. Il figlio dell’uomo, quando verrà… verrà come il pastore. L’immagine del pastore ci appare più rassicurante e ci è stata descritta nella prima lettura da parte del profeta Ezechiele. Annunciando il Dio pastore che si prende a cuore la situazione del suo gregge, Ezechiele descrive tre azioni: 1. Egli passa in rassegna e raduna le sue pecore, 2. si prende cura di quelle malate e di quelle grasse forti, 3. giudicherà fra pecora e pecora.
La pagina del giudizio quindi è solo il terzo momento di un’azione più complessa che quel pastore ha già esercitato. E non a caso Gesù parla di sé come il Buon Pastore.
1.    Ecco allora un primo suggerimento. Questa pagina del giudizio universale cessa di impaurirti nella misura in cui conosci Gesù e il suo desiderio di renderti partecipe della sua comunione, della sua vita. Io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Il giudizio lo si costruisce se ti lasci liberare dalla caligine che si diffonde nella vita e accogli il Signore, le sue prospettive, i suoi pascoli. Abbiamo sentito il discorso inaugurale del presidente Monti e i numerosi consensi che ha suscitato mentre veniva interrotto dagli applausi. Problemi chiamati per nome, ricerca serie delle cause, possibili strade da percorrere. Sembrava di ascoltare un linguaggio politico al quale non eravamo più abituati, invischiati com’eravamo nella contrapposizione. Ecco la caligine che riguarda la nostra concezione della politica, della convivenza civile, dell’informazione, da tempo intossicate con dosi di veleno non più sopportabili che, demonizzando sistematicamente ogni espressione dell’altro, hanno generato conflittualità da cui alcune frange giovanili sembrano incapaci di uscire. Forse sono loro oggi l’anello più debole della catena, esposti a falsi pastori che invitano alla rivolta e alla conflittualità sociale oppure mantenuti in zone di stagnazione, magari ben nutriti e coccolati, dimenticando di educarli alla responsabilità e dando loro modo di esercitarla. La Giornata del seminario ci ricorda che anche un giovane può vivere in grande la vita. Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna.
2.    Il secondo atteggiamento è la cura. Quel pastore si prodiga senza risparmio per le sue pecore. Le raggiunge, le cura, le assiste. Ecco il giudizio di Dio si gioca lasciandoti curare da lui. Non solo guidare ma anche correggere, sostenere, guarire. Perché se non lo fai il male ha la meglio su di te e mina la tua salute, la tua vita. Quali sono i mali che ci tolgono vita? Pensate al fenomeno delle dipendenze. E non solo quella da sostanze come quell’universitario trevigiano arrestato al casello autostradale di Portogruaro  con mezzo chilo di ecstasy. A volte la dipendenza sono catene che generiamo in famiglia, nell’ambiente di lavoro, tra parenti. Genitori che non mollano i figli ormai adulti e li sottomettono alle loro pressioni tanto che la madre ha più potere della moglie, la considerazione e la stima dei superiori che diviene regola del proprio lavoro, l’accettazione sociale e il desiderio di apparire disinibiti che ci fa dimenticare il vangelo e a volte anche il buon senso tanto che il figlio si vergogna della volgarità del padre. E tu vivi in funzione dell’altro rispondendo alle sue richieste che ti rendono schiavo. Lasciati guarire da Gesù. Lui è re non perché ha dominato sugli altri, ma perché ha sottomesso le forze che soggiogano l’uomo: l’amor proprio, la ricerca di sé, la voglia di apparire e di far bella figura, il bisogno che qualcuno detti regole sui pensieri, sui comportamenti. Il giudizio di Dio sarà proprio su questo: a chi hai consegnato la tua vita? A quale salvatore?
3.    Ed infine quel giudizio tra pecora e pecora. Sì c’è anche una distinzione. Ma Gesù ci offre il criterio per comprenderla: avevo fame, avevo sete, ero nudo, malato, forestiero. Dio non ti aspetta l’ultimo giorno. Ti dà modo di riconoscerlo ogni giorno nel segno dei poveri e dei diseredati della terra. Perché se lo vedi là vuol dire che non segui gli opinion leader del momento e hai capito che ciò che regge la vita non è il tuo successo, né il tuo benessere e neppure obbedire agli altri ma l’amore. E amore concreto che diventa assistenza: mi avete dato da mangiare, siete venuti a visitarmi, mi avete curato. Questo atteggiamento non serve per risolvere i problemi della povertà. I poveri li avremo sempre con noi, parola di Gesù. Ma servono per guarire le nostre povertà. Ed è forse per questo che i poveri ce li avremo sempre. Per poter riconoscere un destino che ci appartiene e che Dio ostinatamente vuole rivelarci, anche quando non ce ne accorgiamo: quando mai ti abbiamo visto? Non importa, ci vede lui. Vede un uomo vero, non in mano allo spred ma con in mano la carità. Che produce futuro. Sempre, quando lo capiamo e anche a nostra insaputa.

domenica 13 novembre 2011

Omelia 13 novembre 2011

Trentatreesima domenica del T. O.
Investire È esattamente il contrario di quello che oggi ci suggerisce una certa logica di mercato, tanto meno se si tratta dei titoli di Stato. Eppure un imprenditore ha affittato la pagina di un giornale invitando i suoi colleghi e i cittadini italiani a sottoscrivere i titoli del debito pubblico del nostro Paese per alleviare i problemi derivanti dalla tensione speculativa e dalla ridotta credibilità sui mercati internazionali. Contro ogni buon senso dettato dalla prudenza, quest’uomo ha invitato a un gesto coraggioso, di responsabilità lontano da ogni tornaconto individuale e timore, puntando al bene comune. I talenti sono stati impiegati. Com’è diversa tale intraprendenza da quella del terzo servo della parabola che mette tutto sottoterra. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo. Che fai nella vita: nascondi e ti nascondi o traffichi e investi i talenti di Dio? Andiamo a comprendere che ci dice la parabola.

1.    Anzitutto quei talenti variamente distribuiti. Cinque, due, uno. Essi non corrispondono alle capacità dell’uomo perché sono dati a ciascuno secondo le sue capacità. Le capacità dunque sono altro rispetto ai talenti che meglio assomigliano a una ricchezza ricevuta, a pagine di vangelo da far fruttificare. A ciascuno di noi ne è affidata qualcuna secondo quelle doti che ciascuno porta con sé: la pazienza, la creatività, la resistenza, l’incontro, il dialogo, la riflessione. Fa' in modo che il Regno di Dio cresca secondo quelle le doti che ti ritrovi. Pensate alla pagina della solidarietà che abbiamo visto in atto a Genova, anche da parte dei giovani. Gente che non è in prima pagina, ma che è in prima fila nel momento in cui c’è bisogno di aiuto. Talento impiegato. Non si può spezzettare il vangelo: esso va vissuto integralmente, ma vi sono delle espressioni che ciascuno di noi interpreta con particolare efficacia e fedeltà. Forse in questo tempo ci è affidata la pagina della sobrietà e della solidarietà sull’esempio di quella donna di cui ci parlava la prima lettura: fedele ad un quotidiano fatto di lavoro, di gesti semplici e ben custoditi, lontano dallo spreco. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. E quotidiano che non dimentica gli altri: Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Ecco il talento che viene impiegato secondo il vangelo e gli investimenti di Dio.

2.    Ma perché questo atteggiamento non appartiene al terzo servo che seppellisce il talento? Lo dichiara lui stesso. Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. È la paura di Dio e del vangelo. Paura che sia troppo esigente, che ti possa mettere in difficoltà, che ti esponga a dei rischi. Oppure impressione che non si tratti di moneta corrente sul mercato del mondo e che di conseguenza è meglio custodire altrove: conservata ma non investita. Pensate alla situazione politica del nostro paese. Mentre ci si confronta con il cambiamento di scenario governativo, le forze parlamentari sono costrette a togliere la maschera, scoprendo che non ci si può più nascondere dietro responsabilità o irresponsabilità altrui e che quella che viene sollecitata è ora la partecipazione di ciascuno per il bene comune. È questa la nuova moneta che i cristiani sono invitati a liberare, senza paura, anche nella politica. Moneta del disincanto, per non essere vittime di quelli che ti incantano proclamando, come dice Paolo, “pace e sicurezza”; moneta della speranza perché Dio abita anche questo momento storico; moneta del servizio credendo che la politica è e rimane tale, moneta delle scelte costruttive anche se possono essere impopolari e se impongono un prezzo agli stessi politici. Ho avuto paura e sono andato a nascondere. Che te ne fai della forza del vangelo se rimane nascosto e prevalgono altre logiche? Pensate che nei vangeli per una sessantina di volte si parla della paura dei discepoli e per ben venti volte Gesù continua a ripetere: “Non abbiate paura”. Siamo figli della luce e figli del giorno non del nascondimento!

3.    Un’ultima osservazione sulle considerazioni di Gesù ai servi operosi: Sei stato fedele sul poco, ti darò potere su molto. Il padrone non sembra interessato alla riscossione ma a rilanciare l’impegno. Il vangelo è ricchezza che cresce. Fa’ in modo che quello che fai di bene non sia fugace e temporaneo ma trovi stabilità, ti renda consapevole di un’appartenenza e di un potere che puoi esercitare in nome del vangelo. Lo ha ricordato il papa ai giovani volontari convocati da tutta Europa nel giorno di san Martino: «Per i cristiani il volontariato non è puramente espressione di buona volontà. È fondato su una personale esperienza di Cristo». Se appartieni a Cristo è lui che agisce e comprendi che puoi molto, puoi rischiare anche quello che sembra impossibile. Come S. Martino appunto, che da un mantello diviso ha condiviso la vita.
A chiunque ha (ha rischiato, ha investito) sarà dato e sarà nell’abbondanza, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha . Se investi ottieni, se giochi al risparmio perdi tutto. Non ti fidare dei criteri del mercato. C'è un’altra economia da ricercare. Altri fondi che rendono.

domenica 6 novembre 2011

Omelia 6 novembre 2011

Trentaduesima domenica del T. O.

Mentre oggi alle porte della chiesa o di un municipio è lo sposo che attende la sposa e la sposa in genere indugia qualche minuto per farsi desiderare, ai tempi di Gesù le usanze matrimoniali erano diverse. La sposa attendeva lo sposo nella nuova casa insieme alle amiche cui era chiesto di preparare l’incontro. E lo sposo volutamente ritardava per suscitare il desiderio, aumentare la sorpresa, creare qualche domanda. E poteva capitare che l’attesa si protraesse oltre misure normali generando una gara di resistenza nella quale però il sonno rischiava di avere la meglio. Come nella parabola che abbiamo ascoltato con la quale Gesù suggerisce ai suoi discepoli l'atteggiamento dell'attesa, per non essere come quelli che non hanno speranza. Che cosa ci dice della vita cristiana?

1.    Anzitutto ci regala una pagina di giovinezza, di vita che comincia. Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che uscirono incontro allo sposo. Negli scontri indignados che accompagnano questo tempo emerge con frequenza la problematica di un mondo giovanile pesantemente condizionato e mortificato dalla situazione che stiamo vivendo. Qualcuno parla dello sterminio della speranza che conduce a comportamenti riprovevoli anche se non del tutto incomprensibili, come quelli che abbiamo visto a Roma. C’è un lavoro importante da fare. Lo deve fare la famiglia continuando a suggerire a ragazzi e giovani comportamenti responsabili: la preparazione e non la raccomandazione. Lo deve fare la politica con scelte che incentivino il merito e anche il turn-over nelle aziende. Lo devono fare gli stessi giovani perché uno dei dati con cui il nostro Nord-est su confronta è la chiusura di molte aziende ereditate da figli che non avevano né il genio né la tenacia dei padri. In questi giorni è uscito uno studio americano (Jane McGonigal, La realtà in gioco) attribuendo grandi meriti ai video-games, l’uso dei quali da parte dei giovani vedrebbe una sensibile diminuzione della criminalità. È questa l’opzione che presentiamo ai giovani? Mettiamo loro in mano un play-station e la società andrà meglio? Dobbiamo ritrovare la pagina della giovinezza a livello sociale, nella fiducia da parte degli adulti e nella responsabilità degli stessi giovani.

2.    La seconda riflessione riguarda l’attesa che sembra profilarsi oltre il dovuto e che provoca il sonno: Si assopirono tutte e si addormentarono. Il fatto che l’intorpidimento riguardi tutte, ragazze sagge e stolte, ci fa capire che l’evenienza non è in se stessa buona o cattiva. Può capitare: sei sopraffatto dal sonno e dormi. Ad un certo punto però quel sonno è interrotto da un grido: «Ecco lo sposo, andategli incontro». Forse ci sono situazioni dormienti della nostra vita, segnate da un’attesa che va per le lunghe: situazioni dolorose o faticose dove vorremmo un cambiamento che non arriva. Quando hai a che fare con la malattia tua o altrui, quando la famiglia o il lavoro non sono quello che sognavi, quando ti rendi conto che quell’abitudine da cui volevi liberarti ritorna e rallenta la tua vigilanza. A volte avvertiamo l’esigenza di sospendere i pensieri perché vediamo che non ci portano fuori e talvolta acuiscono il dolore. Meglio gestire l’ordinario, fare di necessità virtù, muoversi tra equilibri precari piuttosto che franare. Questo però non deve impedire di sentire il grido nella notte. Ecco lo sposo. Andategli incontro. Il passo da fare è di non rimanere sotto le coltri della rassegnazione e di andare incontro a Dio, ai suoi progetti. Dove Dio ci chiama ad andargli incontro? Ci siamo meravigliati in questi giorni perché un parroco suona le campane alla chiusura quotidiana della Borsa e qualcuno nei giornali rimpiange i vecchi parroci che pensavano al bene delle anime. Ma quelle campane forse vogliono proprio svegliarti dal sonno per non assecondare lo strapotere di una finanza senza regole. Sono un grido nella notte di un’economia cieca e rassegnata a logiche di profitto modello volpe nel pollaio. Ecco dove lo sposo ci chiede di destarci e di andargli incontro.

3.    Infine la questione dell’olio. Non è solo il problema di dormire e svegliarsi, c’è anche quello di alimentare la lampada con una riserva di combustibile che le sagge prendono e le stolte dimenticano. Di che olio si sta parlando? La cruda risposta delle vergini sagge a quelle stolte ce lo fa capire. “Dateci un po’ del vostro olio…”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Non si può dare il proprio olio ad altri: bisogna procurarselo investendo il vangelo, custodendo ciò che produce. L’olio è un cristianesimo praticato. Non a caso, quando le vergini stolte dicono “Signore, signore, aprici”, lo sposo risponde: “Non vi conosco”. Qualche capitolo prima Gesù aveva detto: Non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”. Non importa se lo sposo ritarda. Tu vivi il vangelo e renditi visibile con esso. Raccoglilo in piccoli vasi, giorno per giorno e fanne la riserva della tua vita. Perché quando lo sposo giunge ti trovi e ti riconosca.

lunedì 31 ottobre 2011

Omelia 30 ottobre 2011

Trentunesima domenica del T. O.

Il papa ad Assisi tra i rappresentanti di altre religioni giovedì scorso l’ha ricordato chiaramente. Nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura. Le parole del papa ci mettono di fronte all’incoerenza che anche i cristiani in alcuni momenti hanno vissuto. Distanza tra le parole di pace e di amore custodite nel vangelo in nome del Creatore e Padre di tutti gli uomini e fatti che sembrano smentirle. Una situazione che si presenta anche ai tempi di Gesù e dalla quale egli mette in guardia per non correre il rischio di scribi e farisei accusati di occupare una cattedra importante - quella di Mosè – dalla quale però la parola esce indebolita dall’incoerenza. Quali sono le contraddizioni dei farisei?

1.    Dicono e non fanno. Ai pronunciamenti non corrisponde l’azione, la vita. È quello che talvolta avviene nell’educazione di un figlio: gli diamo per la vita indicazioni che non vedono la stessa adesione da parte nostra. Tra queste anche le indicazioni della fede, col rischio che un ragazzo le segua fino a quando all’osservanza del bambino sulla base dell’autorevolezza dei genitori non subentri la verifica dell’adolescenza in cui le scelte non avvengono perché l’ha detto qualcuno ma per la loro consistenza e per l’effettiva possibilità di essere raccolte e adoperate nella vita. Questo però non significa che le parole non siano importanti. Gesù non invita i farisei al silenzio e neppure i discepoli a non prestare ascolto. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono. Le parole non possono sempre corrispondere ai fatti: esse si dicono talvolta proprio per intuire nuovi orizzonti, nuovi appelli. Altrimenti navighiamo verso un’altra deriva, quella di chi rinuncia a dire alcunché perché le parole sono difficili da applicare alla vita. Pensate per esempio a quando ci troviamo di fronte a comportamenti moralmente discutibili di qualche personaggio. Mentre qualcuno si scandalizza qualche altro sostiene che nessuno può fare la morale. E se qualcuno si azzarda ecco che vengono riesumati i suoi scheletri dall’armadio. La parola non va taciuta, ma la parola deve trovare la forza della partecipazione perché la parola non è mai disgiungibile dall’uomo. Io sono anche le mie parole e se il resto della vita non corrisponde alle parole c’è qualcosa in me che mi nasconde o che rimane nascosto.

2.    Altra incoerenza corrisponde alla portata dell’impegno e alla condivisione di responsabilità. Legano pesanti fardelli che loro non muovono neppure con un dito. Scribi e farisei sono l’espressione di un onere gravoso che però ricade solamente sugli altri. Si potrebbero fare varie osservazioni su questo tempo di crisi e sugli oneri che ne derivano per le parti sociali. Tutti portano il fardello? Art. 31 della costituzione: «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose». L’esperienza sembra dire invece che le famiglie più numerose siano le più penalizzate. Proprio questa componente sociale che ringiovanisce il Paese e pensa al suo futuro in realtà è gravata come ogni altro nucleo familiare. E non c’è alcuna tutela quando intervengono licenziamenti, che sia un single o che sia un padre di quattro figli piccoli. I fardelli che – come si ribadisce – tutti in questo tempo dobbiamo portare, non sono certo gli stessi. Ma il fardello qualche volta è all’interno della famiglia stessa e riguarda la divisione dei compiti e delle responsabilità. L’attenzione ai figli o ai genitori anziani, la cura della casa, la custodia delle relazioni di coppia e di famiglia: chi se ne occupa? A volte c’è una delega irresponsabile che ci rende un po’ farisei, scaricando sugli altri quello che noi non tocchiamo neppure con un dito.

3.    E infine c’è un’incoerenza che non riguarda solo le parole, ma anche le opere: Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente… per i primi posti, i saluti sulle piazze. Le opere non sempre esprimono convinzione credente. A volte esse sono legate alla ricerca dell’apparenza, alla facciata della vita. Riapre il Bolshioi e non puoi mancare sul palcoscenico mediatico. Non stai cercando le opere, ma te stesso, la tua visibilità. A volte può capitare anche in certe situazioni familiari nelle quali qualcuno ha bisogno di apparire. E non solo gli adolescenti. Anche genitori che per non perdere la stima dei figli appaiono sempre accondiscendenti alle loro richieste. O il coniuge che deve apparire sempre piacevole agli occhi degli amici e interpreta la parte del simpatico, dell’elegante, dell’erudito condizionando pesantemente l’altro che vive alla sua ombra sobbarcandosi altri oneri familiari. Ma di cosa hai bisogno? Chi sei veramente? La grandezza che Gesù indica è quella di chi si mette a servizio non quella di chi mette gli altri a proprio servizio. È quella di Paolo che scrive ai Tessalonicesi: Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre… Come una madre, non come una comparsa o uno stuntman. Ci sono tre livelli da mettere insieme: le parole, i gesti e le intenzioni. Solo così la coerenza diviene piena e il vangelo credibile. E sulla grande piazza delle religioni forse potremo rivelare un po’ di più il solo Maestro e l’unico Padre, quello dei cieli.

venerdì 28 ottobre 2011

Omelia 23 ottobre 2011

Trentesima domenica del T. O.

A cinquant’anni dall’inizio del Concilio, papa Benedetto ha proclamato per ottobre 2012 l’indizione dell’Anno della fede. Che ne abbiamo fatto della fede? Questa GMM ci pone ancora una volta di fronte all’esigenza di rendere ragione di quel tesoro di convinzioni e di esperienze che sostiene la nostra vita. La domanda è resa più viva da una decisa scristianizzazione che sta attraversando il continente europeo. In questi giorni ero a Varese a un colloquio internazionale sulla situazione della catechesi e ci facevano riflettere la facilità con cui si perde ogni riferimento religioso e anche quella con cui si passa dall’uno all’altro. In Germania ogni anno diverse migliaia di cristiani aderiscono all’Islam non solo a motivo di matrimoni, ma anche attratti da un’esperienza religiosa che sembra più interessante di quella cristiana: per un certo mistero che porta con sé, per la cultura dei paesi nei quali si è diffusa, per la convinzione dei suoi membri. Mi chiedo se a fronte di questa perdita di interesse non ci sia la mancata comprensione di quanto ci appartiene. Già. Cosa ci appartiene? Qual è il nocciolo della nostra fede. Il vangelo di oggi ci aiuta a ritrovare questa strada. Maestro, nella Legge qual è il grande comandamento?

1.    La risposta di Gesù è nella direzione dell’amore. Amerai il Signore tuo Dio… Amerai il tuo prossimo. Il cristiano si inserisce in una tradizione di fede nella quale l’amore è il principio unificante. E quando si dice amore si dice l’esistenza di un incontro e di un rapporto interpersonale. Se pensi che il cristianesimo sia un insieme di convinzioni, di riflessioni tutto il resto della vita rimane escluso dalla fede. Se pensi che sia una prassi, un operare, un darsi da fare, rischi di non capire perché lo stai facendo. O per chi lo stai facendo. L’amore cristiano non è una massima che illustra bei sentimenti.. Ha sempre un complemento oggetto: amerai il …Signore …il prossimo. Perché? Perché il cristianesimo è persuaso che unicamente stabilendo dei rapporti l’uomo sta in piedi. Quando si isola, quando pretende di diventare autosufficiente, sedotto dalle cose o dalle idee o anche dal distacco da tutto e da tutti, l’uomo in realtà ha già perso se stesso. Il grande comandamento è amore, perché l’amore ti consente di capire che tu da solo non vai da nessuna parte e hai bisogno dell’altro. Chi è quest’altro da amare?

2.    L’altro, dice Gesù, è anzitutto Dio. Da accogliere con il coinvolgimento dell’intera esistenza e di ciò che la compone. Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Non è l’indicazione di uno sforzo volontaristico, quanto piuttosto di una misura da custodire. Se hai scoperto che è l’amore che ti tiene in piedi come uomo, vedi di non ridurlo mai. Dio ti consente di ricordare queste misure, di esercitarle perché non vengano liofilizzate. Con tutto il cuore. Fa’ in modo che nei tuoi sentimenti trovi spazio un legame vero, il desiderio dell’incontro e della festa, il perdono, la generosità. Un amore se non ha tutto il cuore diventa una società per azioni, un condominio. Con tutta la tua anima. L’anima è ciò che ti anima, le tue passioni, i tuoi desideri di bene, di realizzazione, di felicità. Porta quello che ti sta a cuore nelle misure di Dio, nei suoi progetti: supera la funzionalità, il tornaconto, il benessere e pensa al bene tuo e dell’umanità. Con tutta la mente. È l’amore che diviene intelligenza aperta e disponibile, per andare più a fondo, più lontano. Pensate alla questione Dio: proprio il pensarlo consente ai nostri pensieri di esercitarsi, di non chiudersi. Ma solo se pensiamo con amore i pensieri trovano una via d’uscita. Perché l’amore non ti conduce di fronte a un rebus o a un enigma, ma di fronte che nell’amore si dona.

3.    E poi l’amore del prossimo. Amerai il tuo prossimo come te stesso. L’amore verso Dio consente di ritrovare l’amore vero, non i surrogati. L’amore verso il prossimo consente di ritrovare se stessi. Amare l’altro come se stessi non vuol dire semplicemente trasferire la cura che abbiamo di noi all’altro ma vuol dire fare dell’altro la possibilità per ritrovarci per quello che veramente siamo. Pensate alla tragica pagina che ha messo fine alla vicenda di Gheddafi. Un uomo che ha perso gli altri e ha perso se stesso. Ma il modo in cui è stato ucciso, il modo torbido con cui le scene della sua esecuzione ci vengono proposte non dice che c’è un altro uomo che sta perdendo se stesso? La ragione non può mai essere allontanata dalla pietà perché c’è il rischio che possa diventare ostaggio di tiranni più grandi di quelli che si vorrebbero eliminare: i tiranni dell’odio, del rancore, della vendetta della giustizia sommaria, come quella di un diciottenne che si improvvisa giustiziere.

Ecco il cristianesimo. Si inserisce nei circuiti dell’amore e li vive non solo sull’indicazione di questi comandamenti ma secondo il comandamento di Gesù: come io ho amato voi. Continuiamo ad affermare questo, nonostante qualcuno ci abbandoni, convinti che è quello che dobbiamo offrire al mondo e che sia questa testimonianza d’amore l’autentica Giornata Missionaria Mondiale.

domenica 16 ottobre 2011

Omelia 16 ottobre 2011

Domenica ventinovesima del T. O.

Caro direttore, ieri ho fatto eseguire una piccola riparazione in casa. Il tecnico mi presenta il conto : euro 286,50, con Iva 346,67 e aggiunge: «Se non le serve la fattura facciamo 270» che possiamo tirare a 260 (sconto del 9% sull’imponibile). Considerato che nell’anno scorso ho contribuito alle casse dello Stato, solo di Irpef, con 31.530,00 euro, mi chiedo se sia lecito cercare di risparmiare qualche spicciolo senza sentirsi corresponsabili del «parassita della società», come lo definisce la pubblicità ministeriale. (Da Avvenire di questa settimana)
La questione delle tasse è un terreno insidioso dove si accendono gli animi umani e anche individui con gli intenti più virtuosi cercano vie di fuga. La situazione non era diversa ai tempi di Gesù. Anzi qualcuno gli sottopone una questione fiscale sperando di coglierlo in fallo e di trovare un capo d’accusa contro di lui.

1.    Un primo aspetto su cui riflettere è proprio l’insidia. Notiamo che ci sono i farisei e gli erodiani. I farisei erano il partito dei pii, delle persone religiose, e detestavano i romani che vedevano come il male assoluto. Gli erodiani erano il partito che sosteneva la stirpe degli Erodi ed erano
collaborazionisti di Roma. Ebbene tra farisei ed erodiani c’era un odio mortale, ma ora hanno un nemico comune: Gesù. E va eliminato. E notate anche il tono mellifluo con cui la questione è introdotta: «Maestro, sappiamo che sei veritiero, non guardi in faccia a nessuno, insegni la via di Dio». Come dire: vediamo come te la cavi con le tue credenziali, sul terreno scivoloso della vita reale. A volte il senso di responsabilità di fronte ad un ordinamento civile incontra e si scontra con alleanze mortali, anche tra le persone più pie. Il vangelo viene dimenticato ci alleiamo a una legge non scritta che sovverte le convinzioni più solide. Non si tratta di innocenti sotterfugi. A volte una cattiva educazione civica e un vuoto morale impediscono di individuare il bene comune. Il benessere individuale prende il sopravvento e non comprendiamo che la ricerca dell’immediato vantaggio non è separabile dalla paziente individuazione di un interesse generale che appartiene a un gruppo umano. Gesù non si lascia catturare e chiede una moneta. Gli presentarono un denaro. Gesù è nel tempio e quella moneta impura non doveva neppure entrare nel luogo santo. Eppure esce dalle tasche dei presenti con una certa facilità. Gesù sta già facendo capire qual è il vero dio che regola la vita. Un rischio per l’uomo di ogni tempo: la moneta in tasca mia, subito, a scapito del bene di tutti.

2.    Gesù però fa osservare la moneta: «Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?». «Di Cesare». E per Cesare, massimo rispetto da parte di Gesù: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare». Cesare rappresenta l’ordinamento di uno stato rispetto al quale non si tratta di dare, ma di rendere. Rendere perché hai ricevuto: dal suolo, alle relazioni, ai servizi, a quelli che prima di te hanno dato forma a ciò che costituisce l’identità di un paese. Rendi anche il tuo contributo. E ciò che si rende può prendere la forma delle imposte, come gesto di responsabilità di fronte ad un patrimonio da custodire perché continui ad essere ricchezza per me e per altri, oggi e domani. Ma c’è anche una restituzione a Cesare nella forma della consapevolezza che quello stesso stato dovrà mantenere per ritrovare se stesso. Rendere a Cesare ciò che gli appartiene non è solo questione economica ma anche identitaria. Perché non ogni sistema fiscale è equo e anche Cesare può perdere se stesso e il senso del bene comune. I due movimenti però vanno mantenuti insieme. Né sudditanza servile a Cesare, né semplicemente indignados. Pensate per esempio alla questione dell’evasione. Da più parti si sta riflettendo se essa non sia frutto di un sistema che punta unicamente a sanzionare colui che non paga che a premiare il contribuente onesto. Se tu credi che l’altro sia un potenziale evasore, l’altro sarà un evasore! Se io avessi ad esempio la possibilità di scalare dalle tasse l’Iva che pago al tecnico che chiamo, ecco che forse certe contrattazioni clandestine potrebbero essere superate e l’evasione del professionista sarebbe smascherata.

3.    C’è un’ultima esigenza che Gesù aggiunge. Non basta Cesare: occorre anche restituire a Dio ciò che gli appartiene. Se nella moneta c’è l’effige dell’imperatore, c’è anche una moneta con un altro conio. Quella dell’uomo che reca con sé l’immagine di Dio. Allora ogni questione fiscale o economica deve trovare quest’altro riferimento: la salvaguardia dell’uomo, la sua restituzione a colui di cui è immagine. Questa misura economica mi aiuta a custodire l’uomo o mi porta a perderlo? Una politica fiscale che non tiene conto della famiglia, delle possibilità legate alla nascita e alla crescita di un figlio dove ci porta? Di quel figlio ne avrà bisogno anche Cesare. Una politica che non affronta la questione del disagio e taglia fondi destinati all’assistenza, che paese produce? Una società che pensa di cancellare i segni della crisi cancellando i poveri? Bisogna rendere a Dio il suo progetto, quello che intercetta anche logiche di solidarietà che non solo danno a Dio ciò che gli appartiene ma rendono più credibile Cesare stesso, aperto a un progetto del quale anch’egli è parte e servitore. È la strada delle corresponsabilità che Gesù indica e che ancora siamo invitai a percorrere, non solo indignandosi ma anche giocandosi con responsabilità.

sabato 15 ottobre 2011

Domenica 9 ottobre 2011

Ventottesima domenica dl T.O.

Le parole del papa nel recente viaggio a Friburgo hanno col­pito molti, compresi coloro di cui parlava. «Agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei nostri peccati e hanno desiderio di un cuore puro, sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l'ap­parato, senza che il loro cuore sia toccato dalla fede».
Chi è vicino a Dio e chi è lontano? La parabola che abbiamo ascoltato ci fa capire che c’è un invito rivolto inizialmente a qualcuno che oppone un rifiuto. Non se ne curarono e anda­rono chi al proprio campo, chi ai propri affari. Ma Dio non si arrende e ricomincia da un’altra parte: «Andate ora ai crocic­chi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Chi è quell’invitato che trova posto al banchetto? L’agnostico a scapito del credente? Gente religiosa a scapito del cristiano? Non è così facile la divisione, perché se c’è una distanza tra chi rifiuta l’invito e chi vi aderisce, ve n’è una an­che tra chi vi partecipa e chi si dimentica l’abito nuziale. Cer­chiamo di capire chi attende il Signore.

1.    Dio desidera innanzitutto che l’uomo capisca che l’incontro con lui è una festa e nella festa viva la sua esistenza. E non solo in corrispondenza ad alcuni appuntamenti cri­stiani: festa sempre. Come diceva Paolo: sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Posso trasformare ogni istante della vita in una festa. A volte mi pare che facciamo di tutto per renderci la vita tutt’altro che una festa: o perché pensiamo che la festa non esista o perché riteniamo corrisponda a una certa idea che non è quella di Dio. Mi vengono in mente alcune vi­cende familiari. Uno ha una passione o un’attività e quella diviene l’orizzonte interpretativo dell’intera esistenza, sua e degli altri membri della famiglia. È un morbo che colpisce soprattutto gli uomini. Lavoro che ti assorbe e ti isola dalla famiglia con la quale perdi i contatti reali. Oppure un inte­resse, un hobby che condiziona pesantemente gli altri che non ne possono più dei tuoi discorsi, dei tuoi libri, delle tue corse in bici, della tua raccolta di pietre e minerali che in­vadono la casa. La festa che Dio ha in mente deve sempre custodire l’uomo in tutte le sue dimensioni, specialmente nelle relazioni con gli altri. Altrimenti la festa diviene un inferno. Tu vai dietro alla barca e tua moglie va dietro a un altro. E neppure te ne accorgi. Tu hai il lavoro per far fronte al mantenimento e al futuro di un figlio ma ti dimen­tichi che tuo figlio ha bisogno di un padre che sappia dirgli come ci si muove nella vita e non solo in un’azienda, che sia costruttore di senso e non solo di bulloni. La festa è relazione non autocom-piacimento e se dimentichi l’incontro diventi come gli invitati scortesi, presi dal proprio campo e dai propri affari.

2.    Di fronte agli ospiti che rifiutano l’invito, Dio mette in atto un comportamento alternativo e sorprendente. Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chia­mateli alle nozze. Se la festa com’era stata pensata non funziona, Dio riprende da un’altra parte. Mi pare che anche questo sia interessante perché talvolta ci ostiniamo su al­cuni meccanismi che sistematicamente vengono ripetuti e non producono alcunché. Pensate proprio alla logica del matrimonio, a com’è organizzato, a com’è vissuto. Perché quando arriva un invito a nozze la reazione è spesso si­mile a quella di una piccola tragedia che si consuma? Non ci piace la lunghezza di un ricevimento, non ci piacciono alcuni rituali, non ci va di spendere soldi per vestito e per regali. Ma siamo macinati da un meccanismo per il quale fare scelte diverse diviene rischioso. Perché devi rispon­dere ad attese di genitori e parenti, non devi essere di meno di qualcun altro, devi poter invitare il tale che non si sa mai... E devi investire un piccolo capitale, talvolta nep­pure piccolo. E se Dio ci desse appuntamento nei crocic­chi? Se cominciassimo a porre dei segnali differenti nella direzione della sobrietà e della solidarietà? Forse dalla cornice riusciremo a trovare il soggetto: gli sposi, il loro amore. E forse il nostro banchetto sarebbe un po’ più autentico. Ci si può ricordare ad esempio che lo spreco, riso beneaugurante compreso, è tutt’altro che un augurio: è la voce dei poveri del mondo che di riso non ne hanno neppure un pugno al giorno. Vai ai crocicchi e riparti. Da lì ricomincia la festa di Dio.

3.    C’è una terza tappa e riguarda l’abito nuziale. A quel tale che si è introdotto alla festa senz’abito il padrone ricorda la necessità di riconoscere quanto sta vivendo indossando un vestito diverso. Ma habitus in latino prima del vestito indica l’atteggiamento, il modo di essere. Che uomo sei? Ed è proprio per questo che in occasione del battesimo il cristiano riceve una veste: ti sei rivestito di Cristo. Gli at­teggiamenti da assumere sono i suoi. Noi ci cambiamo d’abito in ogni circostanza ma dentro rischiamo di essere sempre un po’ “casual”: casualità, fai da te, viene come viene. Prova a vestirti un po’ di più di vangelo e forse quella festa che cerchi può iniziare. Può iniziare a casa tua, può accompagnare alcune circostanze della vita, può dare agli altri un segnale che la festa raggiunge anche loro. Non perché prendono il tuo posto ma perché tu diventi il posto in cui prende forma una vita altra. Nella festa, appunto. Tua e di tutti.