lunedì 30 dicembre 2019

Omelia Marica Pegoraro


Funerale Marica Pegoraro (30 dic. 2019)

(Rom 8,31-35.37-39 / Lc 2,15-20)


Ormai lo sapete. L’autore di quel bigliettino era lei. Natale alternativo. Due parole che facciamo fatica a tenere insieme, perché tutto vorremmo a Natale, fuorché le alternative. A Natale amiamo tradizioni che si ripetono, luci che brillano, profumo di casa, la cena, il panettone e gli auguri. Marica invece, con il suo stile a volte provocante, ironico e auto ironico, ci conduceva in una sfida: quella di chi cerca di uscire dall’ipocrisia delle apparenze, dalle atmosfere ovattate di buoni sentimenti e prive di verità, da un mondo di regali che paradossalmente ti impedisce di cogliere il dono. Natale alternativo. Come in quella notte da cui tutto prende avvio, con la stessa sorpresa di quei pastori capaci di riconoscere nell’oscurità delle transumanze terrene una luce più grande dei loro bivacchi. «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Betlemme ha la forma di un ospedale, di una camera che ha ospitato il dies natalis di Marica, il giorno del suo grande incontro con il Signore. E come i pastori anche noi ci mettiamo in cammino per riconoscere, pur nella fatica e nel dolore, qualcosa che ci fa bene, qualcosa che ci restituisce a noi stessi, alle cose che contano, alla verità della vita e alla verità di Dio. Su queste direttrici raggiungiamo Marica nella Betlemme che ha pensato di abitare e nella quale ci aspetta.

1.    La verità della vita. La Betlemme di Marica corrisponde anzitutto alla malattia che ha cambiato la sua esistenza. La scoperta risale al 2003. Immaginate che cosa può voler dire questa esperienza per una diciassettenne e per la sua famiglia. Le cure ad Aviano protratte per mesi, diagnostiche e degenza in vari ospedali, terapie farmacologiche durissime, recuperi lunghi e faticosi. I momenti di scoraggiamento non mancano, ma Marica rimane padrona di sé, della sua inquietudine, delle sue domande e di una verifica seria da imprimere alla vita. Una pubblicazione curata dal Centro Ricerche Oncologiche di Aviano, raccoglie la sua testimonianza: «Quando si ha tutto – osserva -  si pensa di avere di più, anche se sono cose inutili... Quando le basi della propria vita cominciano a traballare, si sente che i piedi non poggiano più sulla stabilità, allora si capisce quali sono i valori veri della vita». Inizialmente Marica ridimensiona le sue aspettative: una pizza presa da papà, un pomeriggio con qualche amica che venga a trovarla. «Vivevo alla giornata, quello che mi capitava di fare». Poi una domanda che si fa più insistente: «Com’è il mondo là fuori?». «Quando stavo male ascoltavo la canzone di Vasco: Voglio trovare un senso a questa situazione anche se un senso questa situazione non ce l’ha». E da lì la decisione di esserci, di reagire, di fare della malattia un’occasione di crescita. «Una volta una persona mi ha detto: Beato quell’uomo che ti sposerà. Forse voleva dire: troverà una donna cresciuta, con un’esperienza sulle spalle». Prende forma una nuova Marica, attenta, riflessiva, a volte un po’ pungente che percepisce anche la distanza dai suoi coetanei e che ad un certo punto, provocata dalla scomparsa di alcune persone che vivono il suo stesso percorso ospedaliero, si confronta con la morte. Scrive: «Potevo esserci io al loro posto. Allora penso alle reazioni che avrebbero le persone. Penso a come sarebbe il mio funerale e penso che poteva accadere un anno fa. Perché io ce l’ho fatta e loro non ci sono più? Non so rispondere a questa domanda». Marica ci invita a sostare, a riflettere. Assomiglia a Maria che in quella notte strana, custodiva queste cose meditandole nel suo cuore. Un puzzle paziente di chi cerca di mettere insieme la vita. Un invito a non rimanere in superficie e a dare spessore ai giorni, a non vivere rintanati e a cercare il mondo, a credere che anche le esperienze dolorose ci fanno crescere. Forse non serve pensare al proprio funerale, ci penserà qualcun altro. Ma nel frattempo cerca di vivere e di non farlo a metà. Interroga le destinazioni verso cui ti stai muovendo, non buttare la salute e soprattutto chiediti se oltre a soldi e lavoro non ci sia qualcos’altro. Perché Vasco non ha tutte le ragioni e a questa vita un senso qualcuno riesce a darlo. Natale alternativo è un Natale di verità.
2.    La bellezza delle relazioni. Nella Betlemme di Marica c’è però anche una storia di relazione e di amicizia, quella cui lei teneva tantissimo, quella che parecchi di noi hanno avuto modo di stabilire nei contatti diretti e in quelli della sua ricca e mai superficiale messaggistica telefonica. Lo scorso anno, proprio in questi giorni, uscivano su Voce Godigese i suoi auguri per il 2019. Un piccolo vademecum per i frequentatori della rete e dei gruppi virtuali: le emoticons - diceva Marica - diventino sorrisi veri; i video si trasformino in momenti di vita vissuta insieme; i commenti siano occasioni di crescita dove prima di intervenire, si ascolta; condividere sia un verbo di apertura verso gli altri; l'amicizia sia quella confermata da abbracci sinceri. Marica animatrice aveva sempre in mente i ragazzi del suo gruppo che, anche dopo i vent’anni, rimanevano sempre suoi. Ricordava le ragazze della pallavolo, i compagni di scuola, i colleghi di lavoro e quella particolare famiglia che si era costituita al Centro oncologico di Aviano dove, accanto alle sperimentazioni cliniche, erano le amicizia a far guarire, anche quando non si guariva. Marica aveva scoperto la terapia dei legami: facevano bene a lei e facevano bene a chi lei incontrava, anche perché quei percorsi non finivano nella risacca delle confidenze o delle chiacchiere, ma trovavano la verticalità della preghiera. Marica e Michele, infatti, una volta alla settimana leggevano il vangelo della domenica e pregavano insieme e lui si stupiva di come lei riuscisse a ricordare al Signore persone, vicende e situazioni che lui manco conosceva o aveva in mente. Andiamo fino a Betlemme. Verbo al plurale. Il Natale alternativo di Marica era quello della condivisione che dalle strade della vita non temeva di inoltrarsi sulle strade della fede.

3.    L’amore fino in fondo. Ma le alternative che Marica ci indica sono soprattutto quelle dell’amore e dell’esperienza di famiglia. C’è la famiglia di origine di Marica: Graziella, Bruno, Silvia. Un legame potentissimo tra loro, con Marica che ogni tanto si spazientiva parchè i ze sempre qua, ma anche con una Marica contenta di quel sostegno e che ride delle sue stesse recriminazioni. Par fortuna ghe ze me mamma: no so gnanca bona de lavare un piatto. E poi Michele. Tutto è iniziato nel 2012 con un campo estivo parrocchiale. Sembrava che non lo si dovesse fare perché si era in pochi. Ed ecco la possibilità di farlo insieme con quelli di Resana, pochi anche loro. E così si parte, destinazione Rimini, comunità Papa Giovanni. Finito il campo, Marica comincia a dire: «Beh, vado a Resana». Sera dopo: «Vado a Resana». Terza sera: «Vado a Resana». Finché Bruno che al campo c’era andato anche lui, risponde: «Saluta Michele!». E così inizia la loro storia. Una storia segnata dal matrimonio, 13 maggio 2017, un momento bello, accompagnato da tanta gioia non perché non ci si rendesse conto del quadro clinico di Marica, ma perché c’era la forza dell’amore e la forza del noi. Sentite cosa scriveva Marica a Michele un paio di mesi dopo il matrimonio, prima di un ricovero riabilitativo a Motta di Livenza. Ricordati delle orchidee (ogni lunedì), ricordati del basilico, comportati bene, non bere dalla bottiglia, non fare troppe cose, stai rilassato, attento alla lavatrice, non mangiare schifezze. Ometto altri particolari poco ...edificanti! Ma poi aggiungeva: Ricordati che ti penso sempre. Ti accompagno in ogni tuo gesto e in ogni tuo giorno, ti porto nella mia mano sinistra come sigillo indelebile. Ti amo tanto, non posso stare senza di te. Ti sposerei ogni giorno. Uno dice: che cosa ti fa attraversare l’esperienza terribile della malattia e del dolore? Te la fa attraversare l’amore. Perché ad un certo punto capisci che le lotte non servono più, che è giunta l’ora che hai sempre cercato di allontanare. Com’è capitato qualche giorno fa, il 14 dicembre, quando Marica ha detto a Michele: «Michele, mi no vegno pi fora». E Michele, che non si è nascosto né ha nascosto la gravità della situazione, ha risposto: «Marica, no so cossa che succedarà, ma qualunque cosa capiti io ci sarò. Qui con te». Ed entrambi hanno pianto, insieme, tanto che Marica ha detto a Michele: «Finalmente piangi anche tu». Il Natale alternativo è quello dell’amore che resiste, che c’è anche quando ti verrebbe da scappare. È l’amore che quel Bambino disceso sulla terra è venuto a inaugurare, raggiungendo e illuminando le nostre oscurità. Sono andato a recuperare il fascicolo dell’istruttoria matrimoniale di Marica e Michele, le domande che si fanno ai fidanzati. Perché sceglie di sposarsi in chiesa? Marica aveva risposto: Perché è stato Dio a farci incontrare e perché ci si sposa in tre. Marica sapeva che l’amore con Michele era abitato da Dio e a Dio consegnava i suoi ultimi giorni come gli aveva consegnato tutti gli altri, fedele al titolo di quel libretto di preghiere che l’aveva accompagnata nel tempo dell’avvento: Andiamo con gioia incontro al Signore. Perché lo sposo che tutti attendiamo è lui.

Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? La tribolazione, la nudità, il pericolo, la spada? Il tumore, le chemioterapie, la solitudine dell’ospedale? Nessuno ci separa. L’amore è più forte e le grandi acque non possono travolgerlo. Questo è il Natale alternativo: la mano potente che sfida la morte, l’amore che non ci perde, l’abbraccio cui affidiamo Marica e nel quale chiediamo a Dio di poter dimorare con lei.

giovedì 26 dicembre 2019

Omelia Natale 2019


Natale 2019

Un bambino che consegna una serie di vasetti vuoti, dove una rudimentale etichetta ha la pretesa di dichiararne un contenuto: la prima neve, le nostre prime battaglie. Un vasetto di ricordi invisibili che commuovono chi li riceve. E poi quell’ultimo vasetto, dato alla mamma che attende un fratellino: il suo primo natale con noi. L’avete riconosciuta: è la pubblicità natalizia della Nutella, spot che sa di famiglia, di cose buone, di gioie da custodire. La pubblicità legge i nostri pensieri segreti, le nostre emozioni, i desideri non confessati e su di essi aggancia i suoi prodotti, il suo commercio. Ma se per un attimo ci stacchiamo dalla Nutella e dal business che porta con sé, possiamo riconoscere un messaggio che appartiene alla vita e forse anche alla fede: il monito di fronte a quello che rischiamo di perdere e la sorpresa per quello che un bambino cerca di restituire.

È un tempo – a dirlo non sono i preti ma il Censis - in cui siamo disorientati, in cui il futuro ci inquieta. È il tempo in cui i valori tradizionali  non sembrano più così stabili e condivisibili, carichi di promessa. Anche la vicenda cristiana che ha dato forma a questo nostro Occidente sembra consegnata all’irrilevanza, talora alla derisione. A volte forse giustamente, perché la nostra credibilità è venuta meno e perché abbiamo tirato fuori la parte peggiore di noi; a volte per l’esatto contrario: perché siamo stati coerenti con il vangelo e a qualcuno non è andato bene. specie quando parliamo di solidarietà, di accoglienza e di inclusione. E anche noi,  discepoli del Signore, siamo spesso appesantiti dalla tristezza di chi, in rapida successione sperimenta illusione e delusione.

Ma c’è quel bambino con il vasetto di vetro in mano, il custode della memoria e della speranza. Non il bambino della Nutella,  ma il Bambino di Betlemme. Ancora una volta viene a trovarci, ad animare questa nostra festa per strapparla dai sorrisi di circostanza, dagli auguri di stagione (season greetings!), dai rituali consumistici, per restituirci quello che rischiamo di perdere: la sua presenza e quello che essa porta con sé. Che cosa ha messo nei vasetti?

1.    Nel primo ha nascosto la verità della vita. Il vangelo di questa notte comincia con un censimento. Anche Gesù ci invita a farlo: non quello di Cesare Augusto, ma quello delle cose importanti. Impara a riconoscere quello che vale davvero, impara a distinguerlo dalle cose inutili, superflue o ingannevoli o semplicemente da quelle che vengono dopo. Oggi sono stato a trovare una giovane donna in ospedale. Un male che ritorna e che mette alla prova lei, i suoi genitori, il marito. Come va? Fa fatica a parlare e scrive le sue risposte su un foglio di carta. Natale alternativo, ha scritto.  Tornando pensavo a queste parole e pensavo a loro due, marito e moglie che vivono il Natale così. E pensavo alle nostre giornate, al tempo che non ci basta mai, al lavoro e al denaro che fanno da padroni sulla nostra vita, sulla nostra famiglia, sulla nascita di un altro figlio. Dobbiamo aspettare di star male per rendercene conto? Quando verrà il Natale alternativo che ci restituirà alla verità? Papa Francesco nella lettera dedicata al presepe, ricorda che una certa tradizione iconografica porta a collocare accanto alla grotta le rovine di case e di palazzi antichi. Quelle rovine sono il segno dell’umanità decaduta, di ciò che è corrotto, intristito. Occhio a quello che va in rovina, occhio a quello che promette e non mantiene. Occhio a chi assicura gioia e distribuisce stordimento. Il tragico bilancio legato al mondo del divertimento notturno di un paio di settimane fa è sparito velocemente dai giornali. Nessuno mette in discussione il mondo della notte, tanto meno chi potrebbe e dovrebbe rivedere orari che scombinano il tempo del lavoro e del riposo. Sono rimaste solo le madri di questi ragazzi che gridano col loro dolore: Aiutateci a fermare questa strage. Ritrova le cose importanti, ritrova le persone importanti, ritrova la gioia vera.

2.    Nel secondo vasetto c’è la gloria di Dio. La cantano gli angeli di Betlemme con i loro movimenti tra la terra e il cielo. Gloria vuol dire peso, consistenza. Perché l’angelo è mandato proprio per questo, per dirci che Dio è una questione importante, che pesa nella nostra vita. Perché noi portiamo impresse le tracce dell’eterno. Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te (Agostino).

Nel Corriere di ieri c’era un articolo: Volete fare un regalo ai figli? Tre idee intelligenti: il riscatto della laurea, un fondo per avviare un’attività imprenditoriale, una stampella per la pensione.

E intanto una sedicenne a Milano si butta sotto il treno: non fosse stato per la prontezza di un tecnico della metro, un papà che ha agito come se vedesse sua figlia, il bilancio sarebbe stato drammatico.

Forse ai figli possiamo regalare un po’ di cielo, abitato magari dai dubbi e dalle nostre ricerche, ma mai dalle nostre svalutazioni o derisioni. Perché deridere le fede, vuol dire mortificare l’uomo e prestare il fianco alla presunzione di saperne una pagina in più, mentre la conoscenza ci vede sempre scolari.   

Giacomo Poretti, il comico, ricorda che da bambino era incuriosito dalla figura del pastore che metteva mano alla fronte e guardava in alto. E osserva:  Anche adesso, dopo quasi 60 presepi, quella statuina, ereditata, continua a incuriosirmi e a preoccuparmi. Perché fa così fatica a vedere? Possibile che non abbia ancora imparata la strada?  …Alla fine mi sono affezionato a quella strana statuina. Gli voglio bene perché a volte sento lo stesso smarrimento, la stessa miopia, lo stesso astigmatismo. Proprio perché siamo miopi Dio ci viene a trovare a Natale. Smettila di guardare lontano: cercalo dentro di te, forse scopri la sorpresa di essere abitato. Questa è la gloria di Dio!

3.    Terzo vasetto. C’è scritto pace. Quando ci manca, è la cosa che più ci manca. La pace dentro e la pace fuori. La pace dentro, perché a volte non siamo contenti di noi stessi, della nostra vita. La pace fuori, perché a volte con gli altri le cose non vanno bene. Gesù viene a custodire la pace. È bella la provocazione di Banksy, l’artista britannico della street-art che a Betlemme ha realizzato un presepe sotto una ricostruzione del muro che separa Israele dalla Palestina, nuovo muro del pianto, per tanta gente. Solo che al posto della stella ha realizzato un buco, come se fosse lo sfregio di una granata. Forse il messaggio è: fa’ in modo che la granata diventi una stella. Metti da parte l’arsenale bellico delle offese, dell’odio, della vendetta e ricomincia. Prova a ripetere quelle parole, all’inizio e alla fine di ogni giornata, con ostinazione, senza pretendere che il canto degli angeli disarmi il nemico, ma disarmi il tuo cuore, finalmente libero, finalmente in pace. Non ci sarà più bisogno della Nutella, ma non ci sarà più bisogno neanche degli angeli, perché l’angelo diventi tu. E sarà finalmente il buon Natale.

domenica 1 dicembre 2019

Omelia 1 dicembre 2019

Prima domenica di avvento - 2019
Giovanni Papini è uno scrittore fiorentino di inizio ‘900. Suo padre riteneva il cristianesimo detestabile, sua madre aveva fatto battezzare il figlio di nascosto. E il ragazzo cresce in un ambiente contrastato, segnato dall’ostilità nei confronti della fede ma anche dall’inquietudine rispetto ad un finito che non convince. Sono gli anni del positivismo, dove la scienza sembra essere la ragione di tutto, ma anche gli anni della critica al a quel pensiero cui sfugge qualcosa. E infatti, Papini, poco prima della sua conversione, scrive: “In un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura. È necessario uno svegliatore notturno che smantelli per dar posto alla luce”. Lo svegliatore notturno. Mi pare una bella immagine per iniziare il tempo di Avvento. Perché anche noi apparentemente effervescenti e dinamici siamo interiormente addormentati, soggetti ad un’anestesia dove qualcuno mette mano alla nostra fede e ne altera i significati. Non addormentarti. Lo raccomandava anche Paolo: Fratelli, è tempo di svegliarvi dal sonno. L’avvento è lo svegliatore, il tempo in cui Dio ci restituisce a noi stessi e alla vita che ha in mente lui. Come? Con alcune attenzioni da avere.
1. Occhio ai tempi di Noè. Mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito. Sembrano azioni normali, necessarie, ma un verbo tradisce questi atteggiamenti. Mangiavano. In greco trogo, da cui deriva trogolo. È il pasto degli animali, di chi pensa a riempire la pancia e si dimentica dei significati, degli orizzonti, degli altri. Siamo noi, preoccupati del black friday e incapaci di individuare occasioni che non siano solo quelle di Amazon. Siamo noi che lamentiamo disservizi e latitanze pubbliche e neanche conosciamo il dramma di quegli afgani disperati respinti con brutalità al confine tra Bosnia e Croazia. Siamo noi che giudichiamo esagerate le richieste di una parrocchia mentre un figlio si prepara alla prima comunione e non ci rendiamo conto del diluvio che sta scendendo sulle giovani generazioni prigioniere di un mondo che ha messo di fronte a loro un display al posto del cielo. Mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito. Sembra una vita tranquilla, una vita buona, ma è una vita che non alza lo sguardo.
2.   Fatti coinvolgere. È un’altra immagine che Gesù ci suggerisce: Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. A volte pensiamo che questa immagine contenga la morte, che ci prende, che ci porta via. E così ci identifichiamo in chi viene lasciato, sperando di sfuggire agli artigli del baratro. Invece chi ci prende è il Signore, che ci desta, che ci chiama a collaborare, che ci rende capaci di risvegliare il mondo. Lasciati prendere dalla sua iniziativa, dai suoi disegni, dal suo stile. Un tribunale del Bangladesh questa settimana ha condannato a morte i sette invasati che tre anni fa torturarono e uccisero i commensali di un ristorante di Dacca, ritenuti infedeli. Tra le vittime vi furono nove italiani. Dopo la sentenza Luciano Monti, che nella strage perse la figlia e il nipotino che portava in grembo, ha detto: «Mi fa rabbia sapere che non si sono pentiti, però la loro morte non è una consolazione né una soluzione». È giusto cercare la giustizia, ma i giudizi cristiani vanno oltre e hanno sempre a che fare con Dio, specie quando c’è di mezzo la vita degli uomini. Làsciati portare da lui. Lasciati prendere dal vangelo e dalla sua inesauribile audacia.
3.    Impara a vegliare. Gesù la dice con l’immagine del ladro che non avverte della sua visita. Attento a chi ti ruba a te stesso. Abbiamo visto la donna con la svastica sulla schiena che si faceva chiamare miss Hitler: a volte il ladro lo portiamo tatuato, si imprime nella nostra carne, nelle nostre scelte. Abbiamo però visto anche quel tale che ha disarmato l’attentatore di Londra. Anche lui era un assassino, che forse ha raccolto un’occasione per essere diverso. Perché il ladro lo possiamo riconoscere meglio quando ladri siamo stati anche noi, a partire dai nostri errori, dalle nostre nefandezze, credendo che le cose possono cambiare. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra.
Vegliare vuol dire scorgere le prime luci di un giorno nuovo, quello che anche quest’anno lo svegliatore ci regala.

domenica 17 novembre 2019

Omelia domenica 17 novembre 2019


Trentatreesima domenica del T. O.

L’ondata di maltempo e l’acqua granda di Venezia ci mettono di fronte alla fragilità della vita, a eventi che possono scuotere le nostre sicurezze disegnando un futuro incerto e inquietante. Ma sempre Venezia ci regala anche altri tipi di immagine: quelle della solidarietà, di adulti e giovani che non si lasciano sommergere dall’onda anomala e liberano energia, prossimità, risorse di tempo e di ingegno e si mettono a servizio gli uni degli altri. Il vangelo di oggi è così: Gesù annuncia che gli equilibri di questo mondo sono sempre incerti, che anche i riferimenti che appaiono solidi sono soggetti a una fine, ma non per questo è la fine di tutto. Qualcosa passa e qualcosa resta. C’è l’onda ma c’è anche una barriera, un po’ più efficace del Mose. Cosa passa e cosa resta? Verificare le costruzioni della vita, le persone con cui abbiamo a che fare, la perseveranza che ci appartiene.

1.    Anzitutto le costruzioni. Il discorso di Gesù prende avvio dal tempio, dalle belle pietre e dai doni votivi che ornavano i grandiosi edifici realizzati da Erode il Grande. Un’opera di cui la gente di Gerusalemme andava fiera. Ed ecco le parole di Gesù: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». L’allusione è a quello che sarebbe accaduto nel 70 d.C. con la distruzione della città da parte dei Romani. Occhio, sembra dire Gesù a quello che costruisci, alle pietre che metti una sopra l’altra, perché l’edificio vero non è quello in muratura ma quello che è ogni uomo. Prendi con responsabilità la tua vita, le tue scelte, il tuo lavoro, la tua fede. Diventa tu il tempio di Dio. Come ricorda Paolo ai cristiani oziosi di Tessalonica: Chi non vuol lavorare neppure mangi. In questa settimana ci ha stupito la decisione di un concorrente de L’eredità che ha scelto di ritirarsi dal gioco, dopo numerose puntate nonostante potesse ancora vincere. È un giovane docente torinese che si è congedato dal pubblico perché i suoi studenti a scuola lo stavano aspettando. «Quando uscirò da questo studio lo farò con la consapevolezza di chi guadagna la strada maestra, perché il mio posto è là: ogni mattina in prima linea nella missione quotidiana dell'educazione e dell'onestà». Ecco l’eredità vera, quella che appartiene al quotidiano, lontano dai riflettori e dalle telecamere, lontano dal successo e dallo spettacolo ma che costruisce futuro, solidità, attenzione alle questioni importanti della vita, alle scelte che sei chiamato a fare. Non fermarti alle pietre, diventa una pietra.

2.    Altro aspetto su cui esercitare il discernimento sono le persone che ci vivono accanto: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!». Stai attento, dice Gesù, alle proposte che incontri, alle promesse che insegui. Guarda che c’è qualcuno che ti inganna. Stai attento a chi prende il posto di Dio e ne rovescia il nome: Sono io. Pensate ai significati della domenica, alle cattedrali del consumo che anticipano sempre più il Natale e ne alterano i significati. Pensate a quel bambino in Belgio al quale i sanitari dell’ospedale di Bruges vogliono disattivare i supporti vitali nonostante l’opposizione dei genitori. In Italia ne dà notizia solo l’Avvenire. Perché? Perché ormai c’è una sola divinità che decreta la vita e la morte: il protocollo sanitario. Non andate dietro a loro. Continua ad appassionarti per la vita, a custodirla con il cuore di Dio. Continua a dire la tua, a offrire ragioni diverse da quelle del pensiero dominante perché la verità non è decisa dai like o dalle mode, ma dal giorno rovente come il forno di cui ci parla Malachia. Salva l’oro e occhio alla paglia.

3.  Infine Gesù ci invita a fare attenzione anche alla perseveranza nella fede. Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Tra gli sconvolgimenti che Gesù prevede c’è anche l’attacco subdolo o violento contro i suoi discepoli. Sono 300 milioni i cristiani perseguitati, secondo l’ultimo rapporto della fondazione Aiuto alla chiesa che soffre. Ma a volte c’è una persecuzione anche più vicina che non è meno pungente. E riguarda famigliari, amici, gente cui vogliamo bene. Quando arriva l’invito alla festa di classe e qualcuno del gruppo risponde che viene alla cena, ma non al varietà religioso che la precede, subito sorridi per quella che sembra una battuta. Poi senti che quelle parole ti feriscono, perché per te nella messa c’è qualcosa di importante, Qualcuno di importante. Ma ecco la chance che Gesù di nuovo apre: Questo vi darà occasione di rendere testimonianza. Mentre arriva l’onda della secolarizzazione non rinunciare a dare testimonianza. Alla fede di chi dalla fede prende distanze penserà il Signore quando vorrà. Intanto però lui sta pensando a te, a dare forza alla fede tua. Continua a credere perché nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Fa’ dell’onda un’occasione per crescere, per rimanere al tuo posto. Perché alla fine sarà quel posto che salverà te e anche quelli del varietà, ai quali andrà forse il merito di averci irrobustito. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita. Dio non ci risparmia le contraddizioni: in esse ci dà appuntamento, in esse prepara la sua novità, non senza di noi.


mercoledì 6 novembre 2019

Omelia esequie Giuliana Toniolo


Omelia esequie Giuliana Toniolo Marchesan - 6 nov. 2019

(Rom 8,31-35.37-39 / Lc 24,13-35)


La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, due discepoli erano in cammino. Anche don Stefano ed io domenica sera eravamo in cammino, verso la casa di Giuliana. E in quel cammino, appesantito dalla tristezza per il messaggio che poco prima ci era arrivato, non eravamo da soli. C’erano Alfredo, Valentina, Leonardo, Davide, i famigliari di Giuliana e altre persone che le volevano bene. E c’era lei, Giuliana, che ci aveva appena lasciato, sul cui corpo, oltre all’acqua benedetta, scendevano lacrime, domande, inquietudine e la fatica di stare in un guado che non avremmo voluto attraversare. Anche noi eravamo simili ai discepoli di Emmaus, fermi col volto triste e incapaci di riconoscere il Signore. «Tu solo sei così forestiero a Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». A volte abbiamo l’impressione che il Signore sia forestiero, a Gerusalemme come a Godego, lontano dalle nostre tribolazioni, da quello che ci attanaglia il cuore, dalle nostre speranze di guarigione. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele. Quante volte anche Giuliana viveva il dramma delle speranze infrante, di fronte alle diagnosi cliniche che si susseguivano impietose: Ma possibie che par mi no rive mai nostra bona notissia? Giuliana però non si fermava a quelle sentenze e lei, indomabile, come spesso si definiva nei social, aveva intrapreso un cammino in cui, alla lucidità e alla grinta con cui viveva la malattia, si aggiungeva, insieme alla salutare presenza di tanta gente, la compagnia del viandante di Emmaus che regalava ai giorni nuova consapevolezza e profondità. Di questo singolare itinerario vorrei ricordare tre aspetti: i passi, le parole, i segni.


1.    I passi. Di passi Giuliana ne ha fatto davvero tanti. I passi della sua giovinezza, di una ragazza schietta e solare capace di colpire il cuore di Alfredo e di intraprendere una vicenda famigliare, i passi accanto ai suoi figli imparando a dosare tenerezza e libertà, i passi dell’esperienza professionale a volte non priva di fatiche. i passi - tanti! – in questa comunità parrocchiale che ha visto Giuliana muoversi tra questa chiesa, scuola materna, canonica e oratorio, senza guardare l’orologio, per sistemare dei fiori, riordinare gli armadi, fare catechismo, organizzare il grest. Erano proprio le doti organizzative a renderla così speciale, in un turbinio di attività dove Giuliana riusciva a incastrare tutto, compresi i suoi figli che spesso si trovavano, loro malgrado, a tenere tese le lunghe tovaglie dell’altare mentre la loro madre le percorreva in lungo e in largo col ferro da stiro. «Questo ze l’ultimo anno», esordiva. Ma era una specie di mantra che la rendeva ancor più convinta di quello che stava facendo. Venerdì scorso, quando ho visto Giuliana per l’ultima volta, mentre mi raccomandava di non dire troppe cose al suo funerale, io le ho chiesto: «E ti, cossa vuto dirghe a sta parrocchia?». Ci ha pensato, ma neanche tanto e con un filo di voce ha esclamato: «Grazie. Grazie parchè ze stato beo». I passi di Giuliana, che pure hanno attraversato una malattia dai tratti oscuri e impertinenti, alla fine sono passi di bellezza e di gratitudine, di chi, nonostante tutto quello che ha dato, si stupisce per la sproporzione di ciò che ha ricevuto. Grazie. Una parola importante che riempie la vita di verità e che ci aiuta a ricordare che quello che siamo, il bello che ci appartiene è legato ad un dono che dalle mani di Dio ci arriva rimbalzando nelle mani degli altri. Anche di Giuliana, alla quale anche noi oggi diciamo grazie.


2.    Le parole. «Non ci ardeva forse il cuore quando parlava con noi lungo la strada?». Il servizio nella catechesi dei ragazzi ha portato Giuliana a dare attenzione alla sua preparazione e ad approfondire qualche percorso biblico. Aveva una fede informata e formata all’ascolto, come testimoniano alcuni volumi della sua piccola biblioteca catechistica. Ma non era donna che si attardava tra i libri. L’ascolto di Dio per lei era collegato alla vita, a quello che succedeva e a quello che le succedeva. E come si metteva in ascolto, così parlava, anche al Signore, con la temerarietà di chi qualche volta metteva sottosopra anche il paradiso. «Coraggio, Giuliana, le avevo scritto il 2 ottobre. Oggi è il giorno degli angeli custodi. E lì con te ne hai qualcuno, con le ali e senza ali». Risposta: «A sto riguardo se sentimo». Come a dire: attento a non esagerare con gli angeli. Con lei non si poteva barare e non si potevano usare parole di circostanza. Specie nel momento in cui le si è profilata davanti la parola più impegnativa che non è da dire o da ascoltare, ma da portare: la parola della Croce. Verso metà ottobre don Stefano le aveva chiesto se avesse voluto la comunione. Risposta: «Ma mi soi in comunion col Signore?». «Me par de sì, aveva aggiunto don Stefano, te si in croze co lu». E a quel punto lei aveva annuito e le erano uscite due lacrime. Da quel momento la croce che d. Stefano le aveva regalato e che fino a quel punto era chiusa nel cassetto, aveva trovato posto poco sopra il suo letto, come se Giuliana e Gesù condividessero la stessa realtà. Stolti e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti. Non bisognava che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria? Perché bisognava? Per essere accanto a tutti i crocifissi, per aprire in ogni sofferenza un varco di libertà. Giuliana lo aveva compreso e lo aveva accolto, riguadagnando per sé le parole che abbiamo ascoltato poco fa: Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Forse la tribolazione, la nudità, il pericolo la spada? Noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 


3.    E infine i segni. Essi raccolgono i nostri passi e le nostre parole e li trasformano in persuasione, in varco, in promessa. È quello che avvertono i pellegrini di Emmaus quando il forestiero che li accompagna fece come se dovesse andare più lontano. Gesù ci porta sempre un po’ più in là di quello che pensiamo, delle nostre umane destinazioni. E i viandanti che hanno assaporato la bellezza della sua compagnia, non se la lasciano sfuggire: «Rimani con noi perché si fa sera». Rimani con noi, Signore, perché il grande male che ci attanaglia è la solitudine, il vuoto che sperimentiamo sulla terra e il vuoto che talvolta vediamo nei cieli. Ed egli entrò per rimanere con loro. Anche per Giuliana è andata così, anche lei ha conosciuto il Signore nel momento in cui ha spezzato il pane, nel momento in cui ha ricevuto l’unzione degli infermi e la comunione. Allora i loro occhi lo riconobbero. Ecco il segno. Non è stato per niente facile l’approccio sacramentale, ma chi conosceva l’indomabile ha visto da quel momento la nascita di una nuova Giuliana abitata dal Signore. Una Giuliana che non aveva più paura della morte, ma ne parlava con tranquillità, a suo marito e ai suoi figli, a chi la andava a trovare continuando a ripetere: «Mi so in pace. Desso so in pace». Venerdì ha fatto chiamare anche me. Entrando in camera ho chiesto: «Eora, come zea?». Risposta: «Apri». «Apri cosa?» ho domandato, pensando di dover aprire una scatola o un cassetto. «Apri le tue braccia» ha aggiunto. Parlava di sé e parlava di Dio e ne parlava con le parole di un canto che in quel momento diventava la sua vita. Apri le tue braccia, corri incontro al Padre. «Sei pronta?». «Sì».

I passi, le parole, i segni. Anche Giuliana è stata un segno: della velocità della vita, della fragilità che ci appartiene. Ma anche della speranza che ci abita, dell’importanza dei legami e delle sorprese di Dio.

Apri le tue braccia, Giuliana. E in quell’abbraccio di risurrezione e di vita continua a rimanerci vicina, a vegliare sulla tua famiglia, sui tuoi amici e su questa comunità. 

giovedì 24 ottobre 2019

Omelia esequie Evaristo Fogale


Funerale Evaristo Fogale (23 ott. 2019)

(2Cor 4,14-5,1 / Mt 11,25-30)


«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli». Anche Evaristo apparteneva ai piccoli del vangelo e anche a lui Dio ha rivelato i misteri del regno dei cieli. Misteri che questo anziano ha accolto e custodito con tenacia e semplicità in novantanove anni di vita e di fede, nei quali mai il credente ha abbandonato l’uomo. Noi separiamo, ci ricordiamo di essere cristiani quando veniamo in chiesa, quando marchiamo le distanze da altre religioni. E ci dimentichiamo che l’incarnazione segna il nostro quotidiano.  Evaristo invece era un uomo unificato, riempito di Dio dalla testa ai piedi, per niente disposto a rinunciare a tale tesoro e in grado di suggerire una sapienza che non si trova sui mercati del mondo. Che cosa ha capito Evaristo di Dio, quali misteri gli sono stati affidati? 
Venerdì, quando il quadro clinico iniziava a presentare più di qualche criticità, sono stato a trovarlo. Credo uno degli incontri più belli che questo paese mi ha regalato. Inizialmente guardava me e suo figlio Giuliano, un po’ disorientato, come se volesse dire: Ma chi zeo sto qua? Quando ha realizzato chi ero, ha alzato la testa dal letto, ha fatto un sorriso larghissimo e con l’energia che ancora possedeva mi ha stratto a sé e mi ha dato tre baci. E allora è partito con le frasi che gli erano familiari. Frasi ricche di vangelo, teologicamente aggiornate pur con qualche termine che non usiamo più. Frasi che anche Evaristo deve aver udito, forse da suo padre, anch’egli uomo di fede o forse da mons. Pasini o da qualche altro uomo di Dio.

Vi dico queste frasi perché in esse ci sono i misteri del regno dei cieli, quelli che Evaristo ha incontrato e quelli che oggi ci consegna.

1.    La prima frase. Dio non è lontano da noi. È nel cuore di ognuno di noi. E Evaristo tirava via la coperta e si metteva la mano sul petto, come se in quel noi volesse far capire che c’era anche lui e che Dio lui lo custodiva nel cuore. Quante ne ha passate Evaristo in novantanove anni di vita? La povertà, la guerra, i tentativi di riscatto e di risalita, l’orgoglio di costruire una casa, di farsi una famiglia. Ma in queste vicende c’era sempre un Dio che lo accompagnava. Tanto che lui poi aggiungeva con una certa enfasi: El Signor o ga dito: io sono con voi tutti i giorni, fino alla consumasione dei secoli. Che bella questa persuasione: guarda, sembra dirci Evaristo, che c’è più di quello che si vede, guarda che il mondo è abitato dal mistero, guarda che Dio segretamente ti accompagna e ha cura della tua vita. Dov’è Dio? Il catechismo su cui ha studiato Evaristo diceva: in cielo, in terra e in ogni luogo. Evaristo recuperava il dato evangelico più genuino: Dio con noi. Un mistero di vicinanza e di comunione. E' più vicino di quel che credi e di quel che non credi. 

2.    Ma accogliere Dio vuol dire anche entrare nei suoi progetti. Ed ecco la seconda frase di Evaristo, quella che ripeteva di continuo. Non la mia ma la tua volontà! Non è sempre facile fare la volontà di Dio, specie quando il vangelo indica prospettive che ci sembrano poco aggiornate o addirittura perdenti. E allora c’è sempre il rischio di fare la propria volontà e di riscrivere il vangelo secondo me. Pensate a quando gli altri ci interpellano: la volontà di Gesù è che ci amiamo gli uni gli altri, che ci perdoniamo, che ci diamo una mano. Evaristo che teneva così tanto alla sua famiglia, cercava di mantenere la cordialità anche con il resto del mondo: senza cedere all’intolleranza, senza mai cacciare nessuno di chi gli suonava alla porta, senza innescare micce né offendere e dosando attentamente le parole, piuttosto subiva. E quando qualcuno gli suggeriva altre logiche più sbrigative o logiche poco cristiane, lui portava tre dita raccolte alla fronte, picchiettava e diceva: Cucchetti, no capì che cussì non se va da nessuna parte? Ecco la volontà di Dio: seguire non i pensieri alla moda, ma il vangelo, le strade della pazienza, del perdono, della solidarietà.

3.    E infine le ultime parole di Evaristo, quelle che hanno accompagnato l’unzione degli infermi. Avevo un po’ di timore nel dirgli che gli davo l’olio santo, ma quando l’ha saputo, ha fatto un altro dei suoi sorrisi, ha tirato fuori la mano destra da sotto le coperte, l’ha passata più volte sulla fronte unta con l’olio e poi, con calma, si è fatto il segno della croce. Con la sua giaculatoria preferita: Tu sai tutto, tu sei tutto. Come se volesse dire: Signore, tu conosci chi sono, la mia povertà, la mia debolezza. Ma anche: Tu sei tutto: tutta la misericordia che cerco, l’eterno che aspetto. L'eterno era una parola famigliare per Evaristo: Dio è eterno, diceva, ma anche noi abbiamo la vita eterna: chi crede ha la vita eterna! Noi così segnati dal tempo siamo fatti di eterno! E di lì a due giorni l’Eterno sarebbe venuto a prenderselo, domenica sera, mentre Evaristo alzava gli occhi e le mani come se quell'eterno l'avesse voluto salutare ed accogliere.

Fratelli, siamo convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Evaristo sapeva che andava accanto al Signore. A quell’abbraccio lo consegniamo e in quell’abbraccio preghi ancora per noi.

Omelia 20 ottobre 2019


Ventinovesima domenica del T. O.

Jean Marie Ploux è un prete francese che scrive delle cose interessanti. In un libretto che si intitola Dio non è quel che credi, immagina che Dio se ne stia in una piccola chiesa inginocchiato a pregare. Un fedele è incuriosito e si avvicina. Dice tra se: "Chi starà pregando? Non può pregare se stesso!". Ad un certo punto intende bene: Dio sta pregando l’uomo. E metteva in dubbio l’uomo come l’uomo mette in dubbio Dio. Nella sua preghiera Dio infatti diceva: “O uomo! Se tu esisti, dammi un segno!”. Allora il fedele esclama:“Dio mio, sono qui!”. E Dio risponde: “Miracolo! Un’apparizione umana!

Oggi il vangelo ci parla di preghiera, ma forse ha ragione J. M. Ploux. La preghiera non è tanto la questione dell’assenza di Dio, quanto dell’assenza dell’uomo. Ci pare che Dio non esista, che Dio non risponda, ma l’uomo ha cessato di sostare presso Dio, di interpellarlo, di farne l’interlocutore della sua ricerca. Un uomo che dica. «Dio mio sono qui». E un Dio che si stupisca: «Miracolo! Un’apparizione umana».

Cosa vuol dire pregare? Gesù ci invita a farlo sempre, senza stancarci. Ma questo domanda qualche cambiamento di prospettiva che la parabola ascoltata ci suggerisce.

1.    Anzitutto una vedova che chiede giustizia. La vedova appartiene ad una categoria sociale debole, di gente scartata. Anche se la legislazione ne prescriveva la protezione, i soprusi erano all’ordine del giorno, tanto che Gesù, in un’altra occasione, parla di scribi che divorano le case delle vedove. Ma qui c’è una vedova che non solo non si rassegna al sopruso che sta subendo, ma neppure al fatto che chi è preposto alla giustizia tardi ad intervenire. Ecco il primo atteggiamento della preghiera. Esserci ed esserci nelle cose che contano, quelle che mettono in gioco i progetti di Dio, quelle che gli uomini fanno fatica a vedere o non vogliono vedere. Tutte le preghiere hanno diritto di cittadinanza di fronte a Dio, ma ogni tanto prova a verificare anche ciò per cui preghi: forse non tutto è importante allo stesso modo. Quando i giornali ti riservano la notizia di una mamma trovata abbracciata al suo bambino in fondo al mare, dopo l’ennesimo naufragio al largo di Lampedusa, ci si può anche chiedere non solo dove sia finita la solidarietà, ma anche la compassione, la pietà. La preghiera per riguadagnare la giustizia, per recuperare l’odine di Dio, per non sostituire ai suoi disegni i nostri opportunismi mascherati di legalità. Rimani saldo in quello che hai imparato.

2.    Altro aspetto importante della preghiera è l’insistenza. Andava da lui e gli diceva… Verbi all’imperfetto che dicono un’azione prolungata e tenace, di chi rimane in contatto, di chi come Mosè alza mani al cielo. La preghiera è una questione di resistenza e di lotta. Non perché Dio sia distratto o indifferente ai drammi umani, ma perché ha bisogno di te, ha bisogno di alleanze umane, di braccia che sostengano altre braccia, come quelle di Aronne e Cur. C’è una bella testimonianza di Giacomo Poretti sulla preghiera: Qualche tempo fa una mia cara amica, mia e di mia moglie, si è ammalata gravemente e nel volgere di qualche mese le sue condizioni erano tali che da lì a poco avrebbe lasciato noi e la sua famiglia. Mi sono ricordato delle zie e del nonno e mi sono messo a pregare; dopo poco ho inteso che sarebbe stato inutile pregarlo di restituirle la vita e allora ho espresso una preghiera strana, forse nemmeno così impegnativa per Lui: lo pregai di togliere la paura a quella nostra amica, di toglierle l’angoscia di sentirsi sola e abbandonata in quel momento terribile: «Signore, ti prego, toglile la paura; donale, se possibile, serenità, ti prego… ».  E forse ho compreso. Ho compreso che quel miracolo che chiedevo a Lui non solo era possibile, ma era già realizzato: Il Signore guardava noi amici, il marito, i figli, guardava me e diceva: «Solo se non scapperete lei non avrà paura, solo se rimarrete lì lei non si sentirà sola ...». Ecco la resistenza: fatta non solo delle parole, ma dei gesti che diventano preghiera. Gesù non vuole spettatori di miracoli, ma alleati di vita, di speranza e d’amore. Noi preghiamo, ma forse ancora di più lui prega: e forse prega così: «Speriamo che smettano di delegarmi, speriamo che capiscano la forza che ho dato loro». Forza di mani che si sollevano in nome di Dio.

3.    Resta il fatto che qualche volta Gesù sembra lontano da ogni ragionevole risposta alle nostre domande. Vi dico che farà giustizia prontamente. Ecco, è quell’avverbio che non ci convince. Non ci siamo con le tempistiche. In realtà il testo greco dice ἐν τάχει in velocità. E la velocità di Dio non è la nostra. Nella velocità di Dio c'è lo spazio in cui lui ci attende, in cui ci chiede di diventare credenti. Forse è per questo che Gesù conclude la sua riflessione dicendo: Il Figlio dell’uomo, quando ritornerà, troverà ancora fede sulla terra? La preghiera ha bisogno di fede. E la fede ti mette in una zona di attesa dove puoi decidere che cosa far crescere: il dubbio o la sorpresa. Chi prega crede alle sorprese e ci crede talmente tanto da far posto a un di più che può ridisegnare la vita. Addirittura una vita oltre questa vita. La preghiera è la palestra della fede che ti affaccia su un orizzonte diverso da quello che immediatamente vorresti vedere. Ma non per questo la preghiera non è esaudita. Viaggia con la velocità di Dio perché impariamo a vedere i suoi disegni e a crescere secondo i suoi disegni, anche con qualche incomprensione. Come scriveva Hans Viscardi, disabile americano, in una famosa riflessione collocata nel centro di riabilitazione di New York.

Ho chiesto a Dio la forza,
ed egli mi ha dato difficoltà per rendermi forte.
Gli ho chiesto la saggezza
e Dio mi ha dato problemi da risolvere. […]
Gli ho chiesto favori
e Dio mi ha dato opportunità.
Non ho ricevuto nulla
di ciò che volevo ma tutto quello di cui avevo bisogno.
La mia preghiera è stata ascoltata.



Fede che prega, preghiera che crede.

martedì 6 agosto 2019

Omelia esequie Devis Beltrame


Funerale Devis Beltrame (30 lug. 2019)

(Rom 8,31-35.37-39 / Lc 12,35-40)


Gesù ce lo ripete molte volte e la vita con i suoi imprevisti torna a ribadire il concetto: Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone. A volte raccogliamo l’invito e riprendiamo le misure dei giorni, a volte siamo un po’ distratti e ci lasciamo catturare da quello che non serve o da quello che, pur urgente e necessario, rischia di occultare altri aspetti importanti della vita. La morte di un giovane è un momento di dolore, specialmente per chi gli ha voluto bene, ma può diventare l’occasione per tornare alla vita e alla sua verità, per distinguere ciò che resta da ciò che passa, per riaccendere la lucerna, rimettere la cintura ai fianchi e riprendere il cammino, senza il rischio di inciampare nei nostri appesantimenti.

Neanche Devis è stato esente da questi pericoli, ma ora, di fronte al Signore, osserva un orizzonte differente e rivolge anche a noi l’invito a guardare la vita con gli occhi di Dio. È lui il padrone, noi siamo amministratori, chiamati a raccogliere i suoi doni, a usarli bene, a farne investimento buono, per noi e per gli altri. Cerchiamo allora di raccogliere qualche indicazione e di ricollocare la nostra vita sulle strade di Dio. Tre riflessioni: Sei ricco. Sta attento. Non sei mai perduto.

1.    Sei ricco. I nostri occhi malati spesso vedono negli altri solo i limiti e le pesantezze. Ma Dio non è così. Lui vede il buono che c’è nel cuore di ciascuno, vede le sue potenzialità, il bene che può fare, perché questo tesoro ce l’ha messo lui. Anche nel cuore di Devis era nascosta la bontà. Anche se la vita l’ha portato su strade che era meglio non prendere, lui custodiva l’impronta di un ragazzo sensibile, pronto e generoso. Alcuni legami erano intensi, pieni di attenzione e di affetto, in particolare quello con sua madre nella quale trovava una sorta di rifugio; nel lavoro non si tirava indietro anche quando le sue difficoltà erano evidenti; era anche capace di gesti di vicinanza e solidarietà come quello di dare una mano a qualcuno o di accorgersi di un amico malato e di andarlo a trovare ogni giorno, per mesi. Dio ci ha pensati così, ricchi di un dono che cresce. Ci ha dato una dotazione di base perché la nostra vita sia bella, perché con essa contribuiamo a rendere più bello anche questo nostro mondo, perché anche quando qualcuno dice “tutti utili, nessuno indispensabile” ci ricordiamo che il dono che possediamo è solo nostro e qualche volta può fare la differenza. Sei ricco di te, sei ricco di vita, sei ricco di Dio. Non dimenticarlo.

2.    E proprio perché hai questa ricchezza, sta attento. Sta attento che qualcuno non te la rubi. Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche Devis ha fatto i conti con il ladro, con qualcuno che ha cercato di saccheggiare la sua vita. Non ci interessa indagare sulle sue scelte e sulle sue responsabilità. La conclusione della vita di un uomo è accompagnata dai giudizi di Dio, non dai tribunali terreni: le nostre analisi sono sempre limitate e le nostre sentenze inopportune e fuorvianti. Però, se il Signore ci mette in guardia dal ladro, alcune situazioni non bisogna trascurarle. Perché  il tuo desiderio di felicità può essere autentico, ma non tutte le risposte lo compiono. Fa’ attenzione a chi frequenti: non tutti sono amici. Fa’ attenzione a quello che assumi: non tutto ti fa bene. Fa’ attenzione ai soldi che hai e ai soldi che vorresti: la ricchezza vera è quella dentro di te. Fa’ attenzione a come agisci e reagisci perché anche quando pensi di essere libero in realtà puoi essere prigioniero: di te stesso, delle tue pretese e delle tue paure. Occhio al ladro. Un avvertimento per ogni individuo, per una famiglia che fa crescere dei figli, anche per una comunità alla quale il Signore sempre chiederà conto: Dov’è tuo fratello? E se in parrocchia o in paese ci interroghiamo sulle opportunità da offrire ai ragazzi e se vogliamo costruire un oratorio, è perché non vogliamo piangerli da morti ma custodirli da vivi. Perché si accorgano di ciò che possiedono, perché niente e nessuno ce li rubi.

3.    Infine il terzo messaggio: Non sei mai perduto. Oggi siamo qui anche per questo. Per ricordarci una pagina importante del vangelo: quella della pecora smarrita, quella della moneta perduta, quella del figlio ritrovato. Per Dio non sei mai un perduto. Puoi sparire dai circuiti sociali, da quelli produttivi, puoi sparire da una comunità che vuole darti una mano, lasciandola più disorientata di te, ma non sparisci mai dal cuore di Dio. A volte noi guardiamo la vita con un certo disincanto che ci porta a collocare invalicabili segnalazioni di impraticabilità come se la strada fosse chiusa per sempre. Per Dio non è mai così. E continua a starci accanto, a volerci bene, a venire in cerca, anche quando sa che l’unica possibilità sarà quella dell’eterno, nell’ora della nostra morte. Chi ci separerà dall’more di Dio in Cristo Gesù? È la pagina scandalosa dell’amore di Dio che ci è accanto non perché ce lo meritiamo, ma perché è buono. Perché la sua giustizia è la misericordia, è perdono, è il perduto ritrovato. A questo abbraccio affidiamo Devis convinti che Dio veda meglio di come vediamo noi. Affidiamo anche la sua famiglia perché non venga loro meno la speranza e la pace. Affidiamo anche questa nostra comunità, civile e cristiana, perché sappia sempre promuovere la vita e difenderla da ogni impoverimento, nei giovani che l'accolgono, negli adulti che la testimoniano. 

domenica 4 agosto 2019

Omelia 4 agosto 2019


Diciottesima domenica del T. O.

Johann Caspar Lavater è stato uno scrittore, filosofo e teologo svizzero di fine ‘700. In una sua riflessione afferma: Non puoi dire di conoscere un uomo finché non hai diviso un’eredità con lui. Forse ha ragione. Perché l’eredità può trasformarci e tirar fuori la parte peggiore di noi. Un solco di terra si trasforma in una trincea, le perle di una collana che diventano pallottole, persino i regali del matrimonio fatti dai genitori ad un figlio diventano parte il computo nel momento in cui si dividono i beni di un padre e di una madre. Ma quel che è più angosciante è che non si dividono i beni: si dividono le persone, le famiglie, i fratelli e le sorelle con strascichi che continuano da una generazione all’altra. E ci si consegna ad un’esistenza infelice, in cui, prigionieri delle nostre ragioni, perdiamo la ragione più grande della vita: volerci bene. Ecco perché Gesù risponde in maniera secca a chi gli chiede di entrare in una questione di eredità. «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». Chi si occupa di divisione è un altro. È il divisore, il diavolo, colui che confonde, che sovverte i riferimenti importanti della vita, che soffia sul fuoco di una presunta giustizia per allontanarti dagli altri.  

Gesù ci dà alcuni consigli raccolti in una prospettiva di verità:  «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Dove sta la vita vera, la vera ricchezza? E racconta una parabola.

1.  Che granaio stai costruendo? Anzitutto un uomo ricco, i cui affari vanno molto bene. Non è mica cattivo, neanche disonesto. È uno che sa fare gli investimenti giusti. Ma vede solo il profitto, i granai. E ad un certo punto c’è bisogno di ingrandire l’azienda. Prosecco: perché dobbiamo tenere un bosco a Miane o i Prai a Godego? Tutto questo spreco di territorio: aspetta che mettiamo giù altro vigneto! E tutto secondo la legislazione vigente. Eventualmente si paga una multa, tanto quei soldi li riprendiamo. Gli affari sono affari. Qual è il problema? È la restrizione del concetto di ricchezza. Vedi solo quella economica. Hai perso di vista quella ambientale, quella della salute, quella relazionale. Hai in mente il business e quello diventa il tuo Dio. A cui bruci i tuoi incensi a prescindere da chi li respira, a cui tributi il tuo tempo perché non c’è più un momento di riposo, a cui guardi con disappunto e sospetto quando i filari sono piegati dalla bufera, dal vento e dalla grandine, forse perché quel Dio non riesce a proteggerti del tutto. La vita dell’uomo non dipende dai suoi beni. Cerca la ricchezza vera, sta attento ai tuoi investimenti. Chiediti che cosa stai guadagnando. E se non vedi oltre il granaio, forse c’è qualcosa che non va.  Ernest Hemingway dice: Un’eredità mi ha lasciato mio padre… Mi ha lasciato la luna e il sole; e anche girando tutto il mondo non riuscirò mai a spenderla. Cosa ti ha lasciato tuo padre, cosa lascia ai tuoi figli?

2.  L’attesa falsa di un tempo ulteriore. Mentre il ricco fa i suoi progetti grandiosi, pensa ad un tempo futuro: Poi dirò a me stesso… riposati. Quando arriva questo tempo, questo poi? Non arriva mai: perché il lavoro diventa una droga, il guadagno è sempre inferiore ai budget previsionali e tutto è indicizzato a un riposo che viene dilazionato sempre più. "Quando andrò in pensione farò volontariato". E poi in pensione lavori più di prima perché cerchi un'altra occupazione per arrotondare...  “Per ora devo pagare il mutuo e devo lavorare un po’ di più, ma poi…”. E quel mutuo intanto ti ruba a tua moglie, ai tuoi figli, tanto che anche d’estate li porti “in vacanza dai nonni” e non senti le domande con cui quei bambini li interrogano continuamente : “Ma quando arriva la mamma?”. Stai attento ai poi della ricchezza perché essi ti spodestano del presente, di stagioni della vita che non troverai mai più e anche di figli che cresceranno segnati da scelte che li vedono retrocedere nella classifica delle tue priorità. Un conto sono le difficoltà economiche che una famiglia deve affrontare, stringendo i denti, un conto è il di più. E non nasconderti dietro al dito: “Non è la quantità del tempo che è importante, ma la qualità”. Balle. Prova a dirlo a tuo figlio guardandolo negli occhi, se ne hai il coraggio.

3.  L'ideale di vita. Immaginando il futuro che non verrà, il ricco ci offre una descrizione del suo ideale di vita. “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ricchezza a servizio dei bisogni immediati e del divertimento. Il ricco crede che qui ci sia la vita: per molti anni. Ma è un ulteriore inganno. Un inganno che prende anche il mondo dei ragazzi e dei giovani che nel divertimento non incontrano solo criminali balordi, come quelli  che hanno seminato morte in discoteca a Corinaldo, ma anche un assetto generale in cui domina il vuoto, la superficialità, il nulla. Quello che appartiene a un personaggio come Sfera Ebbasta che nei giorni della tragedia ci ha interrogati per lo stile, i contenuti volgari delle sue canzoni, i messaggi provocatori  che porta con sè. Ma, guarda caso, improvvisamente costui è stato inserito tra i giudici di X-Factor e miracolosamente è sparita ogni riserva. Complimenti, gran bel messaggio! Perchè? Perchè l'assetto ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti fa guadagnare, ti rende convincente, anche se è follia che ci perde: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita... E' la stoltezza di chi è vittima di un vortice di divertimento assurdo ma anche di una società che se ne guarda bene dal contrastarlo, perchè altrimenti diventi impopolare. E per non perdere in popolarità perdiamo i ragazzi, la vita, il suo senso. Non è il caso di pensarci? Quale eredità stai lasciando?  Vanità delle vanità, dice Qoelet. La parola ebraica indica la foschia. Attento a non inseguire la nebbia. Attento a ciò che passa e a ciò che resta. Fa’ in modo che la ricchezza che cerchi sulla terra ti porti a riconoscere anche un pezzo di cielo, quello che ti può appartenere, quello che puoi dischiudere anche agli altri.