domenica 24 gennaio 2016

Ora sarete contenti


In questi giorni la notizia di una ragazzina di Pordenone che tenta di togliersi la vita. Ci danno un salutare scossone e ci fanno bene le parole di un insegnante che riflette sulla faccenda, ma forse bisogna aggiungere qualche considerazione più. Per gli insegnanti e non solo.



Oggi una ragazza della mia città ha cercato di uccidersi. Ha preso e si è buttata dal secondo piano.

No, non è morta. Ma la botta che ha preso ha rischiato di prenderle la spina dorsale. Per poco non le succedeva qualcosa di forse peggiore della morte: la condanna a restare tutta la vita immobile e senza poter comunicare con gli altri normalmente.

“Adesso sarete contenti”, ha scritto. Parlava ai suoi compagni.

Allora io adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma c’ho ‘sta cosa dentro ed è difficile lasciarla lì. Quando la finirete? Quando finirete di mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno? Quando finirete di far finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e poi di mettervi lì a scrivere quei messaggi – li ho letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”.

Quando la finirete di dire “Ma sì, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “non meriti di esistere”?

Quando la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa, quando la finirete di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati?

Che cosa deve ancora succedere, perché la finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella, a voi?

E poi voi. Voi genitori, sì. Voi che i vostri figli sono quelli capaci di scrivere certi messaggi. O quelli che ridono così forte.

Quando la finirete di chiudere un occhio?

Quando la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”?

Quando la finirete di non avere idea di che diavolo ci fanno 8 ore al giorno i vostri figli con quel telefono?

Quando la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale?

Quando la finirete di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)?

Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia, o un fatto da deridere, quando inizierete a non essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole ma gli esempi, gli insegnamenti migliori?

Perché quando una ragazzina di dodici anni prova a buttarsi di sotto, non è solo una ragazzina di dodici anni che lo sta facendo: siamo tutti noi. E se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì non hanno visto, non hanno fatto, non hanno detto. E tutti noi, proprio tutti, siamo quelli che quando succedono cose come questa devono vedere, fare, dire. Anzi urlare. Una parola, una sola, che è: “Basta”.



Prof. Enrico Galliano



  

 Ed ecco alcuni ulteriori pensieri...





E voi, insegnanti, fino a quando farete della scuola una sorta di feudo e avvertirete come minaccia il tentativo di operare in sinergia?

Certo, i genitori non sono sempre quello che vorreste e neppure quello che dovrebbero, ma a volte vivono e patiscono con voi e più di voi le contraddizioni dei giorni, come quella di non essere sempre all’altezza delle sfide che vita ed educazione portano con sé. Non vi pare che invece di reciproche scomuniche dovremmo sederci allo stesso tavolo, invitando magari anche l’allenatore, il catechista o il capo scout? Perché qui non è in gioco la comprensione del teorema di Pitagora, ma la comprensione della vita cui anche la scuola cerca di condurre. Si tratta di allenare un uomo e di attivare tutte le sue risorse: la testa, il cuore, le mani e talvolta anche le gambe.

Cari insegnanti, quando la smettete di caricare di compiti la domenica, sottraendo quel giorno alla gratuità e alla festa: non vi pare che vi mettano già le mani in troppi? Non vi pare che stiamo smarrendo il senso del tempo e delle relazioni?

E fino a quando permetterete che la natura laica della scuola sia preda di un laicismo d’altri tempi che, oltre a indebolire la vostra azione, sacrifica sull’altare dell’ideo-logia il bisogno di senso che ogni ragazzo porta con sé?

Perché se una dodicenne arriva a pensare drammaticamente di buttarsi dal secondo piano, forse non è solo per la cattiveria dei coetanei, ma perché qualcuno le ha sottratto il piano in più: quello che le consente di vedere il cielo, di aprire la vita alla speranza e di capire che un uomo è più grande di ogni etichetta che gli si affibbia, di ogni buca che l’affossa.



Le vostre responsabilità, cari prof, richiamano anche le nostre, quelle della comunità cristiana. Perché anche noi ci sentiamo terribilmente provocati dal gesto che ci è stato posto innanzi e capiamo che non sempre siamo in grado di offrire risposte sollecite e convincenti.

Risposte che prima ancora siano proposte: sul modo di stare insieme, di impiegare il tempo, di divertirsi, di pensare, forse anche di pregare.

Quando impareremo, con i duemila anni che ci portiamo appresso, che la sfida vera è rivolta al futuro ed è legata in buona parte a ragazzi e giovani? Quando faremo sentire loro la nostalgia di casa? Quando le nostre messe riusciranno a parlare anche agli adolescenti? Quando sostituiremo il criterio dell’attività con quello della relazione e ci convinceremo che la partita di calcio a volte vale quanto un’ora di catechismo? E quando noi preti, scornati da pedofilia e sommersi di burocrazia, ci convinceremo che il nostro posto è ancora tra i ragazzi, dietro i quali, secondo evangeliche promesse, ama nascondersi il Signore?



«Adesso sarete contenti», diceva quel drammatico biglietto. No, non siamo contenti adesso. Lo saremo quando riusciremo a ripigliarci come uomini ed educatori e a comprendere che nel grande mare della vita ci si inoltra insieme.

Don Gerardo Giacometti   

Omelia 24 gennaio 2016


Terza domenica del Tempo Ordinario

Se oggi si digita la parola "solidità" su un motore di ricerca, il termine viene immediatamente associato al nome di una banca, segno che numerosi utenti di Google fanno le loro indagini per verificare l'affidabilità del proprio istituto di credito. Siamo preoccupati dei soldi, ma sarebbe importante verificare anche l'attendibilità delle nostre informazioni, specie quelle che postiamo o conosciamo sui social. Oggi abbiamo ascoltato l'inizio del vangelo di Luca e l'evangelista scrivendo a un tale di nome Timoteo, molto probabilmente un cristiano della sua comunità, intende rassicurarlo sulla solidità degli insegnamenti ricevuti. Solidità in greco si dice aspháleia, termine che deriva dal verbo sphallomai che significa "scivolare". A-sphàleia vuol dire dunque: "che non scivola". Il Vangelo è un insegnamento di cui ti puoi fidare. E non solo perché Luca ha fatto, ricerche accurate su ogni circostanza, consultando i testimoni oculari, ma anche perché ha verificato la forza dell'insegnamento, la sua tenuta, la verità. E l'episodio di Gesù che insegna nella sinagoga del suo villaggio ci dà modo di osservare la solidità di quello che sta dicendo.

1.    La solidità mette insieme l'antico e il nuovo. Gesù inizia leggendo un rotolo della scrittura, come avveniva ogni sabato in sinagoga. Il profeta Isaia, vissuto sette secoli prima. Ma alla fine dice: oggi si è adempiuta questa parola che voi avete udito. Gesù è una chiave interpretativa per l'oggi ma egli raccoglie un progetto che parte da lontano. É una questione che oggi facciamo fatica a capire perché oscilliamo spesso tra due estremi: o rimaniamo ancorati al passato e i tempi ci sorpassano chiudendoci in un museo, o rimaniamo soggiogati dall'idea del nuovo e dalla tentazione di liberarci da tutto quello che ci sembra fuori corso. Pensate alle grandi questioni con cui oggi ci confrontiamo: la vita, la famiglia, la sessualità. Ci pare che il cristianesimo sia rimasto indietro o ci vogliono far pensare che il cristianesimo sia tale. E allora ecco nuove alchimie che variamente combinano i partner, spregiudicatamente cercano figli. Paladini di un diritto individuale prigioniero delle voglie che sacrifica il diritto dell'altro e il diritto di una comunità umana. "Ho diritto a un figlio!". E il diritto del figlio? E il diritto delle donne a cui deleghi questo compito? È solo questione di soldi? Ecco la parola che oggi si compie: famiglia. Custodiscila e non svenderla alle mode.

2.    La solidità è sempre a difesa dell’uomo. Il discorso programmatico di Gesù non è un ragionamento disancorato dalla storia. Esso parla di umanità, di oppressi, di poveri, di prigionieri. E annuncia buone notizie, liberazione, giorni di grazia. Mettiti dalla parte dell’uomo, sciogli le sue catene, promuovi la dignità di ciascuno. Pensate a quella ragazzina di Pordenone che ha tentato di togliersi la vita. “Adesso sarete contenti”, aveva scritto a coetanei che molto probabilmente la escludevano. Un insegnante nei giorni scorsi ha pubblicato una lettera in cui dice: «Quando la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa, quando la finirete di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati?». E ai genitori: «Quando la finirete di chiudere un occhio? Quando la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”? Quando la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale? A dire la verità io aggiungerei anche qualcosa per gli insegnanti: «Quando la finirete di pensare che la scuola sia tutto, quando inizierete a stabilire contatti con le altre agenzie educative, a superare quello sconsiderato laicismo che vi porta a dimenticare che un individuo cresce non solo allenando i suoi neuroni, ma anche alimentando l’anima?». Perché non c’è solo la cattiveria degli altri in gioco, ma la consistenza di se stessi, la sinergia educativa e l’aiuto dato a un ragazzo a capire che la vita può essere ugualmente vita, anche quando qualcuno non ti vuole. Le catene inique sono a volte più ramificate di quel che si pensa.

3.    E infine, la solidità non teme di mostrarsi. Gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. Com’è difficile reggere lo sguardo degli altri quando dobbiamo affermare qualcosa. Le supposizioni, i commenti, i sorrisetti, le battute. Pensate alla fatica che facciamo in questa nostra comunità ad esporci, anche semplicemente per leggere in chiesa o prendere la parola in una riunione di genitori. Perché? Perché ci sentiamo giudicati. E perché anche noi giudichiamo. Ed è meglio giudicare che essere giudicati! E allora ci si nasconde, anche se poi si chiacchiera… Gesù sta in piedi e non retrocede. La solidità è anche nel prendere posizione, nel metterci la faccia. Vado a messa? Ci metto la faccia. Faccio l’animatore o vado ai gruppi? Sono contento e te lo dimostro. C’è un’idea poco evangelica che gira? Lo dico, anche se sono impopolare. Non aver paura di quello che sei, non aver paura di dire la tua fede, perché non sei da solo in questo compito. Lo Spirito sospinge e, forte della sua azione, anche tu puoi dire: Lo spirito del Signore è su di me.. mi ha consacrato.. mi ha mandato.

Solidità. Aspháleia. Non scivolare sulla mediocrità: cammina sul terreno solido di Gesù e ddiventa uomo come lui.

lunedì 11 gennaio 2016

Omelia 10 gennaio 2016


Battesimo del Signore


Leonardo, un bambino della nostra Scuola Materna mi ha portato il lavoretto di natale realizzato con i suoi compagni. Era un Gesù Bambino contenuto in una casetta di cartone, ma – ha precisato - «non ha la colla, perché tu lo possa prendere e portare con te». È questo il Natale: Gesù senza colla, che si fa compagno della nostra vita. E la festa del Battesimo del Signore intensifica questa vicinanza. Battesimo vuol dire immersione: Gesù si immerge nella nostra vicenda terrena per esserci accanto e per aprirci quella vita che Dio ha in mente per ogni uomo. Cosa ci racconta l’immersione di Gesù?


1.    È un’immersione scandalosa. L’evangelista Luca lo dice con molta discrezione, ma ci fa capire che la presenza di Gesù in quel momento è intrigante: mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo. Anche lui. Giovanni invitava Israele alla conversione e Gesù si mette tra questa gente bisognosa di perdono. Lui non ha peccati da farsi perdonare, ma vuole stabilire la vicinanza di Dio nel momento in cui le scelte degli uomini esprimono il peggio di cui si è capaci. Pensate a quello che è capitato a Colonia. Il branco che aggredisce. Quando assistiamo a questi fatti inorridiamo e corriamo ai ripari sollecitando misure drastiche di controllo, ma c’è anche il rischio di pensare che il male sia solo attorno a noi e corrisponda ad alcune categorie di persone che ne sono artefici. Invece se osserviamo con onestà la nostra vita vediamo che qualche volta il male è annidato nel nostro cuore e produce oscurità, chiusura, debolezza. Ricordate la vicenda di Pietro Maso, quel ragazzo che nel 1991 massacrò i genitori per impossessarsi dell’eredità? La sua esperienza di recupero umano è stata raccolta in un libro autobiografico dal titolo significativo: Il male ero io. Consapevolezza cui l’autore arriva accompagnato da un sacerdote di Verona, unico ad aver accesso alle tenebre che occupavano il cuore di Pietro. Ecco l’immersione di Gesù: nell’oscurità che ti appartiene.

2.    È un’immersione per legarci a qualcuno. L’evangelista dopo il Battesimo ci presenta Gesù in preghiera. Nella profondità in cui è sceso Gesù non si avventura da solo ma sempre con il Padre; e lo Spirito è la relazione che unisce il Figlio al Padre. Gesù con il Battesimo viene a dirci che apparteniamo a qualcuno. Quelle parole che vengono dal cielo: Tu sei il Figlio mio, l’amato non sono solo per Gesù, ma per ciascuno di noi. Qui a Godego c’è una radicata propensione: quella di ricostruire l’albero genealogico di ogni nostro interlocutore, recuperando almeno un paio di generazioni precedenti. Prima di fare un discorso bisogna capire non solo chi sei, ma anche di chi sei. De chi sito ti? Gesù viene a ricordarci di chi siamo: di Dio; viene a dirci che siamo suoi figli. E questo ci consente di andare avanti con i discorsi! Pensate a un bambino che nasce. Oggi a volte ci sono varie perplessità sul battesimo: farlo… lasciare che decida lui quando sarà grande… farlo con poca convinzione perché i nonni cosa dicono… Prima di venire a Godego ho accompagnato la formazione al battesimo di alcuni ventenni italiani. Una di loro, che tuttavia frequentava la parrocchia, diceva che ciò che le pesava di più era vedere i suoi amici dell’oratorio che pregavano e lei che non si sentiva in grado di farlo. Come se quel confine la privasse di qualcosa di essenziale. Che cosa? Appunto: la possibilità di dire appartengo a qualcuno di più grande di mio padre e mia madre e di tutte le relazioni che umanamente mi possono sostenere. Perché noi siamo più grandi dei biberon terreni e per crescere ci serve il cielo. Il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo.

3.    Infine l’immersione di Gesù ci porta a comprendere non solo la vicinanza relazionale ma anche il compiacimento di Dio. In te mi sono compiaciuto. Gesù ci fa capire che Dio attribuisce a ciascuno un credito di fiducia e di speranza.  “In te c’è una corrispondenza al bene che mi fa felice”. Il Signore ti fa felice, ma anche lui è felice di te e crede in quello che di bello puoi realizzare con lui. L’immersione è come quella di chi trova un tesoro negli abissi e lo recupera. Gesù è venuto per questo: cosa puoi portare a galla? Qualcosa che gli altri neppure sospettano! L’altro giorno è venuto a trovarmi un giovane marito. Un matrimonio un po’ traballante a motivo di una certa disparità: lei estroversa, volitiva, tenace; lui un po’ esitante, timoroso, legato a un posto di lavoro che lo lascia insoddisfatto. «Mia moglie, mi ha detto che aveva sposato un altro. Da quelle parole ho capito che dovevo ritrovare qualcosa». Ecco, trova la parte migliore di te, quella che custodisci sepolta, ma che Dio vede e della quale si compiace.



Non tenere il Signore incollato. Lascia che raggiunga la tua profondità e da essa riemergi con lui come nuova creatura.