sabato 13 aprile 2024

 

Funerale Giuliana Bolzon ved. Padovani (13 aprile 2024)

(Letture - Rm 8, 31-39 – Mc 16,1-6)

«Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui». Tante volte in questi giorni di pasqua i vangeli ci hanno parlato di donne. Donne che non si rassegnano, donne che non perdono tempo, donne piene di profumi e di tenerezza. Anche Giuliana appartiene a queste donne. Anche lei donna del mattino di pasqua, capace di portare risurrezione e speranza. Con semplicità, con disponibilità, con una misura di gioia sempre abbondante.

Donna del mattino di pasqua anzitutto nella sua famiglia dove non sono mancate le prove ma neanche la voglia di riprendere il viaggio. Giuliana aveva conosciuto Antonio Padovani, suo futuro marito, quando quel giovane intraprendente dava una mano a un vecchio cappellano di Godego, don Luigi Callegari, trasferito a S. Floriano. Antonio andava a proiettare qualche film in casa di Giuliana, sotto il portico, arredato con le sedie della chiesa, dove accorreva parecchia gente. E in quel cinematografo improvvisato era iniziato un altro film, d’amore, tra loro due che nel 1962 si sono sposati. Un legame bello, intenso, arricchito dai figli. Antonio pieno di iniziative professionali, culturali e musicali e Giuliana che se ne stava a casa, appagata della sua famiglia e senza il bisogno di cercare di più. Andava bene così. Poi la morte di Antonio, nel 1993 e la morte di sua figlia Maria nel 2014. Sono stati momenti difficilissimi e sofferti. Ci si può chiudere, arrabbiare, deprimere, specie quando ad una madre manca una figlia. Giuliana invece ha preso in mano la vita e l’ha riconsegnata a figli, nipoti e a una infinità di relazioni buone, tante quante erano prima quelle di Antonio. «Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del sepolcro?». Giuliana aveva visto che questo masso non pesava più, non ostacolava i suoi pensieri, i suoi giorni, la voglia di esserci ancora. Perché le donne del mattino di pasqua non si lasciano catturare dalla tristezza, né attribuiscono alla morte più forza di quanta ne appartenga al Signore risorto. Non ha mai smesso Giuliana di andare in cimitero, portando fiori e preghiere. Ma le sue pedalate, sottratte al lutto, erano quelle della speranza e della vita. Guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande.

Giuliana era donna del mattino di pasqua anche in questa nostra comunità che aveva dilatato i contorni di casa sua. I suoi fratelli, i suoi figli, i nipoti e il piccolo Tommaso erano la bellezza dei suoi giorni che si arricchivano però anche di questa famiglia parrocchiale nella quale si sentiva a casa. E anche noi con lei abbiamo respirato aria di casa per tutto il bene che ci ha fatto e voluto. Negli anni in cui faceva catechismo, nelle pulizie della chiesa, in casa alpina, nell’AC, nel grest. Inutile raccomandarle di non distribuire dolcetti e caffe agli animatori che frequentavano numerosi il suo laboratorio né intrattenere le signore sue colleghe nella stessa caffetteria. Toglierle quella possibilità non era solo privarla di una mansione che le sembrava cucita addosso, ma misconoscere uno stile di chiesa ospitale e servizievole di cui lei era espressione. Con qualche complicità. Per noi preti c’era poi una misura aggiunta di benedizione per la sua presenza lieta e materna in canonica. Aveva iniziato ai tempi di don Giuseppe, al sabato sera, preparando la cena. Ma anche i parroci successivi avevano rinnovato e allargato il contratto che economicamente per lei corrispondeva alla partita unica, quella della gratuità. E sempre con grande discrezione, semplicità e una disponibilità che non conosceva esitazione. Aveva deciso che ok in inglese si scriveva anche con una i. Oki. Come il famoso farmaco. E nel mio telefono i suoi whatsapp sono pieni di Oki, va bene. Giuliana puoi venire? Oki. Giuliana abbiamo bisogno di una mano. Oki. Giuliana stasera sei libera? Oki. Le donne del mattino di pasqua sono abituate alle sorprese, anche dei parroci, ed esse stesse ti sorprendono per quella misura di carità che non conosce misure. E forse è proprio questo l’Oki migliore, il farmaco che guarisce il mondo.

Infine il mattino di pasqua di Giuliana erano le 8 di domenica mattina, la sua messa, il suo incontro con il Signore risorto, qui in chiesa. Un appuntamento da cui tutto partiva. Perché noi ci chiediamo da dove arrivi la disponibilità agli altri, la speranza nella malattia, la gioia che riesci a trasmettere. Forse è proprio in quella celebrazione settimanale. Perché noi a volte siamo un po’ accomodanti, ridisegniamo la nostra pratica cristiana a partire dalla flessibilità. Vado, non vado, vado se posso, vado se mi sento... Quando Giuliana sentiva queste obiezioni diceva: Mi no so tanto d’accordo. Mi vao. E non solo la domenica, veniva anche durante la settimana. Le donne del mattino di pasqua sanno che la pasqua è il Signore Gesù, l’incontro con lui, quello che Giuliana custodiva anche nei giorni di un male che sembrava sconfitto e che è tornato a diffondersi, in maniera veloce. Ma non è stato il male a vincere. Hanno vinto il Signore e la fede in lui, in quel sacramento dell’Unzione che Giuliana ha ricevuto in ospedale e che le ha regalato ancora qualche settimana e nella comunione, l’ultima, che ha fatto proprio il giorno di Pasqua, al mattino di quel giorno. Lei che sempre andava a trovare il Signore e il Signore che era venuto a trovare lei.

Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. In questo amore Giuliana è vissuta, questo amore ci ha testimoniato, a questo amore la restituiamo persuasi che quell’amore non ci perde, nella comunione dei santi ancora ci raggiunge, nella speranza apre anche a noi la pasqua del Signore. 

mercoledì 22 febbraio 2023

Omelia esequie Mirella Visentin

 

Funerale Mirella Visentin (22 feb. 2023)

(1Re 19, 9-13 / Gv 19, 17-18.25-30)

Esci e fermati alla presenza del Signore. Anche noi, come Elia, in questi due mesi abbiamo cercato la presenza del Signore. L’abbiamo pregato per Mirella, per la sua famiglia, per noi che a stento riuscivamo a capire e ancor meno a rassegnarci a quanto stava accadendo. Avremmo voluto che il Signore, come il vento, spazzasse via le nostre paure, l’incertezza del vivere, l’inquietudine di fronte alla provvisorietà dei giorni. Ma il Signore non era nel vento. Avremmo sopportato anche un terremoto se esso, facendo sobbalzare la terra, avesse inghiottito un male subdolo e insidioso, nascosto in misure infinitesimali, resistente a qualunque terapia. Ma il Signore non era nel terremoto. Avremmo voluto che la nostra preghiera fosse come fuoco, come quello delle tante candele che abbiamo acceso per Mirella, capace di ardere della rassicurazione che Dio ci ascolta. Ma il Signore non era nel fuoco. Dio ci dava appuntamento altrove, lontano dalla spettacolarità e dalle nostre comprensibili attese. Dio apriva una strada differente, affidando le sue risposte al sussurro di una brezza leggera. Quella brezza udendo la quale Elia si coprì il volto. Perché non hai bisogno di vedere quando sei avvolto dal mistero. E anche noi oggi, ci lasciamo raggiungere da questa brezza ricca di Dio che discretamente scombina le nostre pretese e ci suggerisce la presenza del cielo.

1.  Brezza è l’esistenza discreta e pacata di Mirella. Mai chiassosa, mai esagerata, sempre improntata a gentilezza e semplicità. Brezza come quella che lei respirava in campagna, curando un piccolo appezzamento familiare, un mondo senza artifici che le piaceva e portava con sé, recando anche nell’ambiente di lavoro, in ospedale, i tratti della schiettezza e dell’essenzialità. Il malato al centro delle sue prestazioni, la difesa di una medicina fatta di prossimità e non solo di competenza, una cardiologia capace di intercettare anche i battiti segreti del cuore, quelli che onde e tracciati non sempre riescono a catturare. Mirella nel suo lavoro c’era fino in fondo, senza risparmio, con verità, franchezza nel dire le cose, disponibile a dare una mano, a scambiare un turno, a farsi carico anche di ciò che poteva fare chi subentrava nell’orario di servizio dopo di lei. E sapeva rassicurare, incoraggiare, sostenere, fosse un paziente del suo reparto o qualcuno che andava a trovarla a casa per un consiglio o per condividere una preoccupazione. Brezza non sempre legata a diagnosi, che continuava in famiglia e nel volontariato, con tempo ricco di confidenza e di premura dato ai suoi nipoti e con la disponibilità ad esserci anche nella sagra della Crocetta, per dare una mano e per stare un po’ insieme. La brezza di un quotidiano ricco di semplicità evangelica e di altruismo.

2. Ma la brezza di Mirella era anche quella della sua fede tenace e operosa, accompagnata da preghiera e costante partecipazione alla messa. Mai mancata, fino allo scorso dicembre, perché quell’appuntamento condiviso con la mamma e la zia sosteneva la sua settimana. Lei era poi capace di gesti dal sapore antico come il pellegrinaggio che aveva fatto a piedi, fino alla Basilica del Santo lo scorso anno. Siccome erano subentrati alcuni problemi di salute, aveva percorso un primo tratto da Godego a Camposampiero. Poi era rientrata a casa e il giorno dopo aveva coperto Camposampiero-Padova. La fede è una brezza buona che ti accompagna, che dà senso ai tuoi giorni, che ti ricorda che nel cammino a volte articolato della vita non sei da solo e che qualcuno ha cura di te. A cosa serve una messa? A collegare la terra al cielo, a ritrovare lo sguardo di Dio, a ricordare che Gesù è risorto e non sarà la morte a prevalere su di noi.

3. La terza brezza è proprio questa. Quella che ha sospinto Mirella nei giorni difficilissimi della sua malattia. Era il 18 dicembre, quarta domenica d’avvento, come se anche l’attesa terrena fosse compiuta. Mirella era venuta alla prima messa, poi a casa aveva allestito le luminarie natalizie e preparato i regali. Ma il Natale che il Signore le preparava era un altro, nell’abbraccio con lui e nella condivisione della sua passione. Perché sono stati giorni non privi di sofferenza, di incertezza clinica, di terapie che non funzionavano. Mirella era del mestiere e sapeva bene quello che stava succedendo. Mai però un accenno di ribellione, di inquietudine, ma grande lucidità e compostezza tra due riferimenti che l’hanno accompagnata nel grande viaggio: il Signore e la sua famiglia, in particolare sua mamma Giulia che ogni giorno le è stata accanto con un bene infinito. Mirella, che già si era confrontata a diciott’anni con un tumore, diceva di aver vissuto due volte e che era il momento di andarsene. E la vicinanza della mamma era forse la garanzia di una nuova nascita che di lì a poco sarebbe avvenuta. Mamma, lasciami andare. Mamma ti voglio bene. Mirella ha chiesto e ricevuto l’unzione degli infermi e finché ha potuto ha fatto la comunione. E se ne è andata mentre la mamma le stringeva la mano perché il Signore c’è allo stesso modo, nella mano di un prete che ti unge di olio santo e nella mano di una madre che ti unge di tenerezza. E quando capita una cosa del genere capisci che la brezza di Dio può esserci anche nell’ultimo respiro della vita, perché esso è stranamente somigliante a quello di Gesù, quello con cui si consegna al Padre dei cieli a sua Madre e ai suoi discepoli sulla terra. Chinato il capo, consegnò lo spirito. La brezza di Elia  continua nella brezza dello Spirito, quello che fa nuove tutte le cose. Raccogliamo anche noi questa brezza buona. Sospinga Mirella all’incontro con il Signore risorto, sia una carezza affettuosa e piena di consolazione per i suoi cari, sia soffio di responsabilità per chi di Mirella ha conosciuto l’impegno e la dedizione, sia invito alla speranza per tutti noi.

sabato 4 febbraio 2023

Omelia per le esequie della Mamma

 

Esequie Mamma Gioconda Vielmo Omelia – 4 febbraio 2023

Rm 8, 28-30 - Gv 2,1-11 

 «Fate quello che lui vi dirà». Le parole di Maria ai servi del banchetto di Cana sono quelle che anche mamma ascoltava e suggeriva a noi figli in una vita mossa da un forte senso di Dio e dal desiderio di cercare sempre la sua volontà, il suo stile, le scelte più opportune, anche quando potevano costare un po’ di più. Era l’aria che aveva respirato in famiglia e in parrocchia a Godego, fin da piccola, in un ambiente ricco di fede che sapeva indicare le strade del bene, dell’onestà, della preghiera, del sacrificio, del timor di Dio.

La presenza di uno zio sacerdote, poi vescovo, che ogni tanto rientrava a casa, portava il senso del sacro, della vita di fronte al Signore; il legame e la frequente corrispondenza con la zia Gesualda, monaca di clausura, aiutavano una ragazza che cresceva, che si sarebbe fidanzata e avrebbe costruito una sua famiglia, a individuare le cose importanti, a fuggire quelle pericolose, soprattutto a sentirsi sempre in compagnia di Gesù e della Vergine Maria. E il Santuario di Monte Berico, meta di frequenti pellegrinaggi, di Avemarie e di candele accese, era il luogo cui tornare e da cui ripartire, fonte cui attingere non solo un sorso d’acqua ma il senso stesso dei giorni, ancora una volta nascosto in quelle parole: «Fate quello che lui vi dirà».

Che cosa ha detto il Signore alla mamma? Quali parole le ha suggerito?

1.    Le ha detto anzitutto parole di famiglia, quelle che l’hanno portata a condividere con il papà un progetto ricco di amore, fedeltà, di responsabilità. Le scriveva la zia suora nel Natale del 1960, quando la mamma era in Svizzera a lavorare: «Nel tuo fidanzamento sii sempre seria, gentile e buona, non apparentemente, ma concretamente. Ti raccomando, come al principio così sia la fine». E la mamma c’è stata, dal principio alla fine, con la concretezza di chi non amava a parole ma con i fatti, di chi timbrava il cartellino ma solo per passare dalla fabbrica al lavoro di casa, di chi non aveva paura dei sacrifici se diventavano opportunità per i figli. Poche spese fuori posto, per lei e per noi. La ricchezza andava cercata altrove: facendo il proprio dovere, custodendo il contatto con il Signore e mantenendo la concordia. Le gioie per la mamma erano queste, insieme a quella, di vederci tutti a tavola, fino agli ultimi giorni, in quelle nozze di Cana del quotidiano dove proprio le madri sono garanzia del vino buono custodito fino alla fine. Non tutto filava liscio, perché la vita a volte è faticosa, perché gli imprevisti non mancano, perché non sempre ci si capisce. E anche alla mamma a volte venivano i fumi; ma, senza che queste situazioni durassero a lungo, cercava e indicava sempre strade di pace, di comprensione in quella tessitura segreta del bene in cui le ragioni non prendono il posto della verità e la considerazione della propria fragilità aiuta a comprendere anche quella degli altri.

2.    Ma l’orizzonte familiare, così importante per la mamma, sconfinava in uno più ampio. Andata in pensione, “sistemati” noi figli, aveva trovato una famiglia più grande in una esperienza che le consegnava nuove opportunità e nuova felicità: quella del volontariato. Noi ci siamo resi conto fino ad un certo punto di questa realtà e in buona parte l’abbiamo scoperta solo in questi giorni, quando altre persone che condividevano il medesimo impegno ce l’hanno fatto capire. Ogni giovedì c’era la Caritas cittadina, la sistemazione e la distribuzione dei vestiti. Ogni tanto tornava contrariata con quelle domande che a volte la solidarietà ti pone tra aiuto che puoi dare e responsabilità che dovresti chiedere. Ma nel dubbio propendeva per il dono, allestendo anche a casa una piccola Caritas, tutta sua, dove arrivavano altri bisognosi e dove la mano sinistra non sapeva ciò che faceva la destra. Per una quindicina d’anni è andata anche all’Iris, Centro diurno che accoglie chi sperimenta l’infermità della mente. La mamma, portando la sua testimonianza in un convegno dell’Associazione, scriveva a riguardo: «Mi sento a pieno titolo inserita in questa realtà anche se quello che dono è ben poca cosa; quello che ricevo è molto di più. Quando arrivano gli ospiti è una gioia vederli, il loro sorriso si fa grande, ci baciano, ci prendono le mani, si sentono al sicuro, come in famiglia». Una bella pagina di carità, di compassione e di cura, acqua trasformata in vino, di cui non voglio dire niente di più perché la mamma rifuggiva dalle benemerenze terrene e portava la segreta persuasione che sarebbe stata questa famiglia allargata, così la chiamava, ad aprirle le porte del cielo.

3.    E infine le parole della croce. L’episodio di Cana risuona dell’ora di Gesù. Donna, non è ancora giunta la mia ora. E quell’ora ad un certo punto è arrivata, mettendo a soqquadro la nostra famiglia. Non bastava la malattia del papà, l’amianto respirato alla Fervet, che aveva compromesso la salute sua e di tanti colleghi di lavoro. Appena dopo la sua morte, nel luglio del 2020, anche alla mamma veniva diagnosticata la stessa patologia, per aver lavato i suoi indumenti di lavoro, rimanendone contaminata. Una malattia beffarda, insidiosa, malefica. Una pagina passata sottotraccia, di cui troppo poco si parla, che interroga la storia dell'industrializzazione castellana, la coscienza collettiva e lascia l’amarezza a chi, cercando di portare a casa il pane quotidiano, ha talora portato a casa un pane avvelenato. Ma questi sono oscuri pensieri miei. Alla mamma non appartenevano e se li ha fatti non ne è stata vittima, andando avanti giorno per giorno con fiducia, speranza, voglia di esserci ancora per noi figli, i nipoti, le persone care, facendo in modo che la paura di morire non le impedisse di vivere.

E non era la ricerca di una confort-zone, non ignorava la realtà che le apparteneva. Solo che lei la viveva con il Signore: nella preghiera, nella messa, nella comunione che la domenica sera le portavo a casa, nell’unzione degli infermi che ha voluto rinnovare anche nei giorni scorsi.

E forse da tale frequentazione derivava quell’affermazione che ha ripetuto a più di qualcuno, con sorprendente tranquillità: Mi so pronta. Era arrivata l’ora e lei lo sapeva. L’esile crocifisso africano, ricavato da un ramo di un albero, posto sulla testiera del letto sembrava riconoscibile anche un po’ più in basso, tra le membra di un corpo stremato cui, in questi ultimi giorni, potevamo dare solo un sorso d’acqua. Riempite d’acqua le giare. Era quello che il Signore chiedeva anche a noi perché potessimo credere ancora una volta che lui era capace di trasformazione, che anche la vita di una madre, di una sorella, di una nonna sarebbe stata riempita di risurrezione.

Una decina di giorni fa, mentre alzavo le persiane della camera, dicevo: «Mamma, hai visto, sono fioriti gli ellebori che ti piacciono tanto». E lei aveva chiosato: «So mi che no fiorisso altro». Ma poi, come se quell’affermazione fosse spiritualmente troppo spericolata di fronte al figlio sacerdote, aveva aggiunto: «No. Fiorisso da naltra parte». E con il dito indicava il cielo.

Diceva poco fa S. Paolo: Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo i suoi disegni. A volte è difficile intravedere i disegni di Dio: ci sembrano strani, oscuri. Ma tutto concorre al bene e con la mamma custodiamo la persuasione che valga la pena fidarsi del Signore e che le sue fioriture non siano finite. Da Cana ai nostri giorni, dal quotidiano che ci è dato all’eterno che ci sta innanzi.

domenica 25 dicembre 2022

Natale 2022 - Omelia S. Messa nella notte

 Natale del Signore 2022 – Missa in nocte

Un palloncino che sale sopra il cielo di Pusiano, poco lontano dal Lago di Como, con una letterina scritta da un bambino. Per chiedere in regalo il camion dei pompieri. E il palloncino che viaggia inarrestabile tra Lombardia, Veneto e Friuli, per scendere su una strada di Pordenone dove una mano lo raccoglie e lo porta alla vicina caserma dei vigili del fuoco i quali non ci mettono poi molto ad accontentare la richiesta e a spedire il giocattolo all’indirizzo segnato sulla busta. Trama ideale per un film di Natale. Piccolo miracolo frutto di tante coincidenze andate a buon fine ma che parte da un presupposto fondamentale: il gesto di fede di un bambino. Ebbene anche stasera c’è un Bambino che lancia desideri nel cielo di Betlemme. Desideri portati dagli angeli da una regione all’altra, incuranti della notte o dei venti contrari. Desideri raccolti e diventati regalo. E quel regalo sei tu, il desiderio di Dio. Desiderio realizzato perché stasera sei qua. E lui è contento. Era proprio quello che il Bambino voleva.

È questo il mistero del Natale: un Dio felice di averci tra le sue braccia, di credere che la forza dei suoi desideri sia più grande delle nostre resistenze, delle semplici casualità, della falsa pretesa di poter stare senza di lui. 

Come sei giunto a questo appuntamento?

1.    Forse sei giunto mosso da un censimento. Non quello di Cesare Augusto, ma quello delle tradizioni, di chi almeno a Natale sa di dover mettere una messa dopo un cenone o di chi non ha fatto cenoni, ma ricorda una storia e la vuole riprendere, magari per accontentare un padre o una madre o forse una nonna che, vincendo il timore di una tua rispostaccia o di una alzata di spalle, ha avuto l’audacia di chiederti: Vieni a messa in questo Natale? Dio non si preoccupa delle nostre risposte, si cura della nostra presenza. E lui, che legge nei cuori, sa che non sei qui solo per far piacere a tua nonna o per assicurarti la pace di un giorno. Ma perché nel tuo cuore c’è ancora un po’ di nostalgia dell’eterno, perché nessun censimento umano o mondano può possederti in pienezza, perché nell’anagrafe di Dio hai ancora diritto di cittadinanza. Ci hai fatti per te, Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te. Nessuno ci rimuove dal cuore di Dio.

2.    Forse sei qui in questa notte come i pastori. Non sono i personaggi romantici che talvolta immaginiamo e che riconosciamo nelle commoventi statuine del nostro presepe. I pastori erano gente poco raccomandabile, banditi dalla società del tempo, alle prese con una vita raminga e traballante. Anche noi a volte siamo traballanti: nelle nostre scelte, nei nostri affetti, in una morale che ha cessato di distinguere il bene dal male e si è lasciata sedurre dai compromessi, dall’ipocrisia, dalla cattiveria. Ma i pastori sono anche il segno della vigilanza, di chi, conoscendo bene la notte, da essa non si lascia sopraffare. C’erano in quella regione dei pastori che vegliavano di notte, facendo la guardia al loro gregge. E partono i pastori, attratti da un chiarore nuovo: la gloria del Signore li avvolse di luce. Chi di noi non ha abitato tenebre in questo tempo, in questi anni? Tenebre che ci sono piovute addosso e tenebre che abbiamo alimentato. La pandemia che non ha ancora cessato di inquietarci, una guerra fratricida che sembra prolungarsi a dispetto di ogni previsione e di ogni sforzo di pace. E poi le nostre oscurità dentro alle quali ci pare di essere forti, mentre si popolano solo di ombre, come nell’antico mito della caverna. Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce. È la luce di quel Bambino, è la luce che apre ai pastori una percezione nuova della loro vita. Se questa notte sei qui è perché Dio vede il bene di cui sei capace, la solidarietà che segretamente pratichi, la pace che cerchi in te stesso e con gli altri, quel male che ti tiene in scacco, che ostinatamente ritorna e che vorresti vincere. Lo vince lui, se di lui ti fidi. Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani. Questo il desiderio di Dio: di liberare la parte migliore di te. Lo sta già facendo, consegnagli la tua oscurità.

3. Infine puoi essere qui come Maria e Giuseppe, con la gioia di accogliere un Bambino. Nella fatica di quel momento, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. Ma anche con l’emozione della vita che nasce, piccola, indifesa, bisognosa di protezione e ricca di benedizione. Vengono in mente i genitori che hanno vissuto questo momento di meraviglia, i genitori che non ci speravano più, i genitori di Margherita, ultima nata della nostra comunità. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia. Forse è per questo che Dio si fa Bambino: per dirci che la sua forza è nella tenerezza, nella meraviglia, nella dolcezza di lasciarsi prendere in braccio. Che non è quel Dio agguerrito e sussiegoso che abbiamo in mente e che in ogni bambino della terra continua a farsi presente, anche in quel bambino che ogni adulto custodisce e che a volte vorrebbe nascondere. Lo dirà a tutti: Se non tornerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli.  Forse stasera sei qui per tornare un po’ bambino, per riprenderti con semplicità e per ritrovare, accanto al presepe la gioia di essere custodito non da Maria e Giuseppe ma da un Dio che ti vuole bene, al quale appartieni e che ancora si fida di te. Perché c’è il Buon Natale degli uomini e il Buon Natale di Dio. E il Buon Natale di Dio sei tu. Quello del figlio che riposa tra le braccia di un Padre







giovedì 30 dicembre 2021

 

Ascensione del Signore

Ci impressionano le immagini della Palestina, i cieli attraversati dalle scie luminose dei razzi lanciati su Gaza e Tel Aviv. Immagini di una guerra dolorosa e fratricida che si trascina da decenni con colpe scaricate da una parte e dall’altra. In questa festa dell’Ascensione ci piacerebbe vedere un cielo differente, quello che ha inaugurato Gesù ritornando al Padre: Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Un cielo che raccoglie un’unica umanità, un cielo sotto il quale c’è posto per tutti. E perché questo sogno si realizzi, la festa di oggi ci suggerisce tre movimenti: in salita, in discesa, in avanti.

1.    Il primo movimento va verso l’alto. Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Gesù ci invita a dare altezza alla vita, a non soffocarla depotenziandola della sua forza spirituale, ultraterrena. C’è di più di quello che si vede: mi colpiva quello che diceva un cresimato a proposito della pandemia: Secondo me Gesù ha detto: “Fermatevi tutti e pensate a me”. E come dargli torto: al giorno d’oggi per lui ritagliamo pochissimo tempo, siamo tutti sempre impegnati e ci dimentichiamo spesso la ragione per cui siamo in vita. Un ragazzo ci ricorda le ragioni alte dell’esistenza. Quelle che motivano la scelta di battezzare un bambino e di educarlo nella fede. Quelle che interrogano il modo con cui viviamo la domenica. Quelle che riguardano la realtà della morte e una vita eterna ritenuta improbabile anche dagli stessi cristiani. Esiste cielo sulla tua vita, sulle tue giornate? Giovedì un 19enne si è buttato dal multipiano di Moncalieri, a Palermo mercoledì un trentenne si è tolto la vita lanciandosi dal terzo piano di casa. Un ventinovenne ieri sull’autostrada vicino a Brescia, anche lui l’ha fatta finita. E poi le risse dei quindicenni. Fragilità certo, pandemia, situazioni psicologiche complesse. Ma anche la nostra incapacità di guardare con speranza alla vita, di indicare orizzonti. Questi ragazzi ci smascherano, ci dicono che il re è nudo. E non basta riaprire la movida: bisogna riempire il cuore, accendere il desiderio, indicare l’oltre. Perché quello che vedi dal multipiano è troppo limitato.

2.    Il secondo movimento è verso il basso. Che significa, si chiede Paolo, che ascese se non che prima discese? Paradossalmente tu vedi il cielo se ti distendi sulla terra, se rimani aderente ad essa. È questa terra che deve diventare cielo. Com’è che diventa cielo? Paolo lo ricorda: Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. I razzi non sono solo a Tel Aviv, sono anche tra noi. Razzi che alterano anche il momento in cui una persona muore, perché anziché lasciarla andare in pace, intorno a lei si scontrano le preoccupazioni per l’eredità, il controllo di chi entra e chi esce di casa, le diffide reciproche a stare lontani. Non va meglio con le prime comunioni, con bambini che vengono riprogrammati a ignorare i nonni, quella zia odiosa, i vicini di casa. E a dare le risposte scritte sul copione spietato dei loro genitori. Il giorno della prima comunione. Pensi di fargliela pagare al parente, reo di chissà quali colpe, la stai facendo pagare a tuo figlio. In sofferenza, menzogna, sensi di colpa e cattiveria che, se qualcuno non lo salva e non gli suggerisce una vita diversa, un ragazzo imparerà a sua volta a coltivare e a far crescere. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: prenderanno in mano i serpenti. Non liberare i serpenti: impara a prenderli in mano, a controllarli, a dominarli. Il serpente del rancore, della gelosia, del risentimento, della vendetta. La comunione non è la sceneggiata in chiesa, è la vita in comunione.

3.    Infine movimento in avanti. È quello che Gesù raccomanda ai suoi amici prima di salire al cielo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Il cielo appare se porti vangelo, se abiti il mondo con la buona notizia che ti appartiene, se regali verità, speranza, fiducia. Pensate agli Stati generali sulla natalità che si sono tenuti a Roma. È sotto agli occhi di tutti il vistoso calo demografico che passa da un anno all’altro,  con nuovi record negativi. Dal 2008 la flessione è del 30%, nello scorso anno del 3,8. E non c’è solo un problema economico, cui il Governo sta cercando di dare risposte; c’è anche un problema culturale, che ha a che fare col tempo libero, con la libertà, con la realizzazione di sé. Ad esempio negli ambiti dello spettacolo e dello sport “è triste vedere modelli a cui importa solo apparire, sempre belli, giovani e in forma”. Ma mantenersi giovani “non viene dal farsi selfie e ritocchi”, ma “dal potersi specchiare un giorno negli occhi dei propri figli”. Ecco il vangelo: cosa annunci in questo tempo, cosa ti sta a cuore? Giusto difendere le persone dalle discriminazioni, senza perdere di vista la discriminazione della vita nascente e il sostegno di chi la può promuovere. Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Lo guardiamo il cielo, ogni tanto. Ma ricordiamoci che è sceso qui sulla terra e con la forza del vangelo si allarga e ci regala bellezza.

 

mercoledì 29 dicembre 2021

Esequie Diego Marchesan

 

Esequie Diego Marchesan (29 dic. 2021)

(Letture bibliche: Rm 8, 31-39  / Lc 2,41-52)

Non si sa se certe persone siano nate così o se sia stata la vita a plasmarli. Fatto sta che Diego, fin da piccolo mostrava le sue propensioni. Il papà lo andava a prendere in asilo e lui dov’era? Nascosto in fondo ai tombini che formavano il trenino colorato da cui usciva solo quando gli veniva promesso che avrebbe guidato lui il motorino per rientrare a casa. Era affascinato dal vento. Gli piaceva vedere l’albero in giardino agitarsi quando arrivava il temporale. «Stai lontano, gli diceva sempre il papà, c’è un leone, ti mangia». Ma questo avvertimento rendeva la faccenda ancora più interessante. Così, se c’era una collina, lui doveva arrivare in cima rima degli altri e, se c’era un fiume, lui si doveva sporgere sull’argine. Poi arriva l’adolescenza con le sue turbolenze, con le raccomandazioni che sembrano fatte per niente, con la ribellione che accompagna numerosi ragazzi e che si riflette sulle loro famiglie, su genitori che registrano l’inefficacia dei loro interventi.

La vicenda di Maria e Giuseppe che perdono il loro figlio dodicenne forse ci può aiutare a comprendere quello che succede a casa nostra, a rileggere la vicenda di Diego e a capire che perduti e ritrovati, in fondo, lo siamo un po’ tutti.

1.    Anzitutto c’è la constatazione di un’assenza. Un ragazzo che non è più nella carovana. Maria e Giuseppe erano stati a Gerusalemme, per la festa di pasqua e avevano portato anche il loro figlio.  La visita ai parenti, la liturgia del tempio, le ricorrenze, i ricordi, in una ritualità consegnata da una generazione all’altra. Poi il ritorno, a Nazaret. Le famiglie viaggiavano unite per affrontare meglio il cammino e i ragazzi, come avviene anche oggi, stavano insieme, sotto lo sguardo degli adulti. Ma non era un controllo serrato. E così Maria e Giuseppe, credendo che Gesù fosse nella comitiva si accorgono che manca, solo dopo una giornata di cammino. E tornano indietro. Ecco la prima questione importante: accorgersi di chi manca e iniziare a cercare. Non è detto che troviamo subito chi manca, che chi è scomparso sia disposto a rientrare. Ma, cercando, evitiamo di sparire anche noi, di sottrarci alla nostra responsabilità di padri, di madri, di educatori. Un ragazzo prima o poi prenderà le distanze da casa, ma anche questa salutare e necessaria operazione sarà possibile solo se c’è una casa, un riferimento, perché dal nulla non ci si può distanziare. La vicenda di Diego interroga i rapporti che ci legano, famiglie e genitori che spesso si chiedono che cosa possono ancora fare per un figlio che rompe gli abituali confini, ma anche le relazioni, le compagnie di quel figlio: stai custodendo i tuoi amici o qualcuno manca all’appello?  Diego aveva tanti amici e in queste ore sono stati proprio loro a farci conoscere qualcosa in più di lui: i suoi spostamenti, le sue idee, la sua sensibilità, compreso il cuore che nascondeva sotto la corazza del ragazzo testardo e ribelle. La vicenda di Diego interroga anche le istituzioni, quelle alle quali era un po’ allergico. Ma forse è proprio per gli allergici che dovremmo imparare ad esserci, senza pensare che debbano sempre adeguarsi loro e accettando qualche volta di poter cambiare anche noi, chiesa compresa. Il tentativo di costruire un oratorio risponde a questa esigenza e dovrebbe essere un pensiero non solo del prete ma dell’intero paese che a volte non ha idea di dove siano i suoi giovani o li presuppone nella carovana. Uno degli aiuti che Diego ha avuto nella sua adolescenza è stata la vecchia Agenzia delle idee, realtà che ha accompagnato la storia di Castello di Godego e che forse potrebbe ricordarci uno stile di prossimità e aiutarci a capire se i perduti siano i ragazzi che ci provocano con il loro stile poco convenzionale o non siamo noi incapaci di raccogliere i loro segnali. Cercare e cercarsi. Ascoltarsi, magari mandare segnali. Attivare i localizzatori.

2.    Nella ricerca di Maria e Giuseppe ci sono però anche le loro domande: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io angosciati ti cercavamo. Penso a quante volte Renato e Daniela avran fatto o si saran fatti questa domanda. Ed è proprio questo l’atteggiamento importante: farsi domande, capire, tenere aperta la vita e la possibilità che essa ci riveli qualcosa in più, che l’altro di dica qualcosa in più. Perché in genere, più che domande noi formuliamo risposte, sulla base di idee, non sempre verificate o di pregiudizi che già hanno collocato l’interlocutore di turno nelle nostre semplificazioni o nelle nostre esclusioni: tu sei, tu devi, tu non… Un genitore però fa il suo lavoro e ci prova sempre: a capire, a ragionare, a dire la sua. E allora Diego marcava le distanze: «Basta, madre! Te me ghe insegnà tutto. Desso fasso mi».  Daniela,  per tutta risposta, gli mandava una faccina con la bocca cucita. E lui allora, di lì a poco, nuovo messaggio: «Scusa, mammetta». Madre, quando si impuntava e difendeva il territorio, mammetta quando capiva che quel legame era vitale. E così Daniela si rifugiava nelle parole di Madre Teresa. I figli sono come gli aquiloni: gli insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo. Gli insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo sogno. Gli insegnerai a vivere, ma non vivranno la tua vita. Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto. Educare vuol dire credere in una promessa di vita buona, anche quando tarda a realizzarsi. E forse, proprio per questo, Daniela, pensando ai suoi figli, ogni tanto si affacciava sulla finestra di casa, verso il Santuario della Crocetta, dicendo: Ciao, Maria, ricordate che i ze tui. Eora vedi ti.

3.    Infine le convinzioni. Perché ogni ricerca insegna qualcosa. Ci possono far riflettere le parole che Gesù rivolge ai suoi: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Sia chiaro, Diego non era Gesù, come Daniela e Renato non erano Maria e Giuseppe. Come noi non siamo nessuno per intervenire nelle loro faccende. Ognuno porta con sé risorse e fatiche, energia e limite e ciascuno a casa propria nasconde qualcosa che gli altri non sanno. Ma quella risposta di Gesù non va a frugare nei nascondigli: è un invito a figli, padri e madri, forse anche a fratelli, nonni, amici a interrogare la vita ad un livello più alto. Quello delle cose del Padre. Perché a volte la confusione avviene quando siamo troppo legati alle cose della terra e non ci rendiamo conto che è il cielo la nostra misura più vera, come questo tempo di natale ci aiuta a ricordare. Gloria a Dio nei cieli e pace in terra agli uomini che lui ama. Abbiamo bisogno di prendere sul serio la vita e i suoi confini, abbiamo bisogno di distinguere ciò che resta da ciò che passa, abbiamo bisogno di agganciare i giorni a Qualcuno che li accompagni e li custodisca. Chissà qual era il mondo religioso di Diego: non amava la chiesa, ma don Giovanni Faganello, rettore della Crocetta, gli era rimasto nel cuore e lo andava a trovare. Non era tipo di tante devozioni, ma tornando dal Messico aveva con sé le medaglie di Nostra Signora di Guadalupe; chissà se credeva nella vita eterna, ma per i funerali della nonna era arrivato da lontano, accompagnandola con le preghiere. E soprattutto era uno dal cuore buono e generoso, che per aiutarti faceva l’impossibile. Allora, certo, sono importanti le preghiere, la messa, le medagliette, ma il paradiso è aperto soprattutto dalla carità, quella che sai praticare anche se non sai che si chiama così.

Diego scherzando, rassicurava ai suoi: «Vedarì che a 35 anni metto a testa a posto». Poi l’obiettivo dei 35 era stato spostato ai 40.  Li avrebbe compiuti proprio oggi, 29 dicembre. Vedrà il Signore se quella testa, Diego, l’avesse messa a posto. Forse però poco importa. Perché quel che interessa a Dio non è tanto la tua testa, ma il tuo cuore. Che possa aprirsi a lui e agli altri, che possa ospitare ribellione ma anche verità, che possa battere delle tue passioni ma anche delle passioni di Dio per ciascuno dei suoi figli, compresa la passione con cui li va a cercare nel momento della morte. Diceva S. Paolo poco fa: Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Chi può resistere alla sua ricerca? Affidiamo Diego al Signore. Lo accompagni all’incontro la Vergine della Crocetta, sua vicina di casa, che l’ha visto crescere e che meglio di ciascuno di noi sa leggere e comprendere il cuore di questo suo figlio. E la Vergine accompagni anche noi e ci insegni la maternità vera, quella di una chiesa e di una società che non perdano nessuno e che possano essere ugualmente casa, ovunque un ragazzo, un giovane o un uomo mettano la loro dimora. 

lunedì 29 novembre 2021

Omelia esequie Federico Pegoraro

 

Federico Pegoraro (29 nov. 2021)

(Lam 3,17-26 / Gv 12, 20-25)

Alle origini del sole

agli albori delle stelle

nasceva Gaia

una forza sovrumana, la natura.

Una melodia, la più pura.

Una foglia la nostra creatura, flebile al vento, guidata da Eolo

con portento.

Una spira di vento.

Un terreno puro e duro.

Un filo d’erba verde

per chi non si perde

ma ci crede ancora.

Con questa poesia, la scorsa estate, Federico si è guadagnato una menzione speciale al premio letterario “Onigo Mura Bastia”. Una poesia che muove dalla formazione dell’universo, della terra, della natura. Una forza sovrumana. E in questo flusso di energia cosmica, l’uomo, la nostra creatura, appare come una foglia portata dal vento,  che si posa sulla terra: un terreno puro e duro. Tutto finito? No. Federico ci invita a osservare un filo d’erba verde, presagio di una vita che continua, per chi non si perde, per chi ci crede ancora.

1. La vita di Federico è così, foglia portata dal vento, depositata sul terreno duro della giovinezza rapita, di una malattia in buona parte sconosciuta, delle terapie dall’esito incerto, delle attese infinite e di numerose conseguenti delusioni. Per lui e per la sua famiglia. Vengono in mente le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Libro delle Lamentazioni.

Son rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere.
Il ricordo della mia miseria e del mio vagare
è come assenzio e veleno.
Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima.

Ma Federico non viveva accasciato. Non l’aveva fatto prima della malattia e non l’ha fatto neanche durante.

Era quel filo d’erba nel quale credeva e nel quale invitava a credere. Basta scorrere le pagine di Sunshine, narrazione autobiografica che descrive l'iniziale lucido confronto con gli esordi del male, per rendersene conto. La voglia di esserci, di lottare, di capire era più grande dei limiti che il male poneva, della fatica di motivare agli amici quello che stava capitando, dell’incertezza che trapelava dal colloquio con i medici, della necessità di riorganizzare la vita sulla base del possibile e non del desiderabile. Ma ugualmente Sunshine, sole che splende, anche quando nella camera dell’ospedale di quella luce ne filtrava troppo poca. Federico è un invito ad amare la vita, ad accoglierla in ogni stagione, a ricercarla anche nelle pagine dolorose che sembrerebbero smentirla e per le quali a volte vorresti farla finita.

Ogni malato ha qualcosa di importante da dirci, ogni malato è docente ordinario alla cattedra del dolore, ogni malato merita attenzione, rispetto, silenzio. E ogni malato è una provocazione su come viviamo i nostri giorni, specialmente quelli in cui perdiamo la proporzione delle nostre paturnie rispetto a chi sta male davvero, ci lamentiamo del nulla o rimaniamo in ostaggio di un altro male, che forse potremmo curare: la presunzione, il rancore, il sospetto, la chiusura del cuore. Val la pena di vivere così? Federico avrebbe qualcosa da dirci? Forse sì, il filo d’erba verde. Da cui tutto può ripartire. Anche la guarigione dal male che non credi di avere. Non calpestare mai le possibilità che la vita ti offre, neanche quelle più flebili. 

2. Ma Federico non ha combattuto da solo. La breve parabola della sua vita è stata accompagnata dalla straordinaria, diuturna vicinanza della sua famiglia. Tenace e caparbio era lui nello studio, negli impegni, nei valori in cui credeva, ma altrettanto ostinati erano i suoi nell’assicurare presenza, assistenza, affetto, speranza. La mamma, il papà, i fratelli, qualche familiare. Una fedeltà che commuove, perché un conto sono le situazioni che si risolvono in fretta, un conto è lo stillicidio dei giorni che si ripetono uguali, talvolta su una brandina accanto a chi ami, dove ogni respiro percepito diventa la misura del tuo. Una volta ho chiesto a Gabriella come facesse a resistere così a lungo, così determinata. «Non sopporto l’idea, mi disse, che Fede, svegliandosi possa vedere un volto diverso dal nostro». Ma un volto diverso, a dire il vero, c’era: era quello degli amici. Quelli consegnati già dalla scuola materna, quelli dei giochi e delle scorribande, delle confidenze e delle cavolate, quelli che allargano il mondo e lo rendono appassionante. Ma anche quelli che non ti mollano, che sono disposti ad ascoltarti seguendo il tuo sguardo sul vetro alfanumerico mentre componi una frase, quelli che sfidano i protocolli pur di stare con te, anche nella pandemia. Forse il filo d’erba di Febo, così per gli amici, è anche il filo delle relazioni. Esserci per qualcuno. Voler bene e lasciarsi voler bene. Perché l’uomo è fatto così e perché, forse, è tutto qui il segreto della vita. Nati grazie a qualcuno, solo se a qualcuno ci affidiamo e solo se qualcuno ci viene affidato comprendiamo chi siamo. Stringi relazioni buone, non perdere nessuno. Perché così non ti perdi neanche tu.

3. E Dio dove è andato a finire? C’è spazio per lui nel momento in cui tutto sembra smentirne la presenza e l’azione? Federico non ha mai fatto questo pensiero, non apparteneva né a lui né ai suoi. E non perché fossero indifferenti. Ma forse perché Dio dava loro un appuntamento diverso dai soliti. Quello del chicco di grano che muore. «Signore, chiedono alcuni greci a Filippo: Vogliamo vedere Gesù». E quando quella domanda arriva a Gesù, lui risponde: «Se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane da solo, se invece muore produce molto frutto». È stata la mamma di Federico a ricordarmi questa pagina. E allora mi viene da pensare che il filo d’erba verde non fosse il prato all’inglese, ma il germoglio di quella vita nuova che Gesù stava nuovamente generando, in Federico e in chi gli stava accanto. Vita nuova di chi rimaneva e non si scostava dalla croce, come Maria e il discepolo amato, accettando di abitare un lungo venerdì santo. Vita nuova di chi continuava a serbare la memoria delle cose belle vissute insieme, senza che il male riuscisse a cancellarle. Vita nuova di chi, mentre attendeva di abbracciare le membra di un figlio per l'ultima pietà, lasciava che il suo corpo ancora potesse restituire speranza ai giorni di qualcun altro. 

E vita nuova per Federico, per quella strana possibilità che appartiene a Dio di prendere sul serio le nostre preghiere. Perché se un tempo, in macchina col papà, Federico recitava le preghiere andando a scuola, ora con la sua vita era diventato preghiera, quella che appartiene a tutti i crocifissi della storia e che lui, Gesù, crocifisso con loro, conosce bene. Una preghiera alla quale agganciamo anche la nostra, perché Dio ci aiuti a vedere dove non vediamo. Una preghiera che è anch’essa un filo d’erba verde, su un terreno duro e puro, per chi non si perde, per chi ci crede ancora.