sabato 9 aprile 2016

Funerale Sr. M. Redenta Coldebella


Sr. M. Redenta Coldebella (22 mar. 2016)

Fil 3,20-21 – Mt 18,1-5

A Godego Sr. Maria Redenta ci veniva sempre volentieri perché questa era la sua comunità. Nata il 21 novembre del 1919, all’indomani della guerra, era stata battezzata nove giorni dopo dal cappellano d. Carlo Longo e cresimata nel 1926 da mons. Longhin. E il suo desiderio era quello di ritornare a Godego anche nella morte e riposare nel cimitero del paese insieme a questa comunità per la quale sempre arrivavano le sue preghiere. Un regalo che ci ha fatto in vita e un regalo che continua anche nella morte. 



1.    Mi pare che qui ci sia un aspetto importante della vita consacrata. Sr. M. Redenta aveva alle spalle ben 70 anni di professione religiosa. E una religiosa nella comunità cristiana, oltre ai tanti servizi che assume,  ci sta proprio per questo: per annunciare cieli nuovi e nuova terra. Infatti, la Lumen Gentium, grande costituzione conciliare che parla della chiesa, dopo aver dedicato il capitolo sei ai religiosi nel capitolo successivo affronta l’indole escatologica della chiesa. Parole difficili per ricordarci una verità fondamentale: siamo in cammino verso il cielo. E una suora nella comunità ci aiuta a ricordarlo. La nostra patria è nei cieli: di là aspettiamo il salvatore nostro Gesù Cristo. Ecco allora l’invito che ci rivolge Sr. Redenta anche con la solarità e l’entusiasmo che portava con sé: vivi i tuoi giorni senza lasciarti schiacciare. Fa’ che il lavoro non ti assorba completamente, che le preoccupazioni e gli affanni non ti affossino, che la tristezza non diventi una pagina troppo famigliare. Perché i discepoli del Signore se ne stanno con i piedi per terra ma con il cuore nei cieli, nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il Signore Gesù Cristo, come proclamiamo in ogni nostra messa.  

2.    La vita di Sr. Redenta però è stata anche un dono quotidiano ai fratelli. Tante le comunità che ha servito: Pozzale, Milano, S. Maria Capua Vetere, Acquaseria, Moncalieri, Bergoro e Marene. Il suo cuore era legato però a Palazzolo dove a più riprese ha passato vent’anni. E in questa comunità ha riscoperto la sua vocazione materna. Lei che era rimasta presto orfana di madre e si era occupata dei suoi fratelli, diventava nuovamente mamma e forse anche un po’ nonna di tanti bambini: presenza importante per loro e per numerose famiglie di quella comunità. Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. I bambini nella comunità ci ricordano le misure evangeliche della semplicità e della fiducia, pagina non di poco conto per una parrocchia, ma anche per una suora che apparteneva a una famiglia religiosa nella quale una giovane carmelitana di nome Teresa di Gesù Bambino ha proposto come cammino cristiano “la piccola via dell’infanzia spirituale”. Ti rendo lode o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. E Sr. M. Redenta, che non aveva titoli scolastici, ha ricevuto il diploma del Regno dei cieli. 

3.    C’è un’altra pagina importante che questa sorella ci consegna. È racchiusa nel suo nome: Sr. M. Redenta di Santa Croce. E il fatto che ci abbia lasciato nella domenica delle Palme quando l’ombra della croce si allunga ormai sulla Settimana Santa, ci dice che quel nome non era un caso. La croce questa sorella l’ha sempre portata, accogliendo la volontà di Dio. Ma quel carico si è fatto più pesante quando nel 2004 quando, a 85 anni, ha dovuto lasciare Palazzolo per raggiungere Rodengo Saiano. Le è costato parecchio: dopo tutto non era mica ancora vecchia! E tuttavia anche nella nuova collocazione ha vissuto i suoi giorni in piena disponibilità, nella preghiera, nei servizi comunitari, nella custodia della serenità comunitaria. Fino al giorno in cui, vigilia del suo 70° anniversario di professione religiosa è stata colpita da un’infermità che l’ha bloccata a letto per il resto dei suoi giorni. La Santa Croce era arrivata tutta intera. E Sr. Redenta l’ha portata nella fiducia in quel Dio nelle cui mani si è sempre al sicuro, anche quando pensiamo di essere perduti. Chi ci separerà dal suo amore? Affidiamo Sr. Redenta all’abbraccio della misericordia divina, ringraziamo il Signore per la sua vocazione e la sua testimonianza, chiediamo a Dio che il suo cammino sia strada buona per nuove risposte al Signore nella vita consacrata e nell’adesione al vangelo.

Funerale Antonio Bortolotto


Funerale Antonio Bortolotto (24 marzo 2016)

Rm 8,31-35.37-39 Lc 23,35-46

A volte ti chiedi se il Signore si non si sia distratto. Perché pazienza che prima o poi si muoia, pazienza che qualche volta quel prima arrivi quando proprio non te lo aspetti, ma quando la vita si accanisce e scuote una famiglia già tanto provata i conti proprio non tornano. Antonio e Bruna nove anni fa avevano perso la loro figlia Giada. Una vicenda che li ha segnati profondamente e che ha colpito anche la nostra comunità perché Giada era un piccolo raggio di sole che splendeva di altruismo e bontà. E ora che il Signore è tornato a prendersi Antonio, nel cuore della notte, in una modalità improvvisa e velocissima ci troviamo prigionieri dello sconcerto e dello smarrimento. Ma che fai, Signore? Cosa vuoi dirci con questi eventi nei quali ci pare di naufragare?

Domande che rimangono inevase in questa settimana dove anche nelle parole di Gesù risuona il grande interrogativo della distanza divina: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Ecco, noi oggi non abbiamo molte risposte. Abbiamo però qualcuno che interroga il Padre con noi e ci insegna a bussare al cuore di Dio.  
Antonio se n’è andato la notte della domenica delle Palme quando, inoltrandosi nella Santa Settimana, la chiesa si mette in ascolto della Passione del Signore. E sentiamo che quella pagina non è solo sua: appartiene ad Antonio, appartiene a Bruna e appartiene a tutti noi. E allora vorrei ritrovare in quella vicenda alcuni snodi che ci aiutino ad accostare da credenti quello che stiamo vivendo.
1.    Il racconto inizia con queste parole: Quando venne l’ora. Gesù è consapevole che sta arrivando un momento decisivo per la sua vita. E ad esso si prepara. Quali ore segnano la nostra vita? A volte sono ore molto terrene, fatte di impegni, appuntamenti incalzanti, frenesia. Oppure ore di evasione, di stordimento nelle quali ci tentiamo di allontanarci da ritmi produttivi che vogliono catturarci, senza renderci conto che è un divertimento che ci svuota. Anche Antonio guardava l’ora. Anzitutto quella della sua attività professionale, svolta con passione, intraprendenza, onestà. Le ore di lavoro del cristiano non corrispondono sempre alle ore del mondo. Ma questo tempo dato alla professione non impediva ad Antonio di riconoscere anche l’ora della famiglia e dell’aiuto da dare agli altri. Riempiva di attenzioni sua moglie e non dimenticava di dare una mano a chi poteva aver bisogno di lui. Quante cose facciamo ogni giorno: cosa passa e cosa resta? Quando sopraggiunge l’ora con che cosa vai incontro al Signore? Siamo di passaggio, sembra dirci oggi Antonio. Impara a guardare il cielo e non lasciarti catturare da un tempo vuoto di eternità. 
2.    Mentre sopraggiunge l’ora, Gesù si reca nell’orto degli ulivi. Gli ulivi qui in chiesa ci aiutano a ricordare questo momento nel quale Gesù si inginocchia e prega. Una preghiera che diventa lotta. Entrato nella lotta pregava più intensamente. Per capire Dio bisogna sintonizzarsi con lui, aprire il cuore, ascoltare la sua voce. E questo richiede pazienza, forza, combattimento. La preghiera è il terreno di questo esercizio che ci porta pazientemente a far spazio ai disegni di Dio, a scrutarne gli intendimenti, a zittire le nostre ragionevoli considerazioni per far posto ad orizzonti più ampi. I discepoli sopraffatti dal sonno non pregano. E a quel punto non capiscono più niente: fuggono, tradiscono, rinnegano. La crisi di fede che anche noi a volte patiamo, è spesso anticipata dalla crisi della preghiera. Non preghiamo e non capiamo più niente, né di noi, né di Dio. E la vita interiore si addormenta: rimangono luoghi comuni, banalità, scongiuri. Antonio viveva una preghiera credente. Con molta discrezione poiché su queste faccende era un tipo piuttosto riservato, ma anche con il desiderio di guardare oltre. E in quell’oltre c’era sua figlia: nella preghiera Antonio sentiva la sua vicinanza, sentiva di non essere solo. Sentiva che Dio non abbandona e che non può andar perduto ciò che nell’amore si vive. Che ne hai fatto della preghiera? Non dimenticartela mai perché essa ti salva dalla solitudine e dal vuoto, ma anche dalle tentazioni di onnipotenza e di metterti al posto di Dio. 
3.    C’è un altro momento della passione che oggi può dirci qualcosa. Il dialogo tra Gesù e quel malfattore appeso con lui. Mentre uno dei due condannati inveisce contro Gesù e lo insulta, l’altro chiede: Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. E Gesù lo prende sul serio: In verità ti dico: oggi con me sarai in paradiso. Antonio non era un malfattore, anzi era un uomo di grade bontà e rettitudine. Eppure, da quando Giada se ne era andata, il pensiero di andare da lei era diventato costante. E lo confidava a più di qualcuno. Guarda che a me la morte non spaventa, Vado dalla mia Giada... Come se dicesse: Signore, portami con te, voglio riabbracciare mia figlia. Non sappiamo che cosa abbia determinato la morte di Antonio. Sappiamo però che quel suo cuore ad un certo punto non ce l’ha fatta più e forse, proprio vedendo quel cuore spaccato dall’amore e dal dolore il Signore è venuto a prenderselo, dicendo le stesse parole rivolte al malfattore: Oggi con me sarai in paradiso. Il Signore non ci perde, non perde niente di quello che nell’amore abbiamo costruito. E se Antonio se n’è andato, forse non è una tragica fatalità, non è perché Dio era distratto, ma perché aveva ascoltato ormai troppe preghiere. E siccome  anche Dio è un Padre che ha perso un Figlio, tra padri ci si capisce e si arriva a darsi una mano anche su strade impensabili. Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Forse il dolore, il pericolo, la spada. Né morte né vita ci allontaneranno da colui che è morto per noi.
Affidiamo Antonio all’abbraccio di Dio e a quello di sua figlia. Per Bruna e per tutti noi chiediamo occhi di fede e di speranza.





Funerale Ezio Pierantozzi


Funerale Ezio Pierantozzi (4 aprile 2016)


Ap 21,1-7 -  Gv 20, 11-18



C’era un'immagine che girava sui social stamattina in ricordo di Ezio. Era l’orto del quartiere Muson dove Ezio passava il suo tempo animando il lavoro con le sue conversazioni. Quel pezzo di terra ci ricorda che anche la risurrezione del Signore avviene in un orto, un giardino nel quale le domande dell’uomo si intrecciano con i segni di Dio. «Donna, perché piangi, chi cerchi?». «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l'hanno posto». La morte ci disorienta, ci porta via non solo i nostri cari, ma anche le nostre persuasioni. E forse Dio ci dà appuntamento in un giardino fatto di terra per ricordarci anzitutto la nostra fragilità: L’uomo – afferma un’antica preghiera di Israele – è come l’erba del campo: al mattino germoglia e fiorisce, alla sera è falciata e dissecca.



1.    Un primo regalo che ci fanno i nostri cari che se ne vanno è ricordare questa condizione esistenziale. Noi viviamo spesso in una bolla di insipienza che ci sottrae alla verità della vita. Viviamo travolti da ritmi lavorativi e da una serie di preoccupazioni che talvolta ingannano l’esistenza, come se dovessimo rimanere per sempre in questo mondo. Rallenta, sembra dirci ora questo fratello, prendi contatto con la terra, perché da essa proveniamo e ad essa ritorniamo. Insegnaci a contare i nostri giorni – prosegue la preghiera di Israele – e giungeremo alla sapienza del cuore. Ezio conosceva la sua malattia, ne è sempre stato partecipe e se ad essa inizialmente si ribellava, poi ha imparato a conviverci, continuando a esprimere con dignità i suoi affetti, le sue convinzione, la sua dedizione agli altri. 

2.    Ecco, questa è la seconda eredità che Ezio ci lascia: le relazioni che ha vissuto. Con la sua famiglia, certo: moglie, figlie, nipoti. Ma anche con una famiglia straordinariamente ampia che lui ha costruito. Marchigiano di origine, era giunto a Godego negli anni ’70, a motivo dell’insegnamento. E in questo nostro contesto, a dire il vero un po’ chiuso e sospettoso nei confronti dei “foresti”, lui si era inserito perfettamente, tanto da diventare promotore e animatore di numerose iniziative sportive, culturali, amministrative. Per qualche anno assessore allo sport è anche all’origine della nostra Pro-loco. La sua missione però era soprattutto a scuola dove l’insegnante sapeva di essere anche un educatore, stabilendo sempre con i suoi studenti un rapporto di cordialità, confidenza e sostegno, senza che venisse meno l’autorevolezza. Vivere sulla terra non vuol dire solo ricordarsi che siamo fatti di terra: vuol dire anche rendere la terra più abitabile, renderla anticipo di quella città santa che scende dal cielo come sposa. Oggi siamo spesso incagliati in una pericolosa deriva nel privato dove l’impegno nei confronti degli altri è visto con sufficienza, con sospetto tanto da ritenere che la dimensione pubblica della vita appartenga solo a chi possiede un mandato elettorale o ha tempo da perdere. E dimentichiamo la grande pagina cristiana della solidarietà e della ricerca del bene comune. Non ti chiudere, sembra dirci Ezio. Ritrova gli altri nella tua vita. Perché non si tratta solo di fare del bene a loro. Si tratta di diventare se stessi, di scoprire i lati più belli dell’esistenza, la capacità di voler bene, la gratuità, la gestazione di qualcosa di nuovo di cui anche tu sei capace. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! 

3.    Infine nella terra di Ezio c’era anche l’esperienza della fede. Per alcuni versi lui aveva una fede all’antica che lo portava ad apprezzare il gregoriano, preti e parrocchie all’insegna della semplicità e della famigliarità. Per altri era un uomo in ricerca, critico su ciò che non andava nei cristiani e nella chiesa, affascinato da Francesco d’Assisi e da Papa Giovanni. Mi pareva un uomo che indicasse strade di verità, secondo quello che diceva Ignazio Silone, uno dei suoi autori preferiti: Mi dà fastidio stare con gente che dice di attendere la vita nuova con la stessa noia con cui si attende il tram.  Ecco, non si può vivere la fede con noia. Lasciati prendere dalla sorpresa di Dio, come Maria di Magdala, quando al sepolcro si sente chiamare per nome. Maria! …Rabbuni!



A questa sorpresa affidiamo Ezio, perché il Signore lo prenda con sé e nell’abbraccio della misericordia gli consenta di vedere i cieli nuovi e la nuova terra che lui ha preparato per chi in lui crede e in lui vive.

Omelia 10 aprile 2016


Terza domenica di Pasqua



Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli. Non è stato per niente facile per i discepoli credere nella risurrezione. La tentazione era quella di tornare al mestiere di prima: «Io vado a pescare». «Veniamo anche noi con te». In queste parole c’è tutto il disorientamento di chi si sente tradito. Una grande illusione divenuta delusione. E a questo stato d’animo si aggiunge il fallimento professionale: In quella notte non presero nulla.

Qual è la strada che indica Gesù per recuperare fiducia e tornare a credere in lui?



1.    Anzitutto Gesù attiva una memoria buona. Gettate la rete dalla parte destra e troverete. Una cosa del genere era già capitata all’inizio della storia con Gesù: quando lui aveva chiamato i discepoli e aveva riempito le loro reti. Ora quell’episodio riaffiora nei ricordi e i discepoli capiscono che quanto hanno vissuto non è andato perduto. Ecco un primo invito per rintracciare il risorto. Ripensa alla storia con lui, ai momenti preziosi vissuti insieme, a quando ha riempito le tue reti. A volte noi interrompiamo la scansione del tempo in un presente vuoto di memoria che cambia i significati dell’esistenza. Le fatiche con la moglie o il marito impediscono di vedere la bellezza dell’innamoramento o dei primi anni di matrimonio, la passione che mettevamo agli inizi di un’attività professionale si dissolve nella routine degli anni successivi dove è solo il soldo a guidarci e non più la creatività, anche un’attività di volontariato può diventare il club delle beghe, dei sospetti, delle recriminazioni: e non ti rendi conto che Gesù è ancora lì che ti dice: Getta la rete e vedrai nuovamente le mie sorprese.



2.    Ma per riconoscere il Risorto c’è bisogno anche che qualcuno ti dica: È il Signore! È quello che fa il discepolo amato e che permette a Pietro di gettarsi in acqua. La fede non ce la inventiamo: è un dono che ci viene fatto da qualcuno che ci indica Gesù risorto. E questo ci insegna a farci attenti a chi ci dice queste parole e ad essere anche noi capaci di dirle. Perché quando perdiamo il Signore non vediamo più niente e mettiamo in discussione anche quello che vedevamo un tempo. E allora abbiamo bisogno di qualcuno che ci stia accanto e ci ripeta quelle parole che illuminano. Ecco perché la fede non può essere un cammino in solitudine. A volte c’è questa pretesa: di non aver bisogno degli altri nelle questioni che riguardano Dio e che anche gli altri se la debbano sbrogliare da soli. E a volte facciamo danni; perché quando un bambino scrive tra i desideri della prima comunione: Caro Gesù, se non chiedo troppo, vorrei che tutti potessero venire, capisci che gli impedimenti non sono le distanze chilometriche, ma quelle credenti di adulti che aprono cammini di responsabilità nei ragazzi con la pretesa di starsene fuori. Di questo, prima ancora del Signore s’indignerebbe Tata Lucia. Se non hai le risorse per dire a tuo figlio: È il Signore! prova a vedere se non te lo possa dire lui. Forse è proprio qui che il Signore ti aspetta.



3.    Infine per ritrovare il Signore occorre sedersi a tavola: Venite a mangiare. I gesti che Gesù compie prima di quella colazione sulla spiaggia richiamano quelli dell’eucaristia. Notate che con quel gruppo di discepoli i conti sono ancora in sospeso. Tradimenti, rinnegamenti, fughe. Eppure il Signore inizia a ricostruire il rapporto. E lo fa proprio preparando un fuoco, accogliendo a tavola, spezzando il pane. Ci sarà subito dopo il tempo per le domande, ma intanto si inizia a ricostituire relazione. È lo stesso stile che sembra indicare Papa Francesco nella Amoris laetitia: Sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione (AL 296). E continua: Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia ‘immeritata, incondizionata e gratuita (AL 297). Ecco lo stile che la chiesa di questo nostro tempo sta ritrovando per riproporre l’incontro con Dio: non quello delle verità asetticamente proclamate ma quello dell’accoglienza, persuasi che in essa si nasconda la verità. Non startene lontano dalla tavola di Gesù. Accogli quel Pane che ti dona. E forse mangiando di quel cibo potrai dire anche tu, con tuo stessa meraviglia. È il Signore.




Omelia 4 aprile 2016


Seconda domenica di Pasqua



È uscito un film interessante in questi giorni. Non di quelli che appartengono alla grande distribuzione, ma di quelli che per il loro messaggio fanno interrogare la gente. Come saltano i pesci. Storie di famiglia, verità taciute, progetti pieni di speranza che vanno e vengono.  E le questioni della fede. Di fronte a un magnifico tramonto tra i colli marchigiani, il protagonista, Matteo, non ha paura di parlare con Dio e dice ad una stupita compagna di viaggio:  «O ci credi o non ci credi, chiamalo come ti pare ma quello è. Adesso invece prendiamo la fede, la tagliamo e ce la ricuciamo come ci pare a noi...». Sono parole su cui ritorna il regista del film, Alessandro Valori, aggiungendo: «La fede fa parte della vita – aggiunge il regista –, tutti noi, credenti e non ci interroghiamo sul nostro destino. C’è un mondo fatto di credenti che il cinema non racconta mai. La religiosità è un valore enorme, negarlo sarebbe miope». 

Ecco, oggi Tommaso ci invita a riprendere le questioni della fede, a rimetterle in gioco e a lasciarti interrogare. Puoi rassegnarti e nuotare oppure puoi saltare, anche se sei un pesce. Che cosa ci suggerisce questo apostolo?



1.    Anzitutto lui è Didimo, il gemello. Gemello di chi? Gemello nostro, delle nostre inquietudini, della nostra ricerca, del desiderio di capire, di fare chiarezza. Non dimenticarti mai di questo gemellaggio perché altrimenti la vita non sta in piedi. Oggi viviamo in una cornice laicista e secolarizzata che vorrebbe cancellare le questioni della fede. E sottrae ad esse il terreno del confronto, dell’ospitalità relegandole tra le realtà marginali e addirittura combattendole. Perché quando si colpisce un giornale che fa dell’anticattolicesimo la sua bandiera, tutti a modificare i propri profili sui social scrivendo Je suis Charlie. Ma indifferenti fino al paradosso quando quattro suore di Madre Teresa vengono trucidate per la loro fede. Devi leggere Avvenire per conoscere questa vicenda. Essere credenti non va più di moda. E non ci rendiamo conto che quando allontani la fede dalla vita, oltre a perdere Dio, perdi anche te stesso. Pensate alle morti di questo periodo. Perché si chiede qualcuno. Forse il perché va cercato nella possibilità che Dio ci sta dando di ritrovare la sua presenza oltre il vuoto che ci irreparabilmente in questi casi ci assale.



2.    Tommaso rivela anche una latitanza pericolosa: non era con loro quando venne Gesù. È il giorno della risurrezione e Tommaso non è con gli altri. E questa assenza lo porta a formulare le sue richieste pretenziose: Se non vedo, se non tocco, se non metto mano. Quando capirà Tommaso? Quando accetterà di essere in mezzo agli altri discepoli otto giorni dopo. Riferimenti troppo precisi per non scorgervi il contesto domenicale. Questo è il giorno in cui il Signore si manifesta. Noi a volte pretendiamo che Dio ci offra prove tangibili di esistenza, di vicinanza, di provvidenza. E che facciamo? Stiamo ben lontani da lui e da quella comunità nella quale egli custodisce la sua presenza risorta! È come se volessimo conoscere il mare standocene a riva! Ma quel che mi pare più problematico è che talvolta ci immergiamo senza volerci bagnare. Rimaniamo estranei alla bellezza della quale il Signore ci avvolge. Il problema dei ragazzi che non vengono a messa non è solo quello di un mondo che offre altre proposte, ma anche di adulti che vivono una messa stanca e che le uniche cose che raccontano non sono: “Abbiamo visto il Signore”, ma quanto lunga la tira il prete.



3.    Infine Tommaso si pone di fronte alle ferite aperte del Signore. Non sappiamo se le l’apostolo abbia messo la sua mano nel costato. Il vangelo non lo dice. Sappiamo però che ad un certo punto egli mette da parte le sue pretese ed esclama: Mio Signore e mio Dio! Parole piene di fede che nascono da segni che a quel punto dovevano essere luminosissimi. Ecco, si diventa credenti quando le ferite si aprono alla luce, quando nelle piaghe sai riconoscere il Signore che rinnova la vita. Quali ferite? L’incontro tra i discepoli e il Signore risorto parla di perdono e di pace. Forse le ferite nelle quali riconoscere il Signore sono quelle che altri ci hanno procurato e che paradossalmente esibiamo come un trofeo, legittimando le nostre chiusure, il nostro astio, la voglia di farla loro pagare. Ma qui non incontriamo il risorto. Incontriamo solo il nostro orgoglio e la nostra rivalsa. Pace a voi! Lascia che sulle ferite che gli altri ti hanno inferto agisca lo Spirito del Signore. E forse vedrai che lo vedrai un po’ più presente. Perché il nostro Dio non è un teorema da imparate ma una sorpresa da accogliere. Anche dove ti sembra impossibile.

Gesù in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Il Signore non cessa di donarci i suoi segni. Smetti di sottoporre Dio al tuo microscopio e lascia che ti sorprenda come Tommaso. Dove ti sta aspettando. E non essere più incredulo, ma credente.