lunedì 31 dicembre 2018

Omelia 30 dicembra 2018


S. FAMIGLIA 2018

I tuoi figli non sono figli tuoi.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Tu li metti al mondo ma non li crei.
Sono vicini a te, ma non sono cosa tua.

Sono i versi dedicati ai figli dell’opera Il Profeta, celebre testo del poeta libanese Kahil Gibran. Versi che si chiudono con un’immagine: Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani. Non è per niente facile questa operazione. Oggi nei confronti dei figli c’è in genere un atteggiamento di protezione che da un lato mette al riparo i ragazzi rispetto ai pericoli che possono incontrare, dall’altro li imprigiona in un rapporto simbiotico dove non è il ragazzo ad avere bisogno del genitore, quanto piuttosto il contrario. Tu sei l’arco, dice Gibran, i tuoi figli sono le frecce. Invece succede che il cordone ombelicale sembra trattenere ogni possibilità di crescita e di autonomia. Avete mai visto bambini vestiti come le loro mamme o come i loro papà? È il segnale che qualcosa non funziona. Avete visto mamme che non mollano il figlio, né a nonne né ad amiche, anche quando avrebbero bisogno di aiuto? Chi ha bisogno di chi?

L’episodio di Maria e Giuseppe che non trovano più Gesù con loro per recuperarlo dopo tre giorni di ricerca a Gerusalemme è l’occasione per riflettere sul compito dei genitori e di come essere adulti accanto a dei ragazzi che crescono.

1.    Credendo che egli fosse nella comitiva. Maria e Giuseppe pensano che il loro figlio sia nel gruppo famigliare, in una realtà conosciuta. Primo atteggiamento importante è superare la presunzione di sapere, di avere la situazione sotto controllo. A volte la presunzione è legata all’estensione del frame. Un’immagine della pellicola viene confusa con l’intero film. Tuo figlio a casa è tranquillo ed educato, di conseguenza pensi che sia sempre così. E ti sembra strano se l’insegnante ti rivela la sua aggressività o la sua chiusura. Pensate al fenomeno di bullismo capitato ad Abano Terme a fine novembre. Ragazzi di tredici anni che pestano un loro compagno di scuola. Non parla il bullizzato, non parlano i bulli finché non parlano gli ematomi. E allora gli adulti increduli, da una parte e dall’altra, iniziano a interrogarsi: a mettere insieme i pezzi che prima avevano trascurato: chiusura, isolamento, improvviso calo del rendimento scolastico. Soprattutto dichiarano la loro sorpresa: «Sì, abbiamo sentito ciò che è successo. Pensavamo che certe cose si potessero vedere solamente in televisione». Ecco la carovana: tu pensi che tuo figlio sia quello di sempre, invece sta capitando qualcosa di importante. Ci sei? Dove sei? Prova a sentire anche le impressioni degli altri: se qualcuno ti dice qualcosa su tuo figlio che non ti piace, forse non è un nemico, ma qualcuno che ti sta dando una mano.

2.    Cammina e cammina, chissà con quali sentimenti in cuore, dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri. E a quel punto la domanda: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ecco, nella relazione educativa le domande sono importanti, per trovarsi e per capirsi. Domande corrette, pertinenti, aperte a una risposta che non è quella che ho già in mente. Non è facile: a volte infatti abbiamo paura di fare domande perché le risposte ci fanno paura; altre volte facciamo domande aggressive, sarcastiche che non cercano risposte ma l’affermazione di sé e delle proprie idee. Pensate alle domande inutili: Come è andata oggi a scuola? O a quelle ironiche: Per venire a casa da scuola devi passare per Via Motte? O a quelle indagatrici: Cos’è sta puzza di fumo che ti porti addosso? Chi è quello là con cui parlavi? Guardate alla domanda di Maria. Innanzitutto alla domanda segue la comunicazione di uno stato d’animo. Angosciati, ti cercavamo. Fai capire che c’è qualcosa che ti sta a cuore, che c’è amore in quello che dici. Poi Maria coinvolge anche Giuseppe: Tuo padre e io. Mai agire per conto proprio, sempre in sintonia. Poi rimanere sul fatto, non sulle sue interpretazioni: Perché ci hai fatto questo? Non dice: perché sei fuggito, perché ci hai dimenticato, perché te ne impippi di noi… Non è detto che a quel punto avrete le risposte che state cercando, ma a quel punto voi avrete agito con rispetto e avrete dato un segnale di disponibilità.

3.    Poi c’è la risposta di Gesù. Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Alle domande di Maria e Giuseppe, Gesù risponde con altre domande. Mi pare interessante per due motivi questa risposta. Primo, perché non devi mai cessare di interrogarti su quello che Dio sta suggerendo alla tua famiglia. Perché tu ti comporti in una maniera che ti sembra buona, non è detto che vi sia il disegno di Dio. Allontano i figli dai nonni perché non si sono comportati bene. È proprio quello che ti dice il Signore o ti dice il tuo orgoglio? Secondo: anche tu puoi rispondere ai tuoi figli con le domande: Non voglio più andare a messa, i miei amici non fanno più religione. Credere è da sfigati. Sei proprio sicuro che sia la scelta migliore? Sei sicuro che in duemila anni di storia il cristianesimo abbia seminato scemenze? E continui a girare il risotto, facendo capire che forse c’è un pezzo di strada in più da fare. Proprio così: alla fine non ci sono risposte, ma la strada verso Nazaret, quella in cui Gesù, Maria e Giuseppe accolgono quella loro particolare famiglia e in essa continuano a capire e  a capirsi, a cercare e a trovare, come a casa nostra, come in ogni famiglia disposta a lasciarsi condurre da un progetto più grande del proprio.










domenica 16 dicembre 2018

Omelia 16 dicembre 2018


Terza domenica di Avvento

Due bambini immigrati, uno cinese e il compagno dello Sri Lanka, stanno andando a scuola a Milano. E inciampano in un portafoglio pieno di soldi. Con tutto quel denaro tra le mani, la situazione si fa impegnativa. E allora consultano due amiche, una italiana e una peruviana e alla fine decidono di consegnare tutto a qualcuno di cui si fidano, all’insegnate che riesce a rintracciare il proprietario, un pensionato che aveva appena ritirato la tredicesima alla posta. Una storia a lieto fine, con tanto di pizza offerta ai ragazzi. Ma la domanda che emerge in questo semplice episodio è molto intrigante: che cosa dobbiamo fare? La vita non è fatta solo di idee, di riflessioni: è fatta di scelte ed è fatta di gesti che ci raccontano, che dicono di noi. Cominciare a fare è un modo per ritrovare se stessi, per intraprendere strade differenti, per far posto al Signore. Ebbene nel vangelo di questa domenica varie categorie di persone si recano da Giovanni Battista e gli chiedono per tre volte: Che cosa dobbiamo fare? La predicazione del Battista aveva scosso le coscienze e la gente cercava strade di cambiamento e di novità. E Giovanni indica pratiche possibili, pratiche buone. Giovanni che non fa sconti su Dio e sulla sua Parola, apre dei varchi semplici e raggiungibili come se volesse dirci: non spaventarti per quello che ti è chiesto, per quelle trasformazioni che ti sembrano impossibili. Comincia da quello che puoi fare, come restituire un portafoglio al suo proprietario. Andiamo a vedere chi sono coloro che si rivolgono a Giovanni.

1.    Innanzitutto ci sono le folle. Che cosa dobbiamo fare? La risposta è nella condivisione generosa di quello che si possiede: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Provate a pensare: il termine condivisione è legato oggi quasi esclusivamente alle foto o ai post che pubblichiamo sui social. Giovanni ha in mente un’altra condivisione: il vestito e il cibo, dignità e sostentamento. Non limitarti alle immagini e alle riflessioni: apri il frigo, l’armadio, il portafoglio. Prova a dare qualcosa di tuo agli altri, ma prova a riempire di dignità il tuo gesto, di arricchirlo dell’interesse, della stima, del coraggio di guardare l’altro negli occhi, magari di creare una relazione buona. Sul Corriere di venerdì c’era un’intervista a una coppia di sposi di Mantova che dopo aver messo al mondo cinque figli e adottati altri otto, ne ha avuto in affido, in periodi più o meno lunghi, un’altra novantina. A Natale siederanno a tavola in 24. Germana Giacomelli, madre d’Italia, come la definiscono, ora ha 71 anni e ricorda come è iniziata l’avventura con suo marito Giampaolo. trentatré anni fa. «Avevo già messo al mondo quattro figli. Mio marito possedeva due panifici, io un negozio di scarpe. Mi crede se le dico che non sapevamo come spendere i soldi? Auto, abiti griffati, viaggi, ristoranti, colf. Non mi mancava nulla eppure mi sentivo priva di tutto. Stavo malissimo. Ero in perenne attesa di qualcosa che desse un senso alla vita. Ma non sapevo dove cercarlo». «Alla fine come l’ha trovato?» chiede l’intervistatore. «Mi sono messa a pensare agli altri». Ecco una bella storia di sostegno e di dignità, restituita a tanti ragazzi che hanno trovato vita, salute, lavoro, famiglia. L’affido… ci avete mai pensato?

2.    Seconda categoria è costituita dai pubblicani, gli esattori delle tasse che ogni tanto ricaricavano le imposte di un loro ulteriore guadagno. «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» Giovanni  indica la giustizia, l'onestà. Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Interessante questo passaggio, non solo per l’Agenzia delle entrate e le sue riscossioni ma anche per le imposte in più che noi facciamo pagare a qualcuno, com’è successo a quell’operaio moldavo di 28 anni trovato morto in una radura a Sagron del Mis. Inizialmente si pensava ad una sua imperizia mentre tagliava degli alberi. Dalle indagini dei carabinieri è emerso che il giovane era stato colpito da un cavo in acciaio durante l’installazione di una teleferica. Giunto sul posto, il titolare della ditta avrebbe caricato il corpo sull’auto della vittima e l’avrebbe lasciato nei pressi di un dirupo. Non si sa se il cadavere vero sia quello del morto o di chi elude le proprie responsabilità. Noi forse non ci comportiamo così ma all’altro a volte estorciamo più di quello che può dare: pensiamo a certe vicende di separazione e al gioco delle convenienze economiche. Perché andarsene di casa per qualcuno vuol dire rivendicare mantenimento crescente, per altri vuol dire povertà. Non esigete di più di quello che vi è stato fissato. A dire il vero quello che era stato fissato era l’amore, ma se questo non c’è più, forse non bisogna smarrire l’onestà, la misura, la possibilità di andare avanti con dignità, figli in primo luogo.

3.    Infine i soldati, gente che a volte agiva brutalmente, senza troppi scrupoli. «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». È la vita che rinuncia alla violenza, al sopruso, alla giustizia sommaria. Pensate a questi due giovani che popolano in questi giorni la cronaca di Strasburgo in maniera così diversa, il criminale e la vittima italiana, Antonio Megalizzi: uno che ha ceduto a logiche di terrore di fanatismo, l’altro appassionato per la pace e la fraternità tra i popoli. Ecco la scelta: ci sono due lupi che combattono dentro di noi, uno cattivo che vive di odio, rabbia e risentimento; l’altro buono che vive di speranza e generosità. Quale vince? Quello cui dai da mangiare. Ma attento che alla fine il lupo non mangi anche te.

Che cosa dobbiamo fare? Una domanda importante. Non rimanerci troppo sopra. Inizia a cambiare qualcosa. Inizia a cambiare aprendo un po' di vangelo. 






venerdì 14 dicembre 2018

Omelia esequie Valnea Curatolo Federighi


Funerale Valnea Curatolo Federighi (14 dic. 2018)

(Dt 8,2-9/ Gv 14,1-6)

Finestre della memoria. Questo il significativo titolo della pubblicazione che qualche anno fa ha raccolto i pensieri di Valnea, protagonista di vicende che hanno contrassegnato la storia del secolo scorso a livello internazionale e a livello locale, nel dramma dei profughi istriani e nei cambiamenti di questo nostro paese. E anche noi oggi ci affacciamo a questa finestra, perché i panorami che in essa si delineano non vadano perduti e possiamo custodire un po’ di sapienza in più riguardo al tempo: al passato di cui siamo eredi, al presente che abitiamo, al futuro che stiamo costruendo. Ce lo rammentava il libro del Deuteronomio: Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere. Ricordati: la fede ebraico cristiana è un esercizio di memoria nel quale scopriamo che non siamo da soli e che una mano invisibile ci accompagna: quella di Dio. Valnea era una donna credente, di una fede radicata e libera, fortemente incarnata nelle vicende umane e protesa a interrogare la vita. Significativamente la copertina del libro riporta un dipinto di Jessie Boswell con tre finestre aperte. Proviamo ad affacciarci anche noi per osservare qualche frammento di storia, di vita e di fede che la vicenda di Valnea ci consegna.

1.    Valnea, nata a Fiume nel 1923 in territorio allora italiano, ci apre anzitutto la finestra del dramma dei profughi istriani, fiumani e dalmati costretti a lasciare le loro terre nel secondo dopoguerra, a motivo dei nuovi assetti internazionali e delle violente pressioni del governo di Tito. La famiglia aveva un grosso panificio, ma ad un certo punto il quadro socio-politico si fa incandescente. Valnea, approfittando del permesso temporaneo di studio, l’8 settembre 1945 si trasferisce a Padova dove è iscritta a farmacia. La mamma poco dopo le invierà una lettera: Non tornare più a casa. Anche la famiglia, insieme ad altri 350 mila profughi, di lì a poco abbandonerà Fiume e si trasferirà a Sanremo. Diceva Valnea: Abbiamo perso tutto, abbiamo salvato la pelle. Non così sarebbe capitato ai circa 13 mila gettati nelle foibe. Valnea ci restituisce una pagina importante di storia ricca delle sue riflessioni, in particolare quelle che riguardano i confini, la convivenza umana, l’incontro di popoli e di culture diverse: Io, affermava nell’intervista – amo definirmi di pura razza bastarda. La mia bisnonna era irlandese e ha sposato mio bisnonno che era di Cherso. Il mio nonno materno era Dalmata. Da parte di padre la nonna era genovese, il nonno era di Trapani. Ho parlato di sangue misto, ma devo aggiungere di cuore italianissimo. Si può essere italiani, sostiene Valnea, anche con sangue di varia provenienza. La parola democrazia ha senso se vissuta fino in fondo, senza prevaricazioni, nel rispetto assoluto e reciproco delle diversità di opinioni, di religione, di lingua. Parole importanti, non prive di attualità, che è bene udire dalla cattedra di chi ha patito esclusione, persecuzione, lontananza e povertà e ci insegna a cercare quello che a volte facciamo fatica a vedere. Osserva i comandi del Signore, tuo Dio, camminando nelle sue vie e temendolo, perché il Signore, tuo Dio, sta per farti entrare in una buona terra. È la terra della fraternità e della concordia quella che il Signore ci indica e che Valnea non ha cessato di farci osservare, a volte anche con un certo rigore.

2.    Una seconda finestra è quella famigliare e professionale. Valnea ha studiato farmacia e tra i banchi dell’università incontra Guido Federighi. All’inizio è solo un’amicizia, poi i sentimenti si intensificano e inizia la relazione. Il papà di Guido, farmacista a Godego, ad un certo punto si ammala e viene a mancare; guido quindi chiede a Valnea di raggiungerlo in paese per assumere la direzione della farmacia. Guido non era ancora laureato perché si era dapprima iscritto a ingegneria; ma quando si ammala suo padre cambia facoltà e si prepara a gestire la farmacia. Intanto nel settembre del 1949 Valnea viene a Castello di Godego, va abitare dai Moresco, inizia a lavorare in farmacia finché Guido non si laurea e sposandola nel 1959, dà forma alla sua famiglia. Con Guido c’è sempre stata una grande intesa: mai visti litigare, diceva M. Giovanna. E non serviva neanche che si parlassero, tanto erano normali la disponibilità senza orologio, i consigli a gente che non aveva bisogno solo di farmaci ma anche di indirizzo e di sostegno, la solidarietà che sapeva cancellare i debiti a chi non poteva permettersi i medicinali. La storia di questo nostro paese è la storia della sua povertà, ma anche di uomini e donne che hanno fatto della loro professione una missione e che hanno tracciato sentieri di riscatto, risurrezione e di vita pagando di tasca loro. Io sono la via, la verità e la vita. Parole di vangelo ben presenti nei giorni di Valnea che ha camminato, senza mai pentirsene e senza vantarsene su strade di accoglienza e carità.

3.    La terza finestra è quella culturale. Quando Guido ha iniziato a fare il farmacista, Valnea è ritornata al mestiere che più le piaceva: insegnare. Matematica e scienze alle medie di Castelfranco e in qualche altro istituto. Non ha mai mancato però di promuovere anche a Godego formazione e informazione. Non faceva mistero Valnea della distanza che aveva sperimentato nel cambio di residenza da una città mitteleuropea com’era Fiume, dove in casa c’era il telefono e si andava a teatro a un paese rurale come Godego di fine anni ’40 dove gli unici laureati erano lei, il dott. Serafini e il prof. Ripoli e si reagiva alla povertà con la ricerca di un qualsiasi lavoro, smettendo presto di andare a scuola e partendo spesso per terre lontane. Valnea non faceva sfoggio della sua cultura. Con umiltà si è messa a disposizione del paese promuovendo conoscenza e l’istruzione, fondando il Centro Culturale Villa Priuli, l’Associazione genitori e recando nuovi stimoli culturali, pedagogici e anche religiosi, scontrandosi talora con le idee poco lungimiranti di qualche cappellano. Valnea era una donna di fede, ma aveva capito che la verità di Gesù Cristo era sempre legata ad una apertura del cuore e della mente e che certe impostazioni, spacciate per obbedienza, erano di fatto ristrettezze mentali. Vivi una fede libera, sembra dirci Valnea, attenta a quel che capita, pronta ad interrogarsi, lieta di trovare spazi di partecipazione dove capire e aiutare a capire. Perché è così che il Signore ci fa crescere e ci rende dei credenti adulti. Ogni tanto Valnea interrogava anche il suo futuro. Ma non si faceva molte domande; diceva semplicemente: Chissà che il Signore mi venga a prendere. Sapeva che nella casa del Padre, come ha assicurato Gesù, c’erano tanti posti. E crediamo che il suo posto ora lo abbia trovato, accanto al Risorto, alla Vergine Maria che sempre pregava, a P. Pio da cui era affascinata, a suo marito Guido e a quel popolo numeroso di cui è stata amica, maestra e compagna di viaggio.

domenica 9 dicembre 2018

Omelia 9 dicembre 2018


Seconda domenica di Avvento


Bisogna fare bene l'analisi logica. L'affollamento di uomini potenti che introduce il vangelo di oggi può trarci in inganno. L'imperatore, il governatore, i tetrarchi, i sommi sacerdoti… Ma non sono loro il soggetto da riconoscere, bensì la parola di Dio, quella che venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.
Mentre la storia dei giornali e dei libri si gioca nei palazzi del potere, la storia di Dio è tessuta nella voce e nei gesti di un giovane profeta attento ai segni di Dio. E Dio funziona proprio così: fugge la ripetitività scontata, la retorica del si è sempre fatto e ricomincia in maniera nuova, dove ci sia qualcuno disposto ad ascoltarlo. 
L'avvento è tempo di novità, di ripartenze e di sorpresa. E tu, sei uomo dell'apparato o dell'inedito? Abiti la consuetudine o la meraviglia? Giovanni ci invita ad aprire porte di novità. 

1.    Gli uomini della novità divina non hanno paura del deserto, delle situazioni apparentemente inospitali che mettono alla prova la vita e la fede. A volte è proprio qui che il Signore ci dà appuntamento, quando la fede trascina la ciabatta o quando ha in mente di regalare alla tua fede qualcosa in più.  È la vicenda dei monaci di Tibhirine che ieri sono stati proclamati beati in Algeria. Religiosi che ben percepivano il clima di ostilità che cresceva intorno a loro, in un Paese contrassegnato da una guerra fratricida. Hanno scelto di non andarsene, di rimanere come segno di dialogo, di fiducia, di accoglienza fraterna. Tantissimi erano i musulmani visitati da fr. Luc, il monaco dottore che alternava la preghiera all’ambulatorio. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero trappista in cui dimoravano, dapprima furono sequestrati e poi decapitati. La loro beatificazione in Algeria, la prima in un paese quasi esclusivamente musulmano, è un segno che se ti fidi di Dio, anche il deserto può fiorire: Deponi, Gerusalemme, le vesti del lutto… Quando Dio ha in mente qualcosa di importante ti regala un po’ di deserto.

2.    Gli uomini della sorpresa è gente che grida, che non ha paura di dire ragioni credenti. Voce di uno che grida nel deserto. Anche se non ti ascoltano, anche se altre voci ti vogliono coprire. Avete sentito la voce della sorella di Ronaldo? In questi giorni si è fatta sentire perché il fratello non ha vinto un altro pallone d’oro, come avrebbe meritato. Può essere che un tuo famigliare sia dispiaciuto. Ma quando la donna scrive che in questo mondo comandano i soldi e i mafiosi e che Dio farà giustizia, beh, forse mancano le misure. Anche perché mi pare che il fratello non sia proprio senza soldi e che i problemi della giustizia divina siano ben altri in questo mondo. La voce da alzare non è questa, ma la voce che implora giustizia per i poveri, per chi cerca accoglienza. Come hanno fatto i bambini di una scuola di Castello Belvedere che scrivono al ministro perché il decreto sicurezza mette a rischio l’ospitalità di alcuni ragazzi stranieri, loro amici. Vi chiediamo, per favore, di farli restare qui insieme a noi, perché gli vogliamo moltissimo bene. Loro sono stati un regalo per noi. Ma la voce oggi mi verrebbe da alzarla per quei ragazzi morti in discoteca, perché in questo momento sembra che il problema sia quello di trovare chi ha spruzzato lo spray urticante. Certo, gesto sconsiderato. Ma sconsiderata è anche la logica del profitto che regola il mondo del divertimento, dove in nome del dio denaro saltano i parametri non solo della sicurezza numerica, ma anche quelli del giorno e della notte dato che ingressi e spettacoli sono continuamente ritardati. Se l'inizio è per le 22, perché all'una il cantante deve ancora arrivare? E posta pure il suo dispiacere per l'accaduto! Dobbiamo tornare a mettere confini, specie se di minori, come in questo caso si tratta. E i confini riguardano la gestione dei locali e l'educazione. Altrimenti la solidarietà di questi istanti è solo ipocrisia.
3.    Infine gli uomini delle sorprese hanno un bel da fare a raddrizzare strade, riempire burroni e abbassare colline. Leggetevi il discorso dell’arcivescovo di Milano per S. Ambrogio. Mi piace quando dice di snellire le «procedure esasperanti» che hanno reso l’Italia «da “patria del diritto”» a «condominio di azzeccagarbugli litigiosi». Chiede di insistere «in quei percorsi di semplificazione che sono spesso enunciati e promessi per rendere più facile essere buoni cittadini, onesti e in regola con la pubblica amministrazione, per favorire l’intraprendenza di imprenditori e di operatori negli ambiti del servizio ai cittadini e della solidarietà». Pensate a chi ha in casa un malato di Alzheimer. Per fortuna ci sono centri di volontariato che vengono in aiuto alla famiglia. Ma se uno cerca un supporto più regolare incontra una macchina organizzativa che impone regole difficili da capire. Come quella che i malati meno gravi vengono accolti, mentre quelli più impegnativi te li tieni a casa. Certo, perché domandano più risorse. Oppure, proprio perché rompi le scatole, ti concedo una struttura a 40 km. da casa che uno accetta con la speranza di ottenere poi un avvicinamento. E ogni giorno intanto si va su e giù. Anche qui c’è qualcosa da raddrizzare… 

La Parola di Dio venne su Giovanni Battista, nel deserto.Giovanni Battista oggi è dentro di te. Libera la sua voce, prepara con lui la strada al Signore che viene.

venerdì 7 dicembre 2018

Omelia 2 dicembre 2018


Prima domenica di Avvento 2018

Ricordate la vicenda di quei ragazzini rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia e miracolosamente salvati grazie all’intervento straordinario di una squadra di soccorritori? È finita bene, ma non sempre va così, com’è successo qualche tempo fa in Calabria agli escursionisti travolti dalla piena del torrente Raganello. Perché succede? Perché non ci pensi, trascuri alcune circostanze, perché la curiosità o il divertimento alterano la percezione del pericolo. Ebbene, questa eventualità non riguarda solo alcune circostanze fortuite: riguarda la vita, il modo con cui ti collochi di fronte ad essa, di fronte al futuro. C’è il rischio di abitare un presente che impedisce di guardare avanti, di agire con responsabilità e di fare scelte adeguate. C’è il rischio di finire in trappola, prigionieri di un laccio che si abbatte improvviso, senza lasciar scampo. Quando un ragazzino piange di fronte al cancello di scuola perché i suoi genitori si scaricano le responsabilità per andarlo a prendere e all’insegnante che interviene, l’uno e l’altra rispondono: lo dica a suo padre, lo dica a sua madre… non vi pare che il laccio sia già scattato?

Questo tempo di avvento ci rende un po’ più attenti. Gesù usa tre imperativi che costituiscono una buona carta di navigazione non solo per questi giorni che ci separano dal Natale, ma per l’intera nostra vita.

1.    Risollevatevi e alzate il capo. È un verbo che sa di grandezza, di risurrezione, di prospettiva. Smettila di vivere piegato, guarda avanti. Quando viviamo piegati? Quando siamo prigionieri di noi stessi, dei nostri ricordi che si trasformano in rammarichi o in rimorsi e ti tolgono la serenità, quando un contrasto con qualcuno ci fossilizza nei confini di quella stessa incomprensione e ci impedisce di uscire. Vuol dire che il laccio è scattato e oltre a imprigionarci ci ha convinto che da quella realtà non possiamo uscirne. Attenzione però che il laccio è insidioso e non sempre è dove pensi. Infedeltà di coppia: pensi che il laccio si il partner che ti ha tradito e dal quale senza troppi scrupoli vorresti liberarti. Ma il laccio può essere anche il tuo tentativo di sbarazzarti dell’altro senza accogliere la sua richiesta di perdono, il suo desiderio di ricominciare. Il laccio non è solo il tradimento, può essere anche l’orgoglio, l’esasperazione della colpa che ti porta a recriminare, a scavarti una fossa di risentimento, a scaricare sull’altro tutta la rabbia senza credere nelle possibilità di ricominciare. Risollevatevi, alzate il capo.

2.    State attenti a voi stessi… che i vostri cuori non si appesantiscano. E qui Gesù indica tre appesantimenti: dissipazioni, ubriachezze, affanni della vita. È la vita trascinata dalla superficialità, dallo sballo, ma anche da una corsa affannosa che non ci sottrae a noi stessi. In questa settimana la polizia ha sequestrato un discreto quantitativo di droga destinato a festini trevigiani. Con l’idea che se anche ti fai una canna non succede niente. Tutti italiani coinvolti. Ma ci sono altre droghe in circolazione. La droga del lavoro per cui non ti puoi mai fermare. La droga della sicurezza che ti fa vedere minacce da tutte le parti, specialmente dagli immigrati, con la necessità di inasprire sempre di più la legislazione in una rincorsa che non ci vede mai soddisfatti. State attenti a voi stessi.

3.    Vegliate in ogni momento, pregando. Se vuoi che il laccio non ti prenda devi rimanere sveglio. Ed essere sveglio vuol dire intercettare un mondo più grande di quello che vedi, il mondo di Dio. Pregare vuol dire riconoscerlo, frequentarlo, accoglierlo nella vita. Ce l’ha fatto capire quella bambina che ha iniziato una raccolta di firme contro le sue maestre che avevano bonificato la canzoncina di Natale dal nome di Gesù. Bisogna essere rispettosi degli scolari non cattolici, hanno detto le insegnanti. Il problema è che non sono certo i ragazzi di altre religioni a fare problemi. Il problema è quello di un’ideologia che costantemente ritorna e ti addormenta. Perché essere cristiani non è di moda, non fa tendenza. Ma non è questione di mode. È questione di verità, di quello che sei. Per non trovarsi a difendere la fede calcistica più di quanto non difendiamo quella cristiana. Vegliate, pregate. E questo tempo d’avvento ne è forze ancora una volta l’occasione.