lunedì 29 giugno 2015

Omelia 28 giugno 2015


Tredicesima domenica del T.O.

Ci siamo confrontati anche questa settimana con la vicenda di un noto imprenditore che si è tolto la vita. Un impero economico che sembra non rispondere alle problematiche umane, all’esigenza di fare i conti con situazioni, sentimenti, drammi per i quali i soldi non sono la soluzione a quello che si sta cercando. Dove sta la vita autentica? Il vangelo di oggi ci presenta due episodi dove la vita è minacciata dalla malattia e dalla morte. E Gesù interviene in entrambi i casi facendoci capire che chi custodisce la vita è lui e lontano da lui c’è spazio solo per l’inquietudine e il l’oscurità. Dove sta la vita che ci promette Gesù? La donna malata, Giairo, la bambina.

1.    La donna. L’evangelista descrive attentamente le sue sofferenze. Malata da dodici anni, sottoposta a terapia di molti medici senza risultati, anzi peggiorando. Un’emor-ragia che esponeva la donna al male fisico e all’esclusione sociale. Eppure questa donna vince il controllo della gente e della religione e si avvicina a Gesù. Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti sarò salvata. Ecco dove sta la vita: quando tocchi Gesù. Notate: Gesù si rende subito conto di quello che è avvenuto e cerca l’autore del gesto: «Chi ha toccato le mie vesti?». Ai discepoli quella domanda sembra assurda, ma assurdo risulta invece l’atteggiamento di gente che preme Gesù da tutte le parti ma non lo tocca. È un rischio che corriamo sempre: tanta confusione ma non tocchiamo il Signore. Il verbo apto indica un toccare deciso, un afferrare. Pensate a come è stata accolta l’enciclica di Papa Francesco sull’ambiente. Fin che c’è da difendere qualche foca in giro per il mondo grande attenzione degli animalisti, quando c’è di mezzo l’ecologia della solidarietà allora ci si limita a qualche titolo di spalla. Scomode certe parole… C’è vita quando tieni ben saldo il Signore e non ti limiti a educati convenevoli spirituali.

2.    Giairo. È un papà angosciato per la sorte della propria bambina: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporgli le mani». Un crescendo di disperazione che trova il suo culmine quando vengono a dirgli: «Tua figlia è morta, perché disturbi ancora il maestro?». E Gesù che raccomanda: «Non temere, continua solo ad aver fede!». Ecco, è la fede in Gesù la condizione per la vita. Ma essa si può confrontare talvolta con le voci del disincanto o con quelle della derisione, proprio come nel caso di Giairo. Pensate ai matrimoni: credo che buona parte della fatica che fanno due ragazzi per giungere a questo momento sia dovuta proprio alle voci che mettono in discussione la fede nel sacramento. E due sposi devono lottare contro genitori che dettano leggi sulle bomboniere, amici che talvolta non sanno far altro che bere, ritualità volgari che alterano i contorni della festa. Ma poi la sensazione che in fondo quello che si sta facendo non serva a granché visto che si può stare insieme ugualmente e che anche chi si sposa in chiesa poi si molla. «Non temere, continua solo ad aver fede!». Mi sembrano parole rivolte oggi anche agli sposi. Continua a pensare che il Signore può rinnovare la tua vita, la tua relazione, la tua famiglia, anche quando tutto sembra smentirne l’efficacia.

3.    La bambina. Gesù le si avvicina e la prende per mano. «Talita kum». A questo gesto però corrisponde un’azione della bambina che si alza e si mette a camminare. Come se qualcosa potesse fare il Signore e qualcosa gli uomini. Lui ti rialza (anéste), ma tu cammina (peripatéo)! Ecco, a volte la vita di Dio non scorre perché rimaniamo un po’ stesi, assopiti nelle nostre incertezze e oscurità. Siamo un po’ impigriti. La guarigione funziona se ti metti in moto: certo che la morte è un brutto momento ma perché lasci che il pensiero dei morti ti faccia morire? Non vedi che questo stato d’animo sta intristendo la vita tua e quella degli altri? Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare. Qual è il subito che il Signore ci sta indicando? Lascia che la vita di Dio possa scorrere e lascia che possa farlo anche con te.

domenica 21 giugno 2015

Omelia 21 giugno 2015


Dodicesima domenica del T. O.

Tra i mosaici di San Marco c’è anche la raffigurazione del vangelo che abbiamo appena ascoltato. Mare agitato, barca e discepoli e Gesù che però viene rappresentato due volte: a prua della barca, mentre dorme e a poppa, accanto al timone, solennemente in piedi e vigile.
Ma i discepoli vengono rappresentati tutti con lo sguardo in avanti, preoccupati e infastiditi dal Gesù che dorme, incapaci di osservare quello che in piedi, dietro di loro, li accompagna nel momento drammatico del viaggio.
Ecco, le tempeste sono una pagina della nostra vita e, quando si avvicinano, anche noi siamo come i discepoli che riprendono un Dio addormentato: «Maestro, non ti importa niente che siamo perduti?».
Dove sei Dio quando scoppia la tempesta della malattia? Quando un’attività non funziona e mette a repentaglio il futuro di una famiglia o di un’azienda? Dove sei Dio quando la barca travolta non è quella metaforica ma è il battello che porta dei disperati da un continente all’altro? Cosa ci dice il Signore?

1.    Innanzitutto c’è un invito cui prestare attenzione: Passiamo all’altra riva. Non si tratta solo di una dislocazione geografica: è un passaggio esistenziale. Gesù si sta muovendo dalla riva palestinese del lago a quella straniera, da una terra conosciuta a una nuova realtà. I discepoli di Gesù non vivono in una baia tranquilla, ma cercano le grandi percorrenze, l’uscita. Perché? Perché le terre di sempre possono essere un rifugio ma anche una prigione: ti rassicurano e ti possono incatenare. Gesù ha in mente qualcosa di nuovo, qualcosa che ti fa diventare più uomo. Il dramma dell’immigrazione costituisce la nuova riva che Gesù sta indicando. Ma non solo ai disperati che cercano un approdo nelle nostre coste, anche a noi che rischiamo di costruire muri anziché ponti, come se il nostro continente non ne avesse già conosciuto il dramma. Passiamo all’altra riva: della solidarietà, della fraternità. Come sono lontane certe considerazioni sull’imbastar-dimento della razza che abbiamo sentito in questi giorni da quella visione che ci suggerisce Papa Francesco nella sua nuova enciclica: ecologia integrale, non solo dell’ambiente, ma anche dell’uomo e della società.

2.    Un altro aspetto interessante è il gesto che i discepoli fanno senza rendersene conto. Lo presero con sé, così com’era, nella barca. Dalla tempesta esci solo se prendi Gesù così com’è. S. Paolo dice ai Corinti: Se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Che Gesù ospiti nella tua vita? A volte lo inscatoliamo nelle nostre categorie umane, vorremmo che facesse quello che desideriamo noi, che corrispondesse ai nostri schemi. Ma bisogna vedere se questo Gesù che hai in mente ti salva. Nel mosaico di S. Marco, Gesù che dorme è raffigurato con la mano sull’acqua. Il mare per Israele è il luogo delle potenze oscure, della morte. Ma Gesù ti fa capire con quel gesto che lui quell’acqua la conosce bene perché egli è disceso nell’abisso e dall’abisso ti libera. È quello che è successo nel battesimo: siamo stati liberati dall’onda della morte. Se Gesù ti ha preso in quel momento, ti abbandonerà? Nella malattia, nella fragilità, nei rapporti che sembrano perduti… «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

3.    E infine quelle parole di Gesù: «Taci, calmati». Gesù con la sua Parola zittisce la boria impertinente dei flutti. Ma quelle parole Gesù non le riserva solo alla tempesta: in un’altra circostanze vengono rivolte all’indemoniato. Per dirci che il mare della vita qualche volta è anche nei flutti umani: voci da zittire per ascoltare una Parola differente. Una persona in questi giorni mi raccontava tutto lo sconcerto per una malattia dolorosa da sopportare. Ma ciò che la inquietava maggiormente non era il male bensì la poca sensibilità della gente, la curiosità camuffata da interesse, le chiacchiere scambiate come diagnosi. Ecco, a volte dalle tempeste si esce anche con questa forza di dire “Taci, calmati” alle chiacchiere che risuonano dentro e fuori di noi e che ci fanno perdere di vista Dio, cercando altre parole, di vicinanza, di fede, di speranza. Parole che ci aiutino a sentire che il Signore è vicino, anche nel fratello che ci aiuta a ritrovare un po’ di orizzonte e un po’ di condivisione. E allora non rimarremo più rivolti solamente al Gesù che dorme, ma avremo la possibilità di voltarci e di accorgerci che lui tiene saldamente il timone mentre con forza comanda ai venti e al mare.

Omelia 14 giugno 2015


UNDICESIMA DOMENICA DEL T.O.

Un antico apologo rabbinico ricorda che quando Dio creava il mondo aveva quattro secchi di sassi: tre li ha versati sulla terra di Israele. Il racconto ci aiuta a comprendere il miracolo di una pianta che spunta nella pietrosa realtà palestinese e ci fa capire perché Gesù ricorra a tale immaginario per dire le meraviglie di Dio. C’è una novità in azione ed essa è più forte di qualunque resistenza, più sorprendente di ogni misura ipotizzata. Due parabole e due semi. Che cosa ci suggeriscono?

1.    Anzitutto il dinamismo di una crescita. Gesù sta parlando del Regno di Dio, del suo modo di rendersi presente nella vita degli uomini. Ebbene tale azione non si manifesta suonando le trombe, ma producendo vita. Così vuol essere il Dio cristiano, così la sua azione nel mondo. Semplice, discreta e vitale. Partecipa a questa crescita. Due anziani: lei improvvisamente è colpita da un’ischemia, lui indebolito dall’età. Lei parte per l’ospedale in ambulanza e lui che la osserva trepidante. Le manda una serie di baci stando seduto mentre lei procede in barella. E commenta: Se tornassi indietro farei tutto da capo. Un matrimonio che è cresciuto, che ha costruito Regno di Dio.

2.    Un altro suggerimento viene dalla prima parabola: il seme che cresce da solo. C’è l’iniziale opera di quell’uomo che getta il seme nel terreno, ma poi, dorma o vegli il seme germoglia e cresce Come, egli stesso non lo sa. Gesù ci sta facendo capire che, nella logica del Regno, c’è un’azione eccedente rispetto a quello che appartiene alla responsabilità dell’uomo: è quello che può fare Dio. Sorprendentemente il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Seminare è necessario. Ma nella semina c’è un evento più grande della semina stessa: c’è il mistero della crescita che appartiene a Dio e ai suoi disegni. Questa logica io la osservo quando giovani genitori vengono per il battesimo, magari dopo anni di latitanza cristiana, magari dopo disperazione di genitori che non vedevano prospettive rispetto a quello che avevano insegnato. Ecco il seme che cresce da solo. E questo ci fa comprendere la forza del vangelo. I suoi semi, posti nell’educazione, nei momenti cruciali dell’esistenza, nelle conversazioni più semplici sono sempre promessa di uno sviluppo che procede talvolta anche quando ci pare di aver parlato o agito per niente. Dio ti può sorprendere, proprio dove non l’avresti creduto.

3.    La seconda parabola ci consegna un altro aspetto, la sorpresa che si allarga. Qualche settimana fa sono stato all’Expo. Una grande manifestazione non priva di ambiguità. Tanti discorsi altisonanti che proclamano ecosostenibilità, biodiversità, rispetto dell’ambiente. E poi ti rendi conto che, per molti aspetti, la cultura consumistica che l’Expo vorrebbe combattere è quella che regge la manifestazione stessa, dato che c’è uno stand che ti fa capire il problema dei rifiuti ma tu non trovi neanche una fontanella d’acqua e sei costretto a comprare mezza minerale a 2 euro. E in questo contrasto il padiglione della Caritas e della S. Sede che ostinatamente cercano di far capire che l’ecosostenibilità è anche una questione di fraternità, di apertura del cuore per far crescere un’umanità nuova e non solo carote prive di schifezze. E pazientemente la mentalità si diffonde, nell’ospitalità, anche se qualcuno ha detto che era meglio starsene a casa.

Il regno di Dio non cresce in soffitta ma con la decisione di esserci nelle questioni che riguardano gli uomini.

 

 

Omelia 7 giugno 2015


Corpus Domini 2015

Una grande scuola del pensiero filosofico antico è stata quella platonica. Platone chiedeva: «E allora quand’è […] che l’anima tocca la verità?». «L’anima ragiona con la sua migliore purezza quando non la conturba né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo» (Fedone X). Secondo Platone il corpo è la prigione dell’anima e bisogna liberarsene. Su questo sfondo, il cristianesimo dovette faticare non poco per affermare la novità che portava con sé. I discepoli di Gesù infatti non solo non consideravano il corpo come una sorta di carcere, ma avevano ricevuto dal Signore il comando di custodire il suo corpo e di riconoscere in tale appuntamento la centralità della loro esperienza di fede. Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Quale corpo ci consegna il Signore?

1.    Ci consegna il suo corpo eucaristico. Gesù ha pensato di anticipare il dono che avrebbe fatto sulla croce con i gesti dell’Ultima Cena. E in un pezzo di Pane ha custodito la sua vita, il senso di quello che aveva in mente perché i suoi discepoli si convincessero che la vita donata è la vita riuscita e avessero la forza di fare altrettanto. Quando noi ci nutriamo del Corpo di Gesù ci nutriamo di un corpo spezzato, di un invito a non trattenerci, a lasciarci mangiare perché qualcuno riceva vita. Abbiamo visto nei giorni scorsi un’ondata di arresti eccellenti: consiglieri eletti dal popolo, funzionari pubblici, manager della cooperazione sociale che hanno cercato di arricchirsi non con i partiti, come ai tempi di Tangentopoli, ma con l’emergenza abitativa e la gestione dell’accoglienza dei migranti. Gli artigli sulla solidarietà e sulla ricerca del bene comune, per ingrassare se stessi. Il mio corpo sano e pasciuto approfittando del corpo ferito dell’altro! Com’è diversa la logica di Gesù! Tra pochi giorni entrerà in vigore la legge n. 69 sull’anticorruzione, una nuova stretta sul malaffare. Ma le leggi non servono se non cambia la mentalità e non ci convinciamo che solo il dono ci rende uomini e ci fa vivere.

2.    Ma il Corpo che Gesù ci consegna è anche quello ecclesiale. Mentre mangi di quel Corpo diventi un solo Corpo. Gesù ci dà appuntamento nella comunione che egli stabilisce tra noi. È lui che la genera, ma sta a noi custodirla. Impressiona infatti nel vangelo ascoltato la cura che Gesù affida ai sui discepoli nel preparare la cena. «Andate in città… vi verrà incontro un tale… Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». La cena apre una relazione al piano superiore, quello dell’intimità famigliare e meno esposto alla razzia. L’eucaristia non è una sorta di fast-food occasionale: è passione per l’altro, accoglienza, voglia di stare insieme. È pane frantumato sulla mensa per essere ricomposto nella fraternità. Domenica scorsa in una famiglia i ragazzi mi hanno fatto giocare con dei dadi che, messi insieme, componevano dei disegni sui vari lati. Ad un certo punto mancava un pezzo: dov’è finito? «Vado a cercarlo in cantina!», ha detto un bambino. Ecco, quando il sacerdote ti dà un pezzetto di pane spezzato, prova a chiederti: dov’è finito quello che gli stava accanto? Non è che lo devi cercare in cantina?

3.    E infine il Corpo che Gesù ti invita a custodire è il tuo corpo. Sul Fatto quotidiano di questi giorni c’era un’inchiesta su sessualità e mondo dei ragazzi ed emergeva la superficialità con cui questo capitolo è trattato. Tra un cambio e l’altro dell’ora ci si ritrova in bagno e si fa sesso, senza troppe presentazioni, senza troppe domande. Si fa perché mi va bene così. Ragazze-doccia, si chiamano, appunto perché è come quando ci si lava velocemente. Vedi che Platone ritorna? Ti convince che il corpo sia separabile dai tuoi sentimenti, dalla tua intelligenza, dal tuo impegno nei confronti dell’altro. È il grande inganno che ti impoverisce, ti anestetizza e ti appiattisce. Impara a dire con Gesù: Questo è il mio corpo. Custodisce un dono, non meraviglia che non può corrispondere a cinque minuti all’ormone nei bagni di scuola. Che ne fai del tuo corpo? Hai mai provato ad abbracciare qualcuno che sta male? Hai mai provato a far fatica? A prendere in braccio un bambino? Forse potrai capire che c’è qualcosa di prezioso, da non svendere, da seguire, da far crescere.

Prendete e mangiate, questo è il mio corpo! Non è solo un gesto di convivialità: è una logica nuova quella che Gesù ci suggerisce. Aperta alla vita, aperta alla verità.