lunedì 30 dicembre 2019

Omelia Marica Pegoraro


Funerale Marica Pegoraro (30 dic. 2019)

(Rom 8,31-35.37-39 / Lc 2,15-20)


Ormai lo sapete. L’autore di quel bigliettino era lei. Natale alternativo. Due parole che facciamo fatica a tenere insieme, perché tutto vorremmo a Natale, fuorché le alternative. A Natale amiamo tradizioni che si ripetono, luci che brillano, profumo di casa, la cena, il panettone e gli auguri. Marica invece, con il suo stile a volte provocante, ironico e auto ironico, ci conduceva in una sfida: quella di chi cerca di uscire dall’ipocrisia delle apparenze, dalle atmosfere ovattate di buoni sentimenti e prive di verità, da un mondo di regali che paradossalmente ti impedisce di cogliere il dono. Natale alternativo. Come in quella notte da cui tutto prende avvio, con la stessa sorpresa di quei pastori capaci di riconoscere nell’oscurità delle transumanze terrene una luce più grande dei loro bivacchi. «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Betlemme ha la forma di un ospedale, di una camera che ha ospitato il dies natalis di Marica, il giorno del suo grande incontro con il Signore. E come i pastori anche noi ci mettiamo in cammino per riconoscere, pur nella fatica e nel dolore, qualcosa che ci fa bene, qualcosa che ci restituisce a noi stessi, alle cose che contano, alla verità della vita e alla verità di Dio. Su queste direttrici raggiungiamo Marica nella Betlemme che ha pensato di abitare e nella quale ci aspetta.

1.    La verità della vita. La Betlemme di Marica corrisponde anzitutto alla malattia che ha cambiato la sua esistenza. La scoperta risale al 2003. Immaginate che cosa può voler dire questa esperienza per una diciassettenne e per la sua famiglia. Le cure ad Aviano protratte per mesi, diagnostiche e degenza in vari ospedali, terapie farmacologiche durissime, recuperi lunghi e faticosi. I momenti di scoraggiamento non mancano, ma Marica rimane padrona di sé, della sua inquietudine, delle sue domande e di una verifica seria da imprimere alla vita. Una pubblicazione curata dal Centro Ricerche Oncologiche di Aviano, raccoglie la sua testimonianza: «Quando si ha tutto – osserva -  si pensa di avere di più, anche se sono cose inutili... Quando le basi della propria vita cominciano a traballare, si sente che i piedi non poggiano più sulla stabilità, allora si capisce quali sono i valori veri della vita». Inizialmente Marica ridimensiona le sue aspettative: una pizza presa da papà, un pomeriggio con qualche amica che venga a trovarla. «Vivevo alla giornata, quello che mi capitava di fare». Poi una domanda che si fa più insistente: «Com’è il mondo là fuori?». «Quando stavo male ascoltavo la canzone di Vasco: Voglio trovare un senso a questa situazione anche se un senso questa situazione non ce l’ha». E da lì la decisione di esserci, di reagire, di fare della malattia un’occasione di crescita. «Una volta una persona mi ha detto: Beato quell’uomo che ti sposerà. Forse voleva dire: troverà una donna cresciuta, con un’esperienza sulle spalle». Prende forma una nuova Marica, attenta, riflessiva, a volte un po’ pungente che percepisce anche la distanza dai suoi coetanei e che ad un certo punto, provocata dalla scomparsa di alcune persone che vivono il suo stesso percorso ospedaliero, si confronta con la morte. Scrive: «Potevo esserci io al loro posto. Allora penso alle reazioni che avrebbero le persone. Penso a come sarebbe il mio funerale e penso che poteva accadere un anno fa. Perché io ce l’ho fatta e loro non ci sono più? Non so rispondere a questa domanda». Marica ci invita a sostare, a riflettere. Assomiglia a Maria che in quella notte strana, custodiva queste cose meditandole nel suo cuore. Un puzzle paziente di chi cerca di mettere insieme la vita. Un invito a non rimanere in superficie e a dare spessore ai giorni, a non vivere rintanati e a cercare il mondo, a credere che anche le esperienze dolorose ci fanno crescere. Forse non serve pensare al proprio funerale, ci penserà qualcun altro. Ma nel frattempo cerca di vivere e di non farlo a metà. Interroga le destinazioni verso cui ti stai muovendo, non buttare la salute e soprattutto chiediti se oltre a soldi e lavoro non ci sia qualcos’altro. Perché Vasco non ha tutte le ragioni e a questa vita un senso qualcuno riesce a darlo. Natale alternativo è un Natale di verità.
2.    La bellezza delle relazioni. Nella Betlemme di Marica c’è però anche una storia di relazione e di amicizia, quella cui lei teneva tantissimo, quella che parecchi di noi hanno avuto modo di stabilire nei contatti diretti e in quelli della sua ricca e mai superficiale messaggistica telefonica. Lo scorso anno, proprio in questi giorni, uscivano su Voce Godigese i suoi auguri per il 2019. Un piccolo vademecum per i frequentatori della rete e dei gruppi virtuali: le emoticons - diceva Marica - diventino sorrisi veri; i video si trasformino in momenti di vita vissuta insieme; i commenti siano occasioni di crescita dove prima di intervenire, si ascolta; condividere sia un verbo di apertura verso gli altri; l'amicizia sia quella confermata da abbracci sinceri. Marica animatrice aveva sempre in mente i ragazzi del suo gruppo che, anche dopo i vent’anni, rimanevano sempre suoi. Ricordava le ragazze della pallavolo, i compagni di scuola, i colleghi di lavoro e quella particolare famiglia che si era costituita al Centro oncologico di Aviano dove, accanto alle sperimentazioni cliniche, erano le amicizia a far guarire, anche quando non si guariva. Marica aveva scoperto la terapia dei legami: facevano bene a lei e facevano bene a chi lei incontrava, anche perché quei percorsi non finivano nella risacca delle confidenze o delle chiacchiere, ma trovavano la verticalità della preghiera. Marica e Michele, infatti, una volta alla settimana leggevano il vangelo della domenica e pregavano insieme e lui si stupiva di come lei riuscisse a ricordare al Signore persone, vicende e situazioni che lui manco conosceva o aveva in mente. Andiamo fino a Betlemme. Verbo al plurale. Il Natale alternativo di Marica era quello della condivisione che dalle strade della vita non temeva di inoltrarsi sulle strade della fede.

3.    L’amore fino in fondo. Ma le alternative che Marica ci indica sono soprattutto quelle dell’amore e dell’esperienza di famiglia. C’è la famiglia di origine di Marica: Graziella, Bruno, Silvia. Un legame potentissimo tra loro, con Marica che ogni tanto si spazientiva parchè i ze sempre qua, ma anche con una Marica contenta di quel sostegno e che ride delle sue stesse recriminazioni. Par fortuna ghe ze me mamma: no so gnanca bona de lavare un piatto. E poi Michele. Tutto è iniziato nel 2012 con un campo estivo parrocchiale. Sembrava che non lo si dovesse fare perché si era in pochi. Ed ecco la possibilità di farlo insieme con quelli di Resana, pochi anche loro. E così si parte, destinazione Rimini, comunità Papa Giovanni. Finito il campo, Marica comincia a dire: «Beh, vado a Resana». Sera dopo: «Vado a Resana». Terza sera: «Vado a Resana». Finché Bruno che al campo c’era andato anche lui, risponde: «Saluta Michele!». E così inizia la loro storia. Una storia segnata dal matrimonio, 13 maggio 2017, un momento bello, accompagnato da tanta gioia non perché non ci si rendesse conto del quadro clinico di Marica, ma perché c’era la forza dell’amore e la forza del noi. Sentite cosa scriveva Marica a Michele un paio di mesi dopo il matrimonio, prima di un ricovero riabilitativo a Motta di Livenza. Ricordati delle orchidee (ogni lunedì), ricordati del basilico, comportati bene, non bere dalla bottiglia, non fare troppe cose, stai rilassato, attento alla lavatrice, non mangiare schifezze. Ometto altri particolari poco ...edificanti! Ma poi aggiungeva: Ricordati che ti penso sempre. Ti accompagno in ogni tuo gesto e in ogni tuo giorno, ti porto nella mia mano sinistra come sigillo indelebile. Ti amo tanto, non posso stare senza di te. Ti sposerei ogni giorno. Uno dice: che cosa ti fa attraversare l’esperienza terribile della malattia e del dolore? Te la fa attraversare l’amore. Perché ad un certo punto capisci che le lotte non servono più, che è giunta l’ora che hai sempre cercato di allontanare. Com’è capitato qualche giorno fa, il 14 dicembre, quando Marica ha detto a Michele: «Michele, mi no vegno pi fora». E Michele, che non si è nascosto né ha nascosto la gravità della situazione, ha risposto: «Marica, no so cossa che succedarà, ma qualunque cosa capiti io ci sarò. Qui con te». Ed entrambi hanno pianto, insieme, tanto che Marica ha detto a Michele: «Finalmente piangi anche tu». Il Natale alternativo è quello dell’amore che resiste, che c’è anche quando ti verrebbe da scappare. È l’amore che quel Bambino disceso sulla terra è venuto a inaugurare, raggiungendo e illuminando le nostre oscurità. Sono andato a recuperare il fascicolo dell’istruttoria matrimoniale di Marica e Michele, le domande che si fanno ai fidanzati. Perché sceglie di sposarsi in chiesa? Marica aveva risposto: Perché è stato Dio a farci incontrare e perché ci si sposa in tre. Marica sapeva che l’amore con Michele era abitato da Dio e a Dio consegnava i suoi ultimi giorni come gli aveva consegnato tutti gli altri, fedele al titolo di quel libretto di preghiere che l’aveva accompagnata nel tempo dell’avvento: Andiamo con gioia incontro al Signore. Perché lo sposo che tutti attendiamo è lui.

Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? La tribolazione, la nudità, il pericolo, la spada? Il tumore, le chemioterapie, la solitudine dell’ospedale? Nessuno ci separa. L’amore è più forte e le grandi acque non possono travolgerlo. Questo è il Natale alternativo: la mano potente che sfida la morte, l’amore che non ci perde, l’abbraccio cui affidiamo Marica e nel quale chiediamo a Dio di poter dimorare con lei.

giovedì 26 dicembre 2019

Omelia Natale 2019


Natale 2019

Un bambino che consegna una serie di vasetti vuoti, dove una rudimentale etichetta ha la pretesa di dichiararne un contenuto: la prima neve, le nostre prime battaglie. Un vasetto di ricordi invisibili che commuovono chi li riceve. E poi quell’ultimo vasetto, dato alla mamma che attende un fratellino: il suo primo natale con noi. L’avete riconosciuta: è la pubblicità natalizia della Nutella, spot che sa di famiglia, di cose buone, di gioie da custodire. La pubblicità legge i nostri pensieri segreti, le nostre emozioni, i desideri non confessati e su di essi aggancia i suoi prodotti, il suo commercio. Ma se per un attimo ci stacchiamo dalla Nutella e dal business che porta con sé, possiamo riconoscere un messaggio che appartiene alla vita e forse anche alla fede: il monito di fronte a quello che rischiamo di perdere e la sorpresa per quello che un bambino cerca di restituire.

È un tempo – a dirlo non sono i preti ma il Censis - in cui siamo disorientati, in cui il futuro ci inquieta. È il tempo in cui i valori tradizionali  non sembrano più così stabili e condivisibili, carichi di promessa. Anche la vicenda cristiana che ha dato forma a questo nostro Occidente sembra consegnata all’irrilevanza, talora alla derisione. A volte forse giustamente, perché la nostra credibilità è venuta meno e perché abbiamo tirato fuori la parte peggiore di noi; a volte per l’esatto contrario: perché siamo stati coerenti con il vangelo e a qualcuno non è andato bene. specie quando parliamo di solidarietà, di accoglienza e di inclusione. E anche noi,  discepoli del Signore, siamo spesso appesantiti dalla tristezza di chi, in rapida successione sperimenta illusione e delusione.

Ma c’è quel bambino con il vasetto di vetro in mano, il custode della memoria e della speranza. Non il bambino della Nutella,  ma il Bambino di Betlemme. Ancora una volta viene a trovarci, ad animare questa nostra festa per strapparla dai sorrisi di circostanza, dagli auguri di stagione (season greetings!), dai rituali consumistici, per restituirci quello che rischiamo di perdere: la sua presenza e quello che essa porta con sé. Che cosa ha messo nei vasetti?

1.    Nel primo ha nascosto la verità della vita. Il vangelo di questa notte comincia con un censimento. Anche Gesù ci invita a farlo: non quello di Cesare Augusto, ma quello delle cose importanti. Impara a riconoscere quello che vale davvero, impara a distinguerlo dalle cose inutili, superflue o ingannevoli o semplicemente da quelle che vengono dopo. Oggi sono stato a trovare una giovane donna in ospedale. Un male che ritorna e che mette alla prova lei, i suoi genitori, il marito. Come va? Fa fatica a parlare e scrive le sue risposte su un foglio di carta. Natale alternativo, ha scritto.  Tornando pensavo a queste parole e pensavo a loro due, marito e moglie che vivono il Natale così. E pensavo alle nostre giornate, al tempo che non ci basta mai, al lavoro e al denaro che fanno da padroni sulla nostra vita, sulla nostra famiglia, sulla nascita di un altro figlio. Dobbiamo aspettare di star male per rendercene conto? Quando verrà il Natale alternativo che ci restituirà alla verità? Papa Francesco nella lettera dedicata al presepe, ricorda che una certa tradizione iconografica porta a collocare accanto alla grotta le rovine di case e di palazzi antichi. Quelle rovine sono il segno dell’umanità decaduta, di ciò che è corrotto, intristito. Occhio a quello che va in rovina, occhio a quello che promette e non mantiene. Occhio a chi assicura gioia e distribuisce stordimento. Il tragico bilancio legato al mondo del divertimento notturno di un paio di settimane fa è sparito velocemente dai giornali. Nessuno mette in discussione il mondo della notte, tanto meno chi potrebbe e dovrebbe rivedere orari che scombinano il tempo del lavoro e del riposo. Sono rimaste solo le madri di questi ragazzi che gridano col loro dolore: Aiutateci a fermare questa strage. Ritrova le cose importanti, ritrova le persone importanti, ritrova la gioia vera.

2.    Nel secondo vasetto c’è la gloria di Dio. La cantano gli angeli di Betlemme con i loro movimenti tra la terra e il cielo. Gloria vuol dire peso, consistenza. Perché l’angelo è mandato proprio per questo, per dirci che Dio è una questione importante, che pesa nella nostra vita. Perché noi portiamo impresse le tracce dell’eterno. Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te (Agostino).

Nel Corriere di ieri c’era un articolo: Volete fare un regalo ai figli? Tre idee intelligenti: il riscatto della laurea, un fondo per avviare un’attività imprenditoriale, una stampella per la pensione.

E intanto una sedicenne a Milano si butta sotto il treno: non fosse stato per la prontezza di un tecnico della metro, un papà che ha agito come se vedesse sua figlia, il bilancio sarebbe stato drammatico.

Forse ai figli possiamo regalare un po’ di cielo, abitato magari dai dubbi e dalle nostre ricerche, ma mai dalle nostre svalutazioni o derisioni. Perché deridere le fede, vuol dire mortificare l’uomo e prestare il fianco alla presunzione di saperne una pagina in più, mentre la conoscenza ci vede sempre scolari.   

Giacomo Poretti, il comico, ricorda che da bambino era incuriosito dalla figura del pastore che metteva mano alla fronte e guardava in alto. E osserva:  Anche adesso, dopo quasi 60 presepi, quella statuina, ereditata, continua a incuriosirmi e a preoccuparmi. Perché fa così fatica a vedere? Possibile che non abbia ancora imparata la strada?  …Alla fine mi sono affezionato a quella strana statuina. Gli voglio bene perché a volte sento lo stesso smarrimento, la stessa miopia, lo stesso astigmatismo. Proprio perché siamo miopi Dio ci viene a trovare a Natale. Smettila di guardare lontano: cercalo dentro di te, forse scopri la sorpresa di essere abitato. Questa è la gloria di Dio!

3.    Terzo vasetto. C’è scritto pace. Quando ci manca, è la cosa che più ci manca. La pace dentro e la pace fuori. La pace dentro, perché a volte non siamo contenti di noi stessi, della nostra vita. La pace fuori, perché a volte con gli altri le cose non vanno bene. Gesù viene a custodire la pace. È bella la provocazione di Banksy, l’artista britannico della street-art che a Betlemme ha realizzato un presepe sotto una ricostruzione del muro che separa Israele dalla Palestina, nuovo muro del pianto, per tanta gente. Solo che al posto della stella ha realizzato un buco, come se fosse lo sfregio di una granata. Forse il messaggio è: fa’ in modo che la granata diventi una stella. Metti da parte l’arsenale bellico delle offese, dell’odio, della vendetta e ricomincia. Prova a ripetere quelle parole, all’inizio e alla fine di ogni giornata, con ostinazione, senza pretendere che il canto degli angeli disarmi il nemico, ma disarmi il tuo cuore, finalmente libero, finalmente in pace. Non ci sarà più bisogno della Nutella, ma non ci sarà più bisogno neanche degli angeli, perché l’angelo diventi tu. E sarà finalmente il buon Natale.

domenica 1 dicembre 2019

Omelia 1 dicembre 2019

Prima domenica di avvento - 2019
Giovanni Papini è uno scrittore fiorentino di inizio ‘900. Suo padre riteneva il cristianesimo detestabile, sua madre aveva fatto battezzare il figlio di nascosto. E il ragazzo cresce in un ambiente contrastato, segnato dall’ostilità nei confronti della fede ma anche dall’inquietudine rispetto ad un finito che non convince. Sono gli anni del positivismo, dove la scienza sembra essere la ragione di tutto, ma anche gli anni della critica al a quel pensiero cui sfugge qualcosa. E infatti, Papini, poco prima della sua conversione, scrive: “In un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura. È necessario uno svegliatore notturno che smantelli per dar posto alla luce”. Lo svegliatore notturno. Mi pare una bella immagine per iniziare il tempo di Avvento. Perché anche noi apparentemente effervescenti e dinamici siamo interiormente addormentati, soggetti ad un’anestesia dove qualcuno mette mano alla nostra fede e ne altera i significati. Non addormentarti. Lo raccomandava anche Paolo: Fratelli, è tempo di svegliarvi dal sonno. L’avvento è lo svegliatore, il tempo in cui Dio ci restituisce a noi stessi e alla vita che ha in mente lui. Come? Con alcune attenzioni da avere.
1. Occhio ai tempi di Noè. Mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito. Sembrano azioni normali, necessarie, ma un verbo tradisce questi atteggiamenti. Mangiavano. In greco trogo, da cui deriva trogolo. È il pasto degli animali, di chi pensa a riempire la pancia e si dimentica dei significati, degli orizzonti, degli altri. Siamo noi, preoccupati del black friday e incapaci di individuare occasioni che non siano solo quelle di Amazon. Siamo noi che lamentiamo disservizi e latitanze pubbliche e neanche conosciamo il dramma di quegli afgani disperati respinti con brutalità al confine tra Bosnia e Croazia. Siamo noi che giudichiamo esagerate le richieste di una parrocchia mentre un figlio si prepara alla prima comunione e non ci rendiamo conto del diluvio che sta scendendo sulle giovani generazioni prigioniere di un mondo che ha messo di fronte a loro un display al posto del cielo. Mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito. Sembra una vita tranquilla, una vita buona, ma è una vita che non alza lo sguardo.
2.   Fatti coinvolgere. È un’altra immagine che Gesù ci suggerisce: Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. A volte pensiamo che questa immagine contenga la morte, che ci prende, che ci porta via. E così ci identifichiamo in chi viene lasciato, sperando di sfuggire agli artigli del baratro. Invece chi ci prende è il Signore, che ci desta, che ci chiama a collaborare, che ci rende capaci di risvegliare il mondo. Lasciati prendere dalla sua iniziativa, dai suoi disegni, dal suo stile. Un tribunale del Bangladesh questa settimana ha condannato a morte i sette invasati che tre anni fa torturarono e uccisero i commensali di un ristorante di Dacca, ritenuti infedeli. Tra le vittime vi furono nove italiani. Dopo la sentenza Luciano Monti, che nella strage perse la figlia e il nipotino che portava in grembo, ha detto: «Mi fa rabbia sapere che non si sono pentiti, però la loro morte non è una consolazione né una soluzione». È giusto cercare la giustizia, ma i giudizi cristiani vanno oltre e hanno sempre a che fare con Dio, specie quando c’è di mezzo la vita degli uomini. Làsciati portare da lui. Lasciati prendere dal vangelo e dalla sua inesauribile audacia.
3.    Impara a vegliare. Gesù la dice con l’immagine del ladro che non avverte della sua visita. Attento a chi ti ruba a te stesso. Abbiamo visto la donna con la svastica sulla schiena che si faceva chiamare miss Hitler: a volte il ladro lo portiamo tatuato, si imprime nella nostra carne, nelle nostre scelte. Abbiamo però visto anche quel tale che ha disarmato l’attentatore di Londra. Anche lui era un assassino, che forse ha raccolto un’occasione per essere diverso. Perché il ladro lo possiamo riconoscere meglio quando ladri siamo stati anche noi, a partire dai nostri errori, dalle nostre nefandezze, credendo che le cose possono cambiare. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra.
Vegliare vuol dire scorgere le prime luci di un giorno nuovo, quello che anche quest’anno lo svegliatore ci regala.