domenica 13 novembre 2016

Omelia 13 novembre 2016


Trentatreesima domenica del T.O.

Abbiamo visto in questi giorni la distanza tra i pronostici elettorali e la realtà. L’America che aspettava un certo presidente, con sorpresa, ne ha visto arrivare un altro. Ed ecco il disorientamento degli opinionisti e dei sondaggisti abituati a diffondere le loro analisi come se si trattasse di una sorta di oracolo. Bastano ventiquattr’ore e ci si trova di fronte ad uno scenario completamente diverso. Attenzione a ciò che sembra solido, spettacolare, promettente: perché a volte le valutazioni umane sono spazzate via insieme a quello che reputano intramontabile. Sono le stesse considerazioni che Gesù fa davanti al tempio di Gerusalemme. La costruzione era stata iniziata da Erode il Grande, nel 19 a.C. e sarebbe stata ultimata nel 64 d.C. Ai tempi di Gesù dunque c’erano lavori in corso che già consentivano tuttavia di osservare qualcosa di grandioso. E tuttavia Gesù osserva: «Verranno giorni, dice Gesù, nei quali di tutto quello che vedete non rimarrà pietra su pietra». In effetti sarà quello che si verificherà nel 70 d. C. con la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito. I cristiani quindi, di fronte agli scenari che il mondo propone loro, sono invitati alla prudenza, a distinguere ciò che passa e ciò che resta, a non confondere le costruzioni terrene con quelle eterne. Quali attenzioni sono necessarie?

1.    Distanza. Un primo monito riguarda tutti coloro che in maniera boriosa e tracotante vogliono dicono: “Sono io”.  Ricordate? “Io-sono” è il nome santo di Dio che risuona in tutto l’AT. Chi dice sono-io si arroga il nome divino, si mette al suo posto. Ci sono parecchie realtà che hanno questa presunzione. Una politica che avanza a spintoni, che non ha altro da offrire se non la sconfitta dell’avversario. Uno sport che prevale su tutto, che ti lascia esterrefatto quando copre di milioni un giocatore ma al quale tacitamente consegni il tuo obolo acquistando il pacchetto di sky. C’è anche oggi una vicenda affettiva e sessuale che detta regole ferree facendoti credere che la tua affermazione sia nella prestazione, nelle misure e negli anticipi anagrafici dove – almeno secondo quello che diceva L’Espresso del 9 ottobre scorso – la grande scuola dagli 11 ai 13 anni sembra you porn e ci si scambia in chat la foto dei genitali come si trattasse delle figurine. Sono io. Ecco, appunto, chi sei? Sei la tua pulsione o sei qualcosa in più? Perché arrivi a scelte estreme quando qualcuno sbandiera la tua intimità? Perché non sono figurine. C’è la tua vita, il tuo cuore, il mistero che ti abita. E non puoi assoggettarlo a chi lo vuole banalizzare o misconoscere. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”. Non andate dietro a loro!

2.    Testimonianza. Gesù non mette i suoi discepoli in una situazione di tranquillità. Anzi il quadro che delinea è abbastanza fosco. Carestie, pestilenze, sconvolgimenti, guerre, terremoti. E soprattutto la persecuzione: metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni. È quello che capita ad esempio in Pakistan: nel giornale di questi giorni c’era la vicenda di due sposi cristiani arsi vivi con la solita infondata accusa di blasfemia. Ma non vi pare che anche da noi scatti una sorta di distanza sociale quando vivi il vangelo? Prova ad andare in giro a difendere i profughi e vedi cosa raccogli! Medici senza frontiere ha tentato di sfatare, dati alla mano, le dieci leggende metropolitane con cui rispondiamo al problema. Della serie: vengono tutti in Italia, sono tutti giovani e forti, hanno il telefonino… È davvero questa la verità? Il vangelo ti dice di dare un’occhiata al telefono prima di soccorrere la gente? Avrete allora occasione di rendere testimonianza. Di quale Gesù Cristo sei testimone? Sta attento a non costruire templi che non stanno in piedi. Un bel segno che in questa settimana siamo riusciti a porre è quello di una scuola di italiano per stranieri. Finalmente riusciamo a dare qualcosa in più della borsa della spesa. Non smettere mai di testimoniare la novità che ti appartiene.

3.    Perseveranza. È il terzo invito. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita. La vita cristiana è fatta di tenacia, di resistenza, di forza. Non lasciarti destabilizzare, rimani ben piantato nelle tue convinzioni. A un valore ha bisogno di tempo per radicarsi e diffondersi. Per questo un prete continua a predicare, un catechista riprende anche se è scoraggiato, un genitore non molla la presa anche quando sente che la briglia gli sta sfuggendo. Perché? Perché un ragazzo – e non solo un ragazzo - a volte ha bisogno di un supplemento di convinzione, di capire se quello che dici è solido, se tu ci credi davvero. E solo la perseveranza offre le garanzie. Come qualcuno chiedeva a Piergiorgio Frassati: «Sei bigotto?». «No, sono rimasto cristiano». Essere perseveranti non vuol dire essere immobili, ma rimanere se stessi e rimanere credenti.




lunedì 31 ottobre 2016

Omelia 29 ottobre 2016


Trentunesima domenica del T. O.



Vedere senza farsi vedere. Osservare stando al riparo. È la grande pretesa di questo nostro tempo, riscontrabile soprattutto nel mondo dei social, quando vai visitare la pagina di qualcuno per vedere chi è, chi sono i suoi amici, quali sono i suoi gusti e le sue frequentazioni. Ma senza comprometterti. Perché altrimenti anche l’altro potrebbe osservarti, avere qualcosa da dirti, pretendere qualcosa. E non ci va di lasciarci scomodare.

Ebbene, oggi c’è qualcuno che sta scrutando Gesù nascosto tra i rami di un sicomoro, pianta alta e frondosa che consentiva di esaminare la scena in maniera protetta. Ma Gesù individua il suo osservatore e lo invita a un altro tipo di incontro. Zaccheo, il pubblicano, trova da quel momento un’altra collocazione che lo condurrà a giocarsi di fronte agli altri e a non nascondersi più. Zaccheo cerca il Signore, il Signore incontra Zaccheo, Zaccheo trova se stesso e il Signore. Mentre cerchi Gesù, Gesù ti restituisce a quello che sei. Un cammino di autenticità e di liberazione che può avvenire anche oggi.



1.     Perché si nasconde Zaccheo? Perché è piccolo di statura. Non si tratta di centimetri, ma di statura interiore. Zaccheo è rimpicciolito dal suo peccato, dai soldi che indebitamente finiscono nelle sue tasche di pubblico esattore. Ma Zaccheo è rimpicciolito anche dal suo modo di vivere la vita, adeguandosi al modello che la gente gli attribuisce. Sono un peccatore? Pazienza, almeno ho i soldi! E mi diverto. E tuttavia Zaccheo non doveva star proprio bene se sente il desiderio di andare da Gesù. Ma ha paura: dei giudizi della gente ma anche di uscire da quella impostazione di vita che al di là di tutto ha i suoi vantaggi. Meglio stare al riparo. Un circuito vizioso dove gli altri ti hanno messo in un posto e in quel posto ti convinci di star bene, anche se non è così. Gesù lo snida: Zaccheo, scendi subito. Ecco, la vita autentica inizia quando scendi dalle collocazioni in cui ti sei arroccato e da quelle in cui ti mettono gli altri. A volte quello che rende difficile la fede è una tara che ci portiamo addosso. Sei stato il comunista di vecchia scuola fiero del suo assetto anticlericale che anche oggi perseveri in quelle posizioni di cui non sei più convinto neanche tu! Frequenti una compagnia di gente che banalizza l’esperienza credente e ti abbeveri alla loro fonte senza renderti conto che ti stanno inaridendo. Scrivi sul muro, com’è capitato in questi giorni a Andria, “Odio la Chiesa” e, ironia della sorte, quella scritta è sul muro della Casa della carità in cui proprio la chiesa accoglie profughi e poveri. Scendi dall’albero. Perché se ci pensi bene là sopra non vedi bene come vorresti. E non sei quello che vorresti.



2.    Altro passaggio che consente di ritrovare se stessi è smettere di andare a curiosare nelle vite degli altri e abitare la propria. Quand’è che nasce il nuovo Zaccheo? Quando rientra in casa con Gesù. Gesù vuole fare questo con te: portarti a casa, perché qualche volta noi viviamo all’esterno di quella abitazione mentre dentro non c’è nessuno. E chi ci incontra trova il vuoto. I nostri ragazzi e soprattutto le ragazze che seguono su Real time Take me out in cui un uomo deve rendersi interessante agli occhi di trenta donne che lo accendono o lo spengono a seconda delle performances di cui il malcapitato è capace, cosa osservano? L’interno o l’esterno della casa? Che cosa ti rende interessante agli occhi degli altri? Qual è il tuo cuore, la tua verità? Pensate ad Halloween e ai suoi rituali. Che cos’è? Una casa con le ragnatele e gli spettri, abitata da fantasmi. Una casa che dichiara il proprio vuoto di fronte a una questione nodale come quella della morte. Ma nella tua casa non c’è più traccia della speranza? Solo le zucche vuote. Oggi devo fermarmi a casa tua. Sta attento a non vivere disabitato.



3.    Infine tu trovi te stesso, quando trovi gli altri in maniera nuova, solidale e fraterna. Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto. Chi rubava, secondo la legge, doveva restituire ciò che aveva sottratto, aggiungendo un quarto in più del valore complessivo. Zaccheo non traffica con le bilance della giustizia umana. Ha scoperto un’altra misura. Tu ritrovi te stesso se fai dell’amore la tua misura. Tua madre è in ospedale e ti ostini a non rispondere alle sue chiamate perché non merita il tuo amore. Ma la vita che hai addosso da chi proviene? Hai un impero grazie a un’attività imprenditoriale. Tutto perfettamente in ordine dal punto di vista legale. Ma c’è un gesto di solidarietà e di altruismo che puoi fare per dire che non tutto è contabilizzato nella partita doppia? O c’è solo avidità? Te la prendi con gli immigrati e fai le barricate contro otto donne e undici bambini, ma in Africa l’Europa ha qualcosa da restituire? Quante volte?

Zaccheo ha trovato Gesù e Gesù ha incontrato Zaccheo. Ma soprattutto Zaccheo ha incontrato Zaccheo, in maniera nuova e finalmente umana. Prova a fare lo stesso percorso con il Signore: scendi dall’albero, entra in casa e apri quella casa perché chi ti incontra possa dire che oggi davvero la salvezza vi è entrata.


domenica 16 ottobre 2016

Omelia 16 otttobre 2016


Ventinovesima domenica del T. O.



Un giocatore del Napoli dopo una partita a Cesena che non era finita molto bene per la squadra partenopea ha detto: «Su questo campo ci si stanca di più». Non so quali conformazioni rendano un terreno di gioco meno faticoso di un altro, ma anche nella vita di fede c’è un campo che ci stanca: quello della preghiera. Iniziamo a pregare ma poi ci perdiamo, la testa va altrove, ci sembra che ci siano delle cose più importanti e che Dio gradisca più le nostre azioni che le nostre riflessioni. E così abbandoniamo la preghiera e consegniamo la nostra vita alla superficialità o ad altre occupazioni. Gesù, invece, oggi afferma chiaramente la necessità di pregare sempre senza stancarsi. Che cosa vuol dire?



1.    Vuol dire anzitutto fare i conti con la fede. Gesù infatti chiude la sua riflessione proprio con una domanda che riguarda questo fondamentale atteggiamento: «Il Figlio dell’uomo quando ritornerà troverà ancora fede sulla terra?». La preghiera è un campo che ci stanca perché siamo abituati a condurre il gioco da soli, a controllare la palla senza passarla, ad arrivare in porta a prescindere dai compagni anche se sappiamo che si tratta di un dribbling fallimentare. Alcuni sociologi parlano oggi della fede come del “possibile non sicuro” (Castegnaro). Dio è un riferimento nel momento in cui ci sembra ragionevole, nel momento in cui asseconda il nostro gioco. Ma quando chiede di allargare lo sguardo rimaniamo perplessi e attingiamo dalle nostre risorse. Ma quando conosci il tuo compagno di gioco? Non quando fai le tue supposizioni su di lui, bensì quando gli passi la palla. Invece di aspettare le prove per iniziare a pregare Dio, prova a pregarlo e vedi se si muove qualcosa.



2.    Che cosa? Qui si apre un’altra riflessione: a che serve la preghiera? A realizzare quello che abbiamo in mente? Pregare nel greco con cui è scritto il vangelo si dice proséuchesthai. Pros è una preposizione che dice la necessità di un’uscita. Euchomai vuol dire desiderare, guardare a qualcosa di bello. La preghiera è uscire da sé, andare nel mondo di Dio e desiderare ciò che lui desidera. Quella vedova che va dal giudice e con insistenza dice le sue ragioni continua a sognare un mondo giusto, non come quello di chi le ha rubato i soldi e la sta mandando in miseria. La preghiera è la ricerca dello sguardo di Dio su di noi, sul mondo, sulla vita. È capire quello che conta veramente. A volte noi preghiamo rimanendo prigionieri di noi stessi e del “sia fatta la mia volontà”.



3.    Rimane però un problema. A volte la nostra preghiera è giusta, come quella della vedova. E tuttavia sembra che il giudice non ascolti. Guarda che Dio non è così, assicura Gesù. Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ecco è questo prontamente che non ci convince. Dov’è finito Dio nelle nostre necessità? Dov’è finito quando qualche innocente soffre? Forse la risposta c’è ma non è quella che pensiamo. Ce lo fa capire Mosé: quando alza le mani verso il cielo, l’esercito di Israele vince sui nemici. Quando cadono a terra prevale Amalek. E allora cosa fanno Aronne e Cur? Sostengono le mani di Mosè. E Israele vince. Ecco Dio a volte vuole questo. L’efficacia della preghiera non sono i miracoli che assomigliano a magie ma i miracoli che uniscono gli uomini, che rendono le loro mani fatte di cielo. Certo che la Siria è bombardata, ma il miracolo saranno mani di uomini che si alleano e sostengono progetti di pace. Certo che una malattia ti sconvolge ma il miracolo saranno mani che sono vicine al malato, che gli consentono di rimanere uomo e di sentirsi voluto bene. Ecco perché Dio non cambia certe situazioni,: perché vuol cambiare il nostro cuore, che diventi come il suo. E la preghiera insistente genera questa umanità. In te e attorno a te. Prega senza stancarti, perché Dio non si stanca di risponderti notte e giorno. E per il fatto che tu non lo vedi non vuol dire che già non ci sia.

domenica 2 ottobre 2016

Omelia 2 ottobre 2016


Ventisettesima domenica del T. O.

Marina Nalesso, giornalista del Tg1, nei giorni scorsi è stata oggetto di forti critiche sui social network per essere apparsa in TV con una collana da cui pendeva il crocifisso. Lo sappiamo: l’affermazione pubblica del cristianesimo oggi dà fastidio. Ci scontriamo con un laicismo guardingo e rabbioso che ne vorrebbe cancellare i segni relegandoli alla sfera privata. Ma non è solo una battaglia tra esterno e interno del cristianesimo. A volte anche gli stessi cristiani sono indeboliti nella loro testimonianza e vivono una relazione con il Signore in maniera un po’ blanda ed ambigua. Oggi l’aggettivo che seduce è: easy. Leggero, facile. E vorremmo tutto easy, anche la fede, in modo da non sentirla troppo addosso, in modo che non sconvolga le scelte che abbiamo già fatto. Ti sposi in chiesa ma è come se rimanessi fuori, iscrivi tuoi figlio alla scuola materna parrocchiale ma non capisci tutta questa religione, ti piace tanto papa Francesco ma di quello che dice prendi solo gli slogan. La questione però si poneva già agli inizi del cristianesimo, tanto che gli apostoli, rendendosi conto dele esigenze che indica loro Gesù, gli chiedono: «Aumenta la nostra fede!». Ecco, com’è che aumenta la fede?

1.    Anzitutto Gesù dice che ne basta un granello. Ma non un granello di sabbia, un granello vivo, come il seme di senapa. Non importa poca o tanta, grande o piccola: importa che la tua fede sia viva. Quand’è che una fede è viva? Quando non rimane inerte sul terreno dell’esistenza, quando freme, mette germogli e radici. Prova a vedere se c’è una piccola zolla che si alza spinta dalla forza di Dio. Qualcuno di voi accoglie a casa i bambini di Cernobyl. Ebbene nei mesi scorsi è uscito un articolo su Fabrizio Pacifici, l’ideatore di queste vacanze rese possibili dalla solidarietà. Pacifici nel 1986, anno del disastro di Cernobyl, era un rampante giovane comunista che veniva mandato a Mosca a studiare per assumere le responsabilità nel partito. Un giorno un gruppo di medici lo invita a visitare un ospedale. Era rischioso andarci, ma lui aggira i controlli e si reca nel reparto dove erano ricoverati i bambini colpiti dalle radiazioni. E questo basta per cambiargli la vita. Ritorna in Italia e cerca di fare qualcosa e casualmente trova un frate che sostiene il progetto. Pacifici nel frattempo, attratto dal vangelo, è cacciato dal partito, ma lui ha conosciuto il Signore e inizia a camminare sulle strade della fede e a realizzare un’opera di accoglienza che continua fino ad oggi. Guarda che la vita è abitata dal mistero non solo dalle logiche del partito. Lasciati interrogare, lasciati condurre. Per questo Paolo dice a Timoteo, suo collaboratore: Ti scongiuro di ravvivare il dono che è in te.

2.    Poi la fede aumenta accogliendo la sorpresa dell’impossibile. «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe». La fede smuove, scalza, sposta. Anche quel che sembra cementato. Però bisogna attivarla. Potreste dire. Se taci non succede niente. La fede deve avere il coraggio dell’iniziativa, l’audacia di giocarsi. Prova a vedere su quale impossibile il Signore ti vuole sorprendere. Pensate al gesto compiuto dal presidente palestinese Abu Mazen che ha voluto partecipare ai funerali di Shimon Peres. Nonostante le critiche di Hamas che ha indetto un giorno di rabbia per tale partecipazione, Abu Mazen ha stretto la mano al premier israeliano Benjamin Netanyahu. È da cinque anni che i due non si riuniscono per un negoziato. Anche noi a volte chiudiamo i negoziati. La fede è la loro riapertura, anche quando l’altro ti sembra un nemico. Al nostro orgoglio, alla nostra volontà di dominio, alla nostra cattiveria dovremmo dire così: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”. La fede può provocare l’impossibile. 

3.    Infine la fede non cerca meriti né ricompense. La parabola dei servi inutili ce lo fa capire. Quella parola non vuol dire che essi non svolgano un servizio prezioso. Il senso è un altro: quel servizio non dà diritto a utili, a una remunerazione. Dov’è allora il vantaggio di credere? È nell’essere parte di una realtà, nel contribuirvi mettendosi a servizio, nell’arricchire il mondo di Dio con la propria partecipazione. Come se ti capitasse di giocare insieme al tuo calciatore preferito. Non vai a chiedergli la paga. Quella partita era la paga! Mi hanno fatto riflettere ieri sera i volontari che si occupano dell’Alzheimer. Hanno descritto quel mondo in uno spettacolo con attenta precisione, anche con ironia. Ma in tutti loro emergeva anche una grande tenerezza per coloro che assistono. Questa è la partita di Dio e quando sei in campo, non hai bisogno di altre paghe perché già appartieni al regno dei cieli. Per quello che fai, per l’amore che ci matti, per lo stipendio che non hai.

Ecco la fede. Non è un po’ di vernice sulla cornice della vita. È il dipinto che realizziamo giorno per giorno. Con tenacia, creatività, disponibilità all’azione di Dio.  


venerdì 30 settembre 2016

Funerale Maurizio Fantasia


Funerale Maurizio Fantasia (26 settembre 2016)

Sap 3,1-9 Lc 12, 35-40

Quando la morte giunge inattesa, come è capitato a Maurizio, avvertiamo in modo ancora più intenso la nostra fragilità e la nostra provvisorietà. E avvertiamo che le parole di Gesù non hanno età e continuamente ci mettono in guardia dalla superficialità con cui talvolta conduciamo la vita. State pronti, con le cinture ai fianchi e le lucerne accese. Siate simili a coloro che aspettano il padrone. Non siamo noi i padroni della vita. Il padrone è un altro. Noi siamo gli amministratori di un dono che ci è stato fatto e del quale ci è chiesto conto. E il conto che ci viene presentato ha un’unica voce: amore. Quanto amore hai messo nelle cose che ti sono state affidate. Il padrone infatti non è un despota dal volto minaccioso, ma il Dio dell’amore che proprio in tale esperienza ci invita a giocare la vita. Maurizio lo aveva capito, con la sua semplicità e con i suoi limiti, orientando l'amore su tre particolari prospettive: la dedizione agli altri, la passione educativa, la mitezza.

1.   Maurizio da piccolo aveva conosciuta la povertà: la sua famiglia non aveva grandi risorse, ma aveva una grande coesione: «L’unione fa la forza», ripetevano suo padre e sua madre. E lui era cresciuto con questa convinzione, assistendo i suoi genitori sino alla fine e prendendosi cura dei suoi fratelli ogni volta che ne avevano necessità. Anteponeva i bisogni degli altri ai propri, anche quando qualcuno gli diceva di badare un po’ a se stesso e alla salute. Se gli si chiedeva un piacere la disponibilità era sicura, senza esitazioni. In questi ultimi anni non lo si vedeva più a messa come un tempo, ma non aveva perso i contatti con il comandamento dell’amore, l’unica legge di fronte alla quale alla fine saremo giudicati. Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Ecco una preziosa eredità, che Maurizio ci lascia. Se la perdiamo di vista, della nostra vita rimane ben poco.

2.   Maurizio portava con sé anche una certa passione educativa. L’aveva coltivata facendo per tanti anni l’animatore in parrocchia e poi l’aveva trasferita nella scuola dove operava come tecnico di laboratorio da oltre quarant'anni. Era appassionato del suo lavoro che viveva con precisione e senso di responsabilità. Con i ragazzi era un finto burbero, capace di dosare rispetto e affabilità. Maurizio ci lascia a suo modo la personale testimonianza di buona scuola, dove nessuno può esserci solo per uno stipendio. C’è in gioco il futuro, la trasmissione dei saperi e dei valori, le conoscenze e il senso che la vita ci dischiude. Le giovani generazioni erano nella mente e nel cuore di Maurizio: che vita stai suggerendo? Che vita stai inseguendo? Non ti soffocare nella breve scena di questo mondo: c'è di più di ciò che vedi. Ci sono tracce di mistero che percorrono i giorni e non è impossibile vederle. Scruta, interroga, non ti arrendere: non ci sta tutto in una provetta...
3.   Infine Maurizio aveva connotato l’amore con la mitezza. Sabato sera una persona in ospedale, mentre mi raccontava di Maurizio, mi ha detto: «Puoi dire che era come il pane; l’uomo più buono della terra». Mai reazioni indispettite, mai cattiveria, invidia, tantomeno la collera. Preferiva farsi da parte e tacere, anche quando aveva ragione. Maurizio appartiene a quelle anime dei giusti che sono nelle mani di Dio, quelle che gli occhi del mondo guardano con sufficienza e qualche compatimento mentre Dio affida loro la costruzione di quel regno che ha in mente. Non è l’arroganza che apre i cieli, ma la mitezza e, se anche altre logiche sembrano vincenti, è solo la bontà che dischiude l’eterno. Maurizio è stato un uomo buono che non ha perso di vista il vangelo ed appartiene a coloro che in cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé. Raccogliamo  la testimonianza che oggi ci viene consegnata. Il Signore risorto non perde niente di quello che costruiamo nell'amore: nell'amore di Gesù risorto Maurizio possa trovare accoglienza, sperimentare misericordia, partecipare alla vita che non ha fine.



Omelia funerale Neda Volpato in Baù


Neda Volpato in Baù (27 settembre 2016)

Ap 21,1-7 - Lc 2,22,32

Un prete incrocia molte situazioni credenti: fede accesa, fede tiepida, fede ribelle, fede spenta. Neda è una delle situazioni in cui il prete fa i conti con la propria fede e si rende conto di essere preso parecchio indietro. Perché quando domenica pomeriggio sono stato a celebrare l’unzione degli infermi in casa di Neda, l’accoglienza era quella delle grandi occasioni e per lei non c’era niente di meglio, in quel momento, che poter accogliere il Signore e stare con lui. E mi è venuto spontaneo ad un certo punto, tra letture e preghiere, chiederle: «Neda, vuole dire lei ora qualcosa?». E senza alcun imbarazzo ha cominciato a dire che quel momento era quanto di più bello le potesse capitare, che era contenta di quel regalo e che era contenta che accanto a lei ci fossero tutti i suoi famigliari. Noi avevamo il nodo in gola, ma lei sorrideva e sembrava che i suoi occhi vedessero di più dei nostri. Ecco, Neda mi fa venire in mente il vecchio Simeone: Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza. La fede è questa: vedere oltre i limiti del mondo, degli eventi, di quello che capiamo e di quello che ci sembra possibile. È vedere Dio anche nelle situazioni impensabili, anche nell’esperienza della malattia.

E questo cammino non si improvvisa: ha bisogno di pazienza, di attesa, di lungimiranza che Neda ha praticato per tutta la vita. Come? Ci sono tre direttrici credenti che Neda ci lascia in eredità.

1.    La prima è la preghiera. Neda era una donna che pregava e ogni giorno macinava almeno un paio di rosari. Quando una persona ci lascia c’è spesso qualcuno che, con mani pietose, si premura di metterle la corona tra le dita. Non so se la corona stia bene in mano a tutti i morti: Neda sicuramente ne aveva diritto. A noi che passiamo da un impegno all’altro, la preghiera appare talvolta come una perdita di tempo. Il problema è proprio qui: che la preghiera è una perdita di tempo. Anzi del tempo. È la condizione che ci rende ospiti dell’eterno, che apre un varco nel mondo di Dio. Perché nutriamo così tanti dubbi sulle verità ultime della nostra fede, perché siamo scettici sulla risurrezione e sulla vita eterna, perché il paradiso e l’inferno li abbiamo relegati alla pubblicità? Perché non preghiamo più. E quando cessi di pregare, cessi di vedere l’oltre, cessi di far posto a Dio e alle sue sorprese. L’unico orizzonte diviene quello terreno e siccome non ti basta vai in confusione. Prova a fermarti. Non serve che dici cinquanta avemaria. Dinne una, ma dilla con la fiducia di chi non si rassegna alla prigionia del tempo e cerca il varco fatto di cielo.

2.    La seconda direttrice è quella dell’impegno operoso. Neda era una donna servizievole e disponibile. Undicesima di dodici fratelli, ne aveva assistiti parecchi quando erano diventati anziani. Ma le premure non erano limitate alla sua famiglia. Neda tesseva continuamente i legami di una famiglia più grande fatta di tanta gente cui dava una mano. A Godego lei e il marito erano arrivati da pochi anni. Eppure, ci fosse da fare un’iniezione o prestare un po’ di assistenza, lei c’era.  E lo faceva seminando misericordia e benevolenza, perché non si può fare del bene e diffondere chiacchiere e neppure calcare la mano con chi non si comportava troppo correttamente: «Poaretto, porta pazienza!». Edda aveva la residenza in quella città che scende dal cielo, la Gerusalemme celeste. Che non è un’utopia, ma l’accoglienza di un progetto possibile inaugurato da Gesù risorto. Il progetto di chi percorre le vie del mondo animato dalla carità.

3.    La terza direttrice è quella più impegnativa perché si inerpica sulle salite del Calvario. È quella della malattia che Edda ha vissuto con una fiducia disarmante, anche quando un po’ di domande su Dio e sul suo amore te le saresti fatte. Neda aveva un antico crocifisso in camera, un pezzo d’antiquariato che custodisce un’espressione dolcissima. E quando domenica me la fatto vedere ho capito dove dimorava questa sorella. Era lì, ai piedi della croce. E non ne faceva mistero. Non solo perché nella visibile sofferenza non si lamentava, ma perché apertamente diceva: «Nostro Signor ze morto in croze e se anca mi so cussì lu sa parchè». Qui ci fermiamo. Perché non siamo attrezzati a raggiungere queste vette. È un regalo che Dio fa a qualcuno in qualche momento. Gli altri capiscono fin là e rischiano di dire banalità. Neda ha riconosciuto il Signore anche nella morte di croce. E siccome proprio in quell’ora sta la salvezza cristiana, crediamo che il venerdì santo sia diventato pasqua di risurrezione. La affidiamo al Signore risorto al quale chiediamo di darci almeno un briciolo della fede di questa sorella.  

sabato 24 settembre 2016

Omelia 18 settembre 2016


Venticinquesima domenica del T. O.

Giovani e ricchi. È un programma mandato in onda lunedì sera da Rai 2 in cui quattro rampolli dell’alta società hanno mostrato a chi fa fatica ad uscire per mangiare la pizza come si vive nel lusso sfrenato. E così si vede una protagonista che mostra un guardaroba grande come un monolocale in cui ha sistemato duecentocinquanta paia di scarpe e a una miriade di vestiti di cui una buona parte ancora con l’etichetta e il cartellino del prezzo. Per la cagnolina Tiffany il personal chef prepara un filettino con broccoli. Del resto è un animaletto un po’ viziato. Giò invece ama le auto di lusso e gli oggetti d’oro al punto da far dorare la sua Bentley, un bolide seimila di cilindrata: «Mi è sempre piaciuto stare al centro dell’attenzione». Ecco, in televisione appare di tutto, ma ciò che sconcerta e che quel programma a notte fonda sia stato seguito da quasi un milione di persone. Italiani inebetiti che pagano il canone per raccogliere il distillato di demenza dei protagonisti del programma e di chi l’ha messo in onda.  Fa’ attenzione al sovvertimento della vita e dei suoi valori perché rischi di essere prigioniero di una grande menzogna. L’inganno della ricchezza. Gesù oggi sembra indicarci un’altra strada e l’amministratore scaltro ci insegna a individuarla.

1.    Gesù non sceglie a caso questa figura. Un amministratore. La vita funziona così: veniamo al mondo nudi e così ce ne andiamo, senza portare niente con noi. Quello che possediamo nella vita è solo amministrazione di un patrimonio che ci è affidato. A volte però le cose vanno diversamente e stabiliamo una serie di coincidenze tra ciò che siamo e ciò che abbiamo. Ci pare di valere perché abbiamo costruito una piccola fortuna personale o famigliare e ci pare che gli altri valgano per quello che possiedono, tant’è che diciamo: quello che ha il Porche, quello che ha la fabbrica, quello che ha la casa. Sotterraneamente passa un’idea: sei quello che hai! Come canta Fedez: L'iphone ha preso il posto di una parte del corpo e infatti si fa gara a chi ce l'ha più grosso. A volte questa sovrapposizione diventa così stringente da ossessionarci. E non sono solo i ragazzi con la felpa, le scarpe o il telefono, ma anche noi adulti. Tanto che se vai via con gli amici mica puoi avere una bici qualsiasi. Te ne serve una da seimila euro e allora sei qualcuno e gli altri ti guardano con rispetto. Cose che ci fanno sorridere, ma che qualche volta generano confusioni e sovvertimenti del senso della vita, negli adulti e nei ragazzi.

2.    Altro aspetto che l’amministratore scaltro ci ricorda è che l’amministrazione ad un certo punto finisce. E qualcuno te ne domanda conto. Guarda che non sei eterno e che quello che possiedi lo lasci qua. E guarda che le tue scelte non sono prive di conseguenze. Nella prima lettura Amos denuncia l’ingiustizia di chi mette il Dio denaro sopra ogni rapporto e vende il povero per un paio di sandali. A volte non abbiamo venduto il povero, ma la dignità, i valori che reggono l’esistenza, pensando che fosse unicamente il denaro a darci futuro. Nascondendoci dentro o dietro la crisi, ci siamo dimenticati di investire altrove, di distinguere ciò che passa da ciò che resta. E senza questo sforzo il denaro è diventato padrone: Non potete servire Dio e la ricchezza. In questi giorni, una donna, vedova, mi raccontava la difficile decisione che ha preso all’indomani della morte del marito. Quella di vivere con la sola reversibilità perché per lei era importante continuare a stare accanto a dei figli ancora troppo piccoli perché oltre alla perdita del padre ci fosse l’assenza della madre. Una scelta costosa dal punto di vista economico, ma che sposta il quadro interpretativo dell’esistenza e fa capire che ciò che vale non è solo quello che sottoponi al commercialista. Quando te ne andrai che cosa ricorderanno i tuoi figli di te? Che cosa ricorderà chi ti ha conosciuto?

3.    L’amministratore quando comprende che il tempo è in scadenza, chiama i debitori del padrone e modifica a loro favore i libri contabili. Prendi la tua ricevuta e scrivi cinquanta. È l’unico modo per trovare un’accoglienza in futuro. Conclude Gesù: «Guadagnatevi amici con la disonesta ricchezza, perché vi accolgano nelle dimore eterne». Ecco il punto¨ procurarsi amici che aprano le porte del cielo. Le porte del cielo si aprono per coloro che hanno trovato chiuse le porte della terra. Sono loro l’investimento da attivare. La porta santa della tua vita è un povero che hai aiutato, un profugo cui hai teso la mano, un malato che non hai dimenticato. Questi sono gli amici veri che sorreggono la vita, non quelli che ti circondano quando paghi da bere.

Quale vita accendi? Quale programma continui a vedere? Sta attento a quello che passa nella TV del mondo, perché non si tratta di assistere a una trasmissione ma di tenere in piedi la vita. Oggi e quando qualcuno te ne chiede il conto.


domenica 4 settembre 2016

Omelia 4 settembre 2016


Ventitreesima domenica del T. O.



La figura di Madre Teresa che oggi viene collocata tra i santi della chiesa è certamente quella di un testimone credibile del vangelo. Umiltà, semplicità, coerenza e una carità grandissima sono la forza della sua testimonianza che ha portato la carezza di Dio ai poveri della terra e ha interrogato i potenti del mondo. Che significa essere testimoni di Gesù? Proprio Gesù oggi ci indica alcune direttrici.

1.    Attenzione alle apparenti appartenenze. C’è parecchia gente attratta da Gesù. Lui anziché mostrare compiacimento, si volta e pone delle condizioni. Se. Il cristianesimo non si regge sulla forza dei numeri ma sull’accoglienza e sulla coerenza di una proposta. Tutti hanno accesso al Signore, nessuno escluso, ma il suo vangelo non ammette ambiguità. Lui si volta, indica un cammino da percorrere e non una festina in cui divertirsi. Fino a che punto sei disposto a giocarti? E il monito vale per tutti. Sabato sera un gruppo di ragazzi sulla strada verso Poggiana cantava in bicicletta. Niente di male fin qua. Peccato che cantasse bestemmie. Bestemmie come quelle che affollano luoghi di lavoro, campi sportivi, conversazioni al ristorante. E poi ce la prendiamo con i musulmani che arrivano in Italia e minacciano il nostro patrimonio cristiano. La minaccia più grande al cristianesimo è il cristianesimo stesso, quando viene edulcorato, svigorito, tradito da assetti religiosi che del vangelo non hanno più neanche il nome.

2.    Altra questione: gli amori della vita. Dice Gesù: Se uno viene a me e non mi ama di più… non può essere mio discepolo. Gesù non vuole mettere in contrapposizione gli amori della vita, ma vuole aprirli a una dimensione più grande, una misura che gli appartiene: fa’ in modo che in ogni amore risplenda il mio! Mentre ami tuo padre, tua madre, tuo figlio, tua moglie… cerca l’amore che viene da Dio. A volte ho l’impressione che alcuni amori famigliari abbiano perso di vista l’amore di Gesù. Ad esempio: nasce un figlio e due genitori sperimentano una bellezza d’amore che prima non conoscevano. Mentre accarezzano il loro bambino è come se sulla terra scendesse l’abbraccio di Dio. Ma può capitare che il loro amore si affievolisca, che l’intimità tra loro cominci a sparire, che l’altro inizi ad essere quasi fastidioso. E così l’amore per il figlio diviene totalizzante e inghiotte l’amore per il coniuge. Non è più l’amore di Dio, non è più il suo progetto. Così anche quando l’amore si concentra unicamente sulla propria famiglia e ti fa perdere di vista la comunità in cui vivi, la società, il mondo. La famiglia è un segno con cui Dio intende dire agli uomini che con tutti loro vuole formare una famiglia. Ma se tu perdi di vista questo respiro universale, l’amore soffoca. Lavori una vita intera per i figli, magari anche per far loro una casa vicina alla tua. E poi i tuoi figli ti salutano. Perché? Perché non era amore, ma sequestro di persona. Mai fare la casa ai fili. Sono i figli che si fanno la loro casa!

3.    Infine il discepolo di Gesù è un uomo di calcolo e di previsione. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa? Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare l’esercito? Cerca di valutare, dice Gesù quello che stai facendo e quello che sta succedendo. Perché tu non venga travolto. Pensate ad un dibattito rovente che sta accompagnando questi giorni: il fertility day programmato dal ministero della salute per il 22 settembre. Un modo con cui chi ci governa vorrebbe farci riflettere su alcune problematiche, mediche e culturali, legate alla possibilità di avere un figlio. Le reazioni: qualcuno se la prende con i cartelloni pubblicitari, perché non è certo uno slogan che ti porta a fare un figlio. Altri sostengono che sarebbe più intelligente creare condizioni strutturali per favorire gestazione e maternità: orari di lavoro adeguati, sgravi, asili, spazi per giocare. Altri ancora segnalano gli spettri dell’inverno demografico: se su mille abitanti in un paese come l’Uganda nascono una quarantina di bambini, in Italia ne nascono otto. A noi non interessa la polemica. Non possiamo però ignorare l’importanza della questione, anche a motivo del fatto che a volte non ci sono solo aspetti strutturali che impediscono la nascita di un bambino. A volte c’è un mito di perenne giovinezza che trascura l’orologio biologico e pretende risultati in un delirio di onnipotenza, a volte c’è una cultura della realizzazione dove conta di più essere manager che essere madre, a volte c’è una limitazione di prospettive dimentica che il regalo più bello da fare ad un figlio è quello di un fratello. Pensare un po’ a queste cose forse non ci fa male. Vuoi costruire che cosa? Una torre o un castello di carte? Vita cristiana vuol dire anche serietà di chi non si racconta balle e sta in piedi di fronte alla vita e a quello che capita. Che cosa tenere, a che cosa rinunciare?

I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni. Gesù ci invita a riflettere con la sua sapienza. Le strade della verità sono a volte un  po’ in salita, ma con un po’ di ascesa si vede meglio.






lunedì 29 agosto 2016

Omelia 28 agosto 2016


Ventiduesima domenica del tempo ordinario

Il Gran Premio riparte dal Belgio e Kimi Raikkonen parlando del circuito di Spa-Francorchamps ha detto: «Possiamo fare una buona gara. Qui si può sorpassare». Non è che forse questo è proprio il mito che inseguiamo? Sorpassare: in strada, negli ambienti di lavoro, nelle tante circostanze in cui la vita ci mette in fila. Ci infastidisce addirittura che le mamme con i bambini abbiano una corsia privilegiata nella prenotazione degli esami clinici: io ero arrivato prima!

A volte però scopriamo che la nostra velocità non serve e che su alcune strade i sorpassi sono impossibili. Anzi, a volte non ci sono neppure le strade!

Quello che è capitato ad Amatrice in questi giorni ce lo fa capire: un terremoto che velocemente ha spazzato via la vita di quasi trecento persone, ha distrutto case, ha rubato speranze.

Questi eventi portano con sé la grande domanda su Dio: dov’è quando succedono queste vicende? Ma, come osservava il vescovo di Ascoli, forse c’è anche un’altra domanda che più realisticamente possiamo farci: dov’è l’uomo? E non solo per le responsabilità in fatto di sicurezze e prevenzione antisismica, ma anche per il senso che attribuiamo alla vita, ai nostri giorni, alla natura e ai beni che possediamo. A volte dimentichiamo i limiti che ci appartengono e viviamo in un delirio di onnipotenza come se le nostre sgommate ci rendessero invincibili. Figlio – diceva il Siracide - quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Gesù oggi vuole restituirci alle corrette misure dell’esistenza e l’occasione è un banchetto in cui egli registra una spasmodica volontà di sorpasso: Notando come gli invitati sceglievano i primi posti. La voglia di apparire, di emergere, di scalare le classifiche sociali e professionali per poter affermare se stessi. Sta attento perché, anche se non arriva il terremoto di Amatrice, il terreno in cui costruisci può essere insidioso, specie se è il sorpasso a condurre la tua vita.

Cosa suggerisce Gesù?

1.    Quando sei invitato a nozze. Ecco lo sfondo dell’esistenza che Dio ha in mente: un banchetto nuziale. È quello che lui ha imbandito con l’umanità regalandoci il suo Figlio ed è quello a cui vorrebbe che partecipassimo. A volte la nostra esistenza traballa perché ci siamo dimenticati di questa festa e ci serviamo reciprocamente i bocconi avvelenati della nostra cattiveria. L’altro mi ha tradito: non ho rotto il matrimonio ma non ho neppure accolto il suo pentimento. E gli somministro dosi costanti di perfidia, di volgarità, di meschinità, di violenza con l’esatto intento di fargliela pagare. “Voglio che senta tutto il male che mi ha fatto”. E uso attentamente i bambini per tenere in prigione la mia vittima, senza considerare che anche per i bambini la vita sta diventando un inferno. In questi casi è meglio la separazione. Ecco il terremoto che ci travolge: distruggere la festa e lasciare che qualcuno lo faccia. Abbiamo dimenticato le nozze!

2.    Altro consiglio per reggere il terremoto. Non metterti al primo posto. Gesù non ci invita a fuggire le responsabilità ma ad allontanarci dalla spasmodica ricerca di visibilità e di considerazione: “Che bravo che sei!”. Perché? Non perché la gratificazione non sia importante, ma perché rischi di legare la tua identità, la tua verità e consistenza al giudizio degli altri. Una ricerca di rassicurazione che alla fine ti trasforma in un mendicante di affetto, di stima, di riconoscimento. Pensate a tutte le volte che cambiamo l’immagine di profilo su Fb o inseriamo le nostre foto contando i like che arrivano. E se non arrivano, che succede? Tu vali di meno? È un problema di legittimazione sociale che oggi riguarda gli acquisti che facciamo, i locali che frequentiamo, i programmi che seguiamo dove si stabilisce una sorta di linea di demarcazione tra chi vale e chi non vale, tra fighi e sfigati. Come ha detto una ragazzina di seconda media a un’animatrice al campo: «Mi sembri tanto normale». Certo, perché se tua madre ti dà dietro fard e maskara da usare al campo, io preferisco essere normale! Sta attento a ciò che questa società indica come il top, perché l’occhio di bue che prima o poi illumina la tua vita, si sposta altrove. E allora: o hai una luce interiore o resti al buio. Vai all’ultimo posto: fai vedere che vali perché sei e non perché ci fai.

3.     Infine: Quando fai un pranzo non invitare quelli che ti invitano. Se vuoi reggere nella vita devi trovare nuovi equilibri non dettati da tornaconti troppo statici. Pensate proprio al terremoto: oltre la tragedia ci sta facendo capire che c’è una grande risorsa che appartiene al nostro Paese: quella della solidarietà. Ecco il nuovo equilibrio che ti permette di stare in piedi su una base più ampia del tuo personale benessere, di quello della tua famiglia, di amici e conoscenti. Prova a investire in questa direzione e scoprirai che quel sentimento reca con sé una nuova ricompensa, quella del Regno dei cieli, dove il terremoto non arriva. Non ci sono solo gli equilibri terreni: è il cielo che regge la terra.

Gli eventi di questi giorni ci mettono alla prova: ma abbiamo capito che non si tratta solo di scosse telluriche. E’ della nostra vita che ancora una volta ci viene chiesto conto, per renderla più solida e più credibile.

venerdì 26 agosto 2016

Omelia Bertilla Bobbato


Bertilla Milani ved. Bobbato (23 ago 2016)

1Tess 4,13-18 – Lc 2, 36-38

C'era anche una profetessa, Anna, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno.

La descrizione della profetessa Anna richiama molto il profilo di Bertilla, non solo per la vedovanza e la corrispondenza anagrafica, ma anche perché entrambe non si allontanavano mai dal tempio. Bertilla aveva sposato Mario Bobbato, sacrestano della chiesa parrocchiale, ben sapendo che tale servizio avrebbe segnato non poco la sua vita e la famiglia che si andava costituendo. Ma questo non era un problema, anzi: diventava una missione dove lavoro, fede, famiglia, parrocchia erano un orizzonte che non conosceva interruzioni. E ben lo si capiva quando Bertilla, in questi ultimi anni, facendo del deambulatore un normale mezzo di trasporto, entrava e usciva di casa e di chiesa senza soluzione di continuità e teneva tutto sotto controllo, magari chiamando anche il parroco, non importa a che ora, per dire che qualche luce era rimasta accesa...

Che cosa ci racconta questa sorella con la sua vita? Ci racconta la vicenda di una parrocchia, sua e nostra, una parrocchia fatta di mattoni, di volti, di fede.

1.    La prima parrocchia è quella dei mattoni che danno forma a questo edificio. Mattoni che Bertilla aveva visto posare finché, nel 1956, era stata inaugurata la nuova chiesa. E, accanto al giovane sacrestano che con orgoglio custodiva, puliva e ornava il tempio in un servizio che non conosceva né riposo né ferie, c’era anche Bertilla: la chiesa in un certo senso era un’estensione della loro dimora, tanto che mentre essi erano affaccendati tra banchi da spolverare e fiori da assestare, i loro figli rimuovevano la cera dai portacandele o scorrazzavano con il triciclo da un capo all’altro della navata. È bello questo legame tra la chiesa e la casa, perché oggi qualche volta ci illudiamo di poter sostituire le murature ecclesiali con un assetto cristiano più disinvolto che trascura la realtà dell’uomo e la verità dell’incarnazione. Abbiamo bisogno di una casa perché l’uomo trova se stesso in spazi ben precisi che raccontano la sua vita. E abbiamo bisogno di una casa perché Dio stesso ha abitato le case degli uomini e in esse ha dato loro appuntamento. La casa di Nazaret, la casa di Pietro, la casa con quella stanza al piano superiore dove mangia l’ultima cena. Bertilla oggi ci restituisce questo luogo perché in esso c’è buona parte della nostra storia e la possibilità di rinnovare un incontro con Dio che ama raggiungerci anche attraverso i mattoni degli uomini.

2.    Ma le pietre degli edifici cristiani alludono ad una costruzione ben più importante: quella della pietre vive. La parrocchia è fatta non tanto di muri, ma di volti, di mani che si incontrano e si stringono, di relazioni. E Bertilla ci teneva moltissimo. Mentre Mario era piuttosto riservato, lei era più espansiva, facile al contatto, desiderosa di stabilire rapporti. E così, se qualcuno arrivava in paese, lei cercava di orientarlo, chi aveva bisogno d’aiuto poteva contare su un discreto emporio che Bertilla gestiva a suo modo, organizzando i sacchi del vestiario giunti fuori tempo massimo, quando c’erano le raccolte missionarie. E prima che sulla porta della sacrestia apparisse la scritta “kinder”, il “kinder” era Bertilla stessa che soccorreva mamme e papà i cui figli preferivano stare sul sagrato piuttosto che in chiesa: «Ndè messo voaltri chel ceo sta qua co mi». E li faceva giocare a casa sua. Scene oggi impensabili, ma che ci aiutano a ricordare che una parrocchia è la possibilità di pensare ad una famiglia più grande: di figli e di fratelli, di gente che si vuole bene. Un insegnamento importante, non sempre compreso da questa nostra società che vorrebbe chiuderci in un individualismo presuntuoso e autosufficiente. La chiesa nel mondo ci sta come segno di una comunione che Dio vuole realizzare tra tutti gli uomini e Bertilla ce l’ha ricordato.

3.    Infine la parrocchia è una vicenda di fede, di interiorità, di adesione a Dio. Per Bertilla la parrocchia non sostituiva il Signore, ma era l’occasione per incontrarlo. In particolare nella messa. Era il suo punto di riferimento, tanto che anche in questi ultimi tempi quando con la testa non sempre c’era, ti diceva convinta: «Par fortuna so za ndata messa stamatina». E la sua preoccupazione era che ci andassero anche gli altri: «Sito ndato messa oncò?». A che ci serve la messa? A volte trascuriamo questo appuntamento dimenticando che esso ci consegna l’orizzonte più grande che possiamo incontrare: quello della risurrezione. È come se la fragile imbarcazione dell’esistenza fosse sottratta alle secche in cui la storia a volte si incaglia e prendesse il largo verso l’eterno. Non andiamo a messa perché siamo più bravi degli altri ma perché ci stanno a cuore i confini della vita, perché crediamo che l’oscura prospettiva della morte è stata cancellata dal Signore della Vita: Non vogliamo lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affiggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Cristo Gesù sia risuscitato. Alla risurrezione del Signore affidiamo anche Bertilla, perché la fede e la speranza che l’hanno accompagnata in questa vita siano ora per lei la gioia dell’eterno e per noi l’invito a custodire una preziosa eredità, a raccoglierne i frutti, a reimpiegarla sulle strade del nostro quotidiano.  

sabato 13 agosto 2016

Omelia 14 agosto 2016


Ventesima domenica del Tempo Ordinario



Leonardo Sciascia, scrittore siciliano che conosceva bene il vangelo, pur con posizioni lontane dalla chiesa, scrive ad un certo punto: «Io mi aspetto che i cristiani qualche volta accarezzino il mondo in contropelo». È un commento significativo alle parole di Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra». Non il fuoco della violenza, della guerra, del terrore che colpisce gli innocenti. Ma il fuoco dell’audacia, dell’opposizione al male, di chi non si lascia sottomettere da sistemi iniqui che cancellano la verità e con essa gli uomini. Un cristianesimo che non asseconda il pelo delle mode, il politically correct, ma si pone come elemento di critica, di distanza e, se occorre, di rottura. In che modo? Le letture ci suggeriscono tre ambiti di osservazione.



1.    La resistenza in famiglia. «D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre». Il cristianesimo qualche volta può chiedere di discostarsi da alcune logiche, anche se interessano i legami più sacri, anche quelli famigliari. A Finale Ligure, nei giorni scorsi, una madre ha denunciato il proprio figlio diciassettenne perché ha scoperto che nascondeva marijuana in dosi idonee allo spaccio o al consumo di gruppo. Madre coraggiosa. Ma non sempre è così: le forze dell’ordine dicono che quando qualche ragazzo viene identificato per il possesso di sostanze, molto spesso i genitori intervengono per proteggere il figlio, addirittura prendendosela con gli agenti, colpevoli – a detta loro - di non andare ad arrestare i criminali veri. E così la gravità di una situazione viene annacquata in un garantismo che sottrae l’uomo alle sue responsabilità. Un figlio cresce quando lo poni di fronte alle proprie respon-sabilità non quando lo sottrai. Ci sono altre distanze salutari che dobbiamo stabilire a casa nostra? Una ragazza al campo mi ha raccontato di aver detto ai suoi genitori che non accettava il divieto di recarsi dai nonni. La risposta: «Sei troppo piccola per capire». «È così?», le ho chiesto. «Ho capito che non vogliono chiedersi scusa». A volte invece i piccoli capiscono e i grandi, proprio perché sono grandi, presumono di non avere più nulla da capire. Qui devi prendere distanze, aiutando a ritrovare il vangelo, mantenendo le rotte della verità e non il zigzag dei tuoi compromessi.



2.    La tenacia sulla pubblica scena. Abbiamo ascoltato nella prima lettura la vicenda di Geremia, profeta perseguitato che viene gettato in una cisterna perché annuncia una parola scomoda: Scoraggia il popolo! In realtà Geremia sta dicendo a chi era rimasto a Gerusalemme che sarebbe finito in esilio come gli altri deportati, dato che l’infedeltà ancora regnava in Israele. Parole che disturbano e che decretano la condanna del profeta. Anche i cristiani disturbano, altrimenti non sono cristiani. Adozioni dei minori: l’Organismo unitario dell’avvocatura, realtà giuridica che dovrebbe rappre-sentare tutti gli avvocati italiani ha preso posizione presso la Commissione giustizia della Camera perché una nuova legislazione preveda l’apertura delle adozioni anche a single e coppie omosessuali. E così al 'supremo interesse' del minore ad avere un papà e una mamma, si sostituisce il 'supremo diritto' degli adulti ad avere un bambino per soddisfare il loro desiderio di genitorialità. Una scelta che si adegua alla mentalità dominante in cui però i primi a reagire sono stati gli avvocati, per niente consultati dalla loro organizzazione, in una questione di simile portata. Oggi noi siamo succubi di una mentalità basata sul politically correct che modifica in maniera il nostro patrimonio genetico senza che ce ne accorgiamo. Anzi sembra che la denuncia sia contro il popolo, contro la libertà, la felicità e la democrazia. Ma la libertà è per tutti, anche per un bambino che forse riceve un po’ di più da un padre e da una madre che da due uomini o da due donne. E il vangelo è sempre dalla parte dei piccoli.



3.    La testimonianza nella comunità. Ce lo diceva la seconda lettura: circondati da una moltitudine di testimoni. A volte le cose non cambiano perché abbiamo l’impressione di essere da soli. Guardati intorno, forse c’è qualcun altro che accarezza il mondo in contropelo. Inserisciti nella rete della testimonianza, guarda che non sei da solo. Papa Francesco ha incontrato a sorpresa, nell'ambito dei “venerdì della Misericordia”, venti donne che sono state liberate dalla schiavitù del racket della prostituzione, ospiti della struttura romana della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. Forse c’è qualcuno che lotta per un mondo diverso: prova a vedere se c’è una rivista, un’associazione, un contatto che ti convinca che il mondo di Dio è possibile.

Forse non sarà il mondo che riscuoterà gli applausi del web, ma sarà più vivibile e vero.


Omelia 7 agosto 2016


Diciannovesima domenica del T. O.



Abbiamo visto l’accensione della fiamma olimpica, un simbolo che vorrebbe ricordarci una dimensione differente dello sport, più grande di quella degli scandali che qualche volta lo caratterizzano o del denaro che sembra ingoiarlo. Fa’ che lo sport risplenda in maniera nuova, che diventi incontro, ricerca di una meta cui tendere, capacità di sorprendere il mondo per quello che sai raggiungere con la tua determinazione, il tuo allenamento, la tua costanza.

Anche Gesù vangelo di oggi ci parla di luce: Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese. Si può vivere un’esistenza travolti dalle cose e dalle situazioni e si può vivere cercando di illuminare quello che avviene, di cercarne il senso. Quale luce ci affida il Signore, cosa vuole che impariamo a vedere?



1.    Osserva i confini della vita e a chi appartengono. Siate simili a coloro che attendono il padrone quando arriva e bussa. Ecco, a volte noi ci dimentichiamo che la nostra vita appartiene a qualcuno e viviamo con una pretesa di onnipotenza come se in questo mondo dovessimo vivere in eterno. Abbiamo visto nei giorni scorsi la vicenda di quel diciannovenne di Martellago stroncato da un cocktail letale di alcol e droga assunto durante un rave party sul Tagliamento. Sentite cosa scriveva La Tribuna il giorno dopo: È scattata la caccia al pusher: chi ha ceduto al giovane la sostanza fatale? Era forse stata tagliata male? La posizione dello spacciatore, qualora fosse individuato, potrebbe in tal caso aggravarsi. Quando capitano vicende del genere la grande preoccupazione è quella di cercare il colpevole, chi ha venduto la morte, assicurandolo alla giustizia. Ma raramente ci chiediamo che vita cerchiamo e stiamo suggerendo. Anzi, ce ne guardiamo bene, specialmente quando queste domande toccano gli interessi del divertimento, di un’industria che fa da padrona sulla vita dei giovani, che si accaparra fette di parlamento cercando di convincere gli italiani che la legalizzazione delle sostanze sia il modo per sconfiggerle nonostante tutte le comunità terapeutiche denuncino tale follia. Beati quei servi che al suo ritorno troverà ancora svegli. Stai attento alla tua vita, a chi vende fumo, perché quando lo compri sei già stato narcotizzato. Il padrone è un altro.



2.    Smetti di pensare solo a te stesso. Gesù descrive un servo che ad un certo punto pensa solo a se stesso, a mangiar, bere e ubriacarsi. Gli altri servono unicamente per assecondare tale sistema, addirittura con le percosse. Il padrone, assicura Gesù, lo punirà con rigore, assegnandogli la sorte degli infedeli. La tua vita è luminosa quando sai uscire da te stesso e stabilire corrette relazioni. Nei giorni scorsi è uscito un importante documentario di Erik Gandini: La teoria svedese dell’amore. La Svezia è il Paese conosciuto da tutto il mondo per avere una società perfettamente organizzata, basata sull’autonomia delle persone. Gli esiti di questa “autonomia istituzionalizzata”, in cui nessuno deve chiedere agli altri favori o aiuti, sono che quasi metà della popolazione abita oggi in appartamenti singoli e sempre più donne scelgono di affrontare la maternità attraverso l’inseminazione artificiale. Eppure questo modello non convince molti giovani che stanno ritornando a fare comunità nei boschi per riappropriarsi della vita insieme. La tua vita è luminosa se qualcun altro la abita, se qualcuno ti appartiene e se tu appartieni a qualcuno. E forse noi italiani così attratti da alcuni miti del Nord-Europa che ci sembrano il futuro, dovremmo rivalutare alcune esperienze famigliari, senza lasciarcele rubare da una sorta di complesso di inferiorità che ci priva del tesoro più bello che abbiamo: la relazione con l’altro.



3.    Accogli l’imprevisto. Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. La tua vita è con la lampada accesa se ogni tanto metti da parte l’orologio della tua programmazione e fai posto all’inatteso. È quello che sperimentano i nostri ragazzi al campo, specie quelli che hanno fatto fatica ad aderirvi. Il campo rivela qualcosa che non pensavi e di cui anzi avevi paura. La stessa scoperta non appartiene sempre a noi adulti che non ci fidiamo, che diciamo che sarebbe bello poter andare in casa alpina come i figli, ma poi di fatto alla proposta aderiscono solo tre famiglie. Fidati un po’ di più del Signore e degli appuntamenti che ti può riservare! Le iniziative che ti vengono proposte, le collaborazioni che ti vengono chieste, negli eventi che la vita ti riserva: forze c’è un’opportunità. E così si impara ad aver fiducia, anche nell’appuntamento ultimo con Dio che cesserà di impaurirti e ti raggiugerà come una sorpresa. Anche quella di un Dio che non ti aspetta per consegnarti al buio, ma per accoglierti a tavola e servirti lui stesso, di quella comunione nella quale accoglie tutti i suoi figli.



Ecco l’olimpiade cristiana. Non serve andare a Rio, ma giocarsi giorno per giorno, illuminando il presente con il vangelo, attendendo con speranza il futuro.