venerdì 26 agosto 2016

Omelia Bertilla Bobbato


Bertilla Milani ved. Bobbato (23 ago 2016)

1Tess 4,13-18 – Lc 2, 36-38

C'era anche una profetessa, Anna, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno.

La descrizione della profetessa Anna richiama molto il profilo di Bertilla, non solo per la vedovanza e la corrispondenza anagrafica, ma anche perché entrambe non si allontanavano mai dal tempio. Bertilla aveva sposato Mario Bobbato, sacrestano della chiesa parrocchiale, ben sapendo che tale servizio avrebbe segnato non poco la sua vita e la famiglia che si andava costituendo. Ma questo non era un problema, anzi: diventava una missione dove lavoro, fede, famiglia, parrocchia erano un orizzonte che non conosceva interruzioni. E ben lo si capiva quando Bertilla, in questi ultimi anni, facendo del deambulatore un normale mezzo di trasporto, entrava e usciva di casa e di chiesa senza soluzione di continuità e teneva tutto sotto controllo, magari chiamando anche il parroco, non importa a che ora, per dire che qualche luce era rimasta accesa...

Che cosa ci racconta questa sorella con la sua vita? Ci racconta la vicenda di una parrocchia, sua e nostra, una parrocchia fatta di mattoni, di volti, di fede.

1.    La prima parrocchia è quella dei mattoni che danno forma a questo edificio. Mattoni che Bertilla aveva visto posare finché, nel 1956, era stata inaugurata la nuova chiesa. E, accanto al giovane sacrestano che con orgoglio custodiva, puliva e ornava il tempio in un servizio che non conosceva né riposo né ferie, c’era anche Bertilla: la chiesa in un certo senso era un’estensione della loro dimora, tanto che mentre essi erano affaccendati tra banchi da spolverare e fiori da assestare, i loro figli rimuovevano la cera dai portacandele o scorrazzavano con il triciclo da un capo all’altro della navata. È bello questo legame tra la chiesa e la casa, perché oggi qualche volta ci illudiamo di poter sostituire le murature ecclesiali con un assetto cristiano più disinvolto che trascura la realtà dell’uomo e la verità dell’incarnazione. Abbiamo bisogno di una casa perché l’uomo trova se stesso in spazi ben precisi che raccontano la sua vita. E abbiamo bisogno di una casa perché Dio stesso ha abitato le case degli uomini e in esse ha dato loro appuntamento. La casa di Nazaret, la casa di Pietro, la casa con quella stanza al piano superiore dove mangia l’ultima cena. Bertilla oggi ci restituisce questo luogo perché in esso c’è buona parte della nostra storia e la possibilità di rinnovare un incontro con Dio che ama raggiungerci anche attraverso i mattoni degli uomini.

2.    Ma le pietre degli edifici cristiani alludono ad una costruzione ben più importante: quella della pietre vive. La parrocchia è fatta non tanto di muri, ma di volti, di mani che si incontrano e si stringono, di relazioni. E Bertilla ci teneva moltissimo. Mentre Mario era piuttosto riservato, lei era più espansiva, facile al contatto, desiderosa di stabilire rapporti. E così, se qualcuno arrivava in paese, lei cercava di orientarlo, chi aveva bisogno d’aiuto poteva contare su un discreto emporio che Bertilla gestiva a suo modo, organizzando i sacchi del vestiario giunti fuori tempo massimo, quando c’erano le raccolte missionarie. E prima che sulla porta della sacrestia apparisse la scritta “kinder”, il “kinder” era Bertilla stessa che soccorreva mamme e papà i cui figli preferivano stare sul sagrato piuttosto che in chiesa: «Ndè messo voaltri chel ceo sta qua co mi». E li faceva giocare a casa sua. Scene oggi impensabili, ma che ci aiutano a ricordare che una parrocchia è la possibilità di pensare ad una famiglia più grande: di figli e di fratelli, di gente che si vuole bene. Un insegnamento importante, non sempre compreso da questa nostra società che vorrebbe chiuderci in un individualismo presuntuoso e autosufficiente. La chiesa nel mondo ci sta come segno di una comunione che Dio vuole realizzare tra tutti gli uomini e Bertilla ce l’ha ricordato.

3.    Infine la parrocchia è una vicenda di fede, di interiorità, di adesione a Dio. Per Bertilla la parrocchia non sostituiva il Signore, ma era l’occasione per incontrarlo. In particolare nella messa. Era il suo punto di riferimento, tanto che anche in questi ultimi tempi quando con la testa non sempre c’era, ti diceva convinta: «Par fortuna so za ndata messa stamatina». E la sua preoccupazione era che ci andassero anche gli altri: «Sito ndato messa oncò?». A che ci serve la messa? A volte trascuriamo questo appuntamento dimenticando che esso ci consegna l’orizzonte più grande che possiamo incontrare: quello della risurrezione. È come se la fragile imbarcazione dell’esistenza fosse sottratta alle secche in cui la storia a volte si incaglia e prendesse il largo verso l’eterno. Non andiamo a messa perché siamo più bravi degli altri ma perché ci stanno a cuore i confini della vita, perché crediamo che l’oscura prospettiva della morte è stata cancellata dal Signore della Vita: Non vogliamo lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affiggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Cristo Gesù sia risuscitato. Alla risurrezione del Signore affidiamo anche Bertilla, perché la fede e la speranza che l’hanno accompagnata in questa vita siano ora per lei la gioia dell’eterno e per noi l’invito a custodire una preziosa eredità, a raccoglierne i frutti, a reimpiegarla sulle strade del nostro quotidiano.  

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