Bertilla Milani ved. Bobbato (23 ago 2016)
1Tess 4,13-18 – Lc 2, 36-38
C'era
anche una profetessa, Anna, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età,
aveva vissuto con il marito, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro
anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno.
La descrizione
della profetessa Anna richiama molto il profilo di Bertilla, non solo per la
vedovanza e la corrispondenza anagrafica, ma anche perché entrambe non si
allontanavano mai dal tempio. Bertilla aveva sposato Mario Bobbato, sacrestano
della chiesa parrocchiale, ben sapendo che tale servizio avrebbe segnato non
poco la sua vita e la famiglia che si andava costituendo. Ma questo non era un
problema, anzi: diventava una missione dove lavoro, fede, famiglia, parrocchia
erano un orizzonte che non conosceva interruzioni. E ben lo si capiva quando
Bertilla, in questi ultimi anni, facendo del deambulatore un normale mezzo di
trasporto, entrava e usciva di casa e di chiesa senza soluzione di continuità e
teneva tutto sotto controllo, magari chiamando anche il parroco, non importa a
che ora, per dire che qualche luce era rimasta accesa...
Che cosa ci
racconta questa sorella con la sua vita? Ci racconta la vicenda di una parrocchia,
sua e nostra, una parrocchia fatta di mattoni, di volti, di fede.
1. La
prima parrocchia è quella dei mattoni
che danno forma a questo edificio. Mattoni che Bertilla aveva visto posare finché,
nel 1956, era stata inaugurata la nuova chiesa. E, accanto al giovane
sacrestano che con orgoglio custodiva, puliva e ornava il tempio in un servizio
che non conosceva né riposo né ferie, c’era anche Bertilla: la chiesa in un
certo senso era un’estensione della loro dimora, tanto che mentre essi erano
affaccendati tra banchi da spolverare e fiori da assestare, i loro figli rimuovevano
la cera dai portacandele o scorrazzavano con il triciclo da un capo all’altro
della navata. È bello questo legame tra la chiesa e la casa, perché oggi
qualche volta ci illudiamo di poter sostituire le murature ecclesiali con un
assetto cristiano più disinvolto che trascura la realtà dell’uomo e la verità
dell’incarnazione. Abbiamo bisogno di una casa perché l’uomo trova se stesso in
spazi ben precisi che raccontano la sua vita. E abbiamo bisogno di una casa
perché Dio stesso ha abitato le case degli uomini e in esse ha dato loro
appuntamento. La casa di Nazaret, la casa di Pietro, la casa con quella stanza
al piano superiore dove mangia l’ultima cena. Bertilla oggi ci restituisce
questo luogo perché in esso c’è buona parte della nostra storia e la
possibilità di rinnovare un incontro con Dio che ama raggiungerci anche
attraverso i mattoni degli uomini.
2. Ma
le pietre degli edifici cristiani alludono ad una costruzione ben più importante:
quella della pietre vive. La parrocchia
è fatta non tanto di muri, ma di volti, di mani che si incontrano e si
stringono, di relazioni. E Bertilla ci teneva moltissimo. Mentre Mario era
piuttosto riservato, lei era più espansiva, facile al contatto, desiderosa di
stabilire rapporti. E così, se qualcuno arrivava in paese, lei cercava di orientarlo,
chi aveva bisogno d’aiuto poteva contare su un discreto emporio che Bertilla
gestiva a suo modo, organizzando i sacchi del vestiario giunti fuori tempo massimo,
quando c’erano le raccolte missionarie. E prima che sulla porta della sacrestia
apparisse la scritta “kinder”, il “kinder” era Bertilla stessa che soccorreva
mamme e papà i cui figli preferivano stare sul sagrato piuttosto che in chiesa:
«Ndè messo voaltri chel ceo sta qua co
mi». E li faceva giocare a casa sua. Scene oggi impensabili, ma che ci
aiutano a ricordare che una parrocchia è la possibilità di pensare ad una
famiglia più grande: di figli e di fratelli, di gente che si vuole bene. Un insegnamento
importante, non sempre compreso da questa nostra società che vorrebbe chiuderci
in un individualismo presuntuoso e autosufficiente. La chiesa nel mondo ci sta
come segno di una comunione che Dio vuole realizzare tra tutti gli uomini e
Bertilla ce l’ha ricordato.
3. Infine
la parrocchia è una vicenda di fede,
di interiorità, di adesione a Dio. Per Bertilla la parrocchia non sostituiva il
Signore, ma era l’occasione per incontrarlo. In particolare nella messa. Era il
suo punto di riferimento, tanto che anche in questi ultimi tempi quando con la
testa non sempre c’era, ti diceva convinta: «Par
fortuna so za ndata messa stamatina». E la sua preoccupazione era che ci
andassero anche gli altri: «Sito ndato
messa oncò?». A che ci serve la messa? A volte trascuriamo questo
appuntamento dimenticando che esso ci consegna l’orizzonte più grande che
possiamo incontrare: quello della risurrezione. È come se la fragile imbarcazione
dell’esistenza fosse sottratta alle secche in cui la storia a volte si incaglia
e prendesse il largo verso l’eterno. Non andiamo a messa perché siamo più bravi
degli altri ma perché ci stanno a cuore i confini della vita, perché crediamo
che l’oscura prospettiva della morte è stata cancellata dal Signore della Vita:
Non
vogliamo lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti,
perché non continuiate ad affiggervi come gli altri che non hanno speranza.
Noi crediamo infatti che Cristo Gesù sia risuscitato. Alla risurrezione del
Signore affidiamo anche Bertilla, perché la fede e la speranza che l’hanno
accompagnata in questa vita siano ora per lei la gioia dell’eterno e per noi l’invito
a custodire una preziosa eredità, a raccoglierne i frutti, a reimpiegarla sulle
strade del nostro quotidiano.
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