Neda
Volpato in Baù (27 settembre 2016)
Ap
21,1-7 - Lc 2,22,32
Un prete incrocia molte situazioni credenti:
fede accesa, fede tiepida, fede ribelle, fede spenta. Neda è una delle
situazioni in cui il prete fa i conti con la propria fede e si rende conto di essere
preso parecchio indietro. Perché quando domenica pomeriggio sono stato a
celebrare l’unzione degli infermi in casa di Neda, l’accoglienza era quella
delle grandi occasioni e per lei non c’era niente di meglio, in quel momento,
che poter accogliere il Signore e stare con lui. E mi è venuto spontaneo ad un
certo punto, tra letture e preghiere, chiederle: «Neda, vuole dire lei ora
qualcosa?». E senza alcun imbarazzo ha cominciato a dire che quel momento era
quanto di più bello le potesse capitare, che era contenta di quel regalo e che
era contenta che accanto a lei ci fossero tutti i suoi famigliari. Noi avevamo
il nodo in gola, ma lei sorrideva e sembrava che i suoi occhi vedessero di
più dei nostri. Ecco, Neda mi fa venire in mente il vecchio Simeone: Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada
in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza. La fede è questa:
vedere oltre i limiti del mondo, degli eventi, di quello che capiamo e di
quello che ci sembra possibile. È vedere Dio anche nelle situazioni
impensabili, anche nell’esperienza della malattia.
E questo cammino non si improvvisa: ha
bisogno di pazienza, di attesa, di lungimiranza che Neda ha praticato per
tutta la vita. Come? Ci sono tre direttrici credenti che Neda ci lascia in
eredità.
1. La
prima è la preghiera. Neda era una
donna che pregava e ogni giorno macinava almeno un paio di rosari. Quando una
persona ci lascia c’è spesso qualcuno che, con mani pietose, si premura di
metterle la corona tra le dita. Non so se la corona stia bene in mano a tutti i
morti: Neda sicuramente ne aveva diritto. A noi che passiamo da un impegno
all’altro, la preghiera appare talvolta come una perdita di tempo. Il problema
è proprio qui: che la preghiera è una
perdita di tempo. Anzi del tempo. È
la condizione che ci rende ospiti dell’eterno, che apre un varco nel mondo di
Dio. Perché nutriamo così tanti dubbi sulle verità ultime della nostra fede,
perché siamo scettici sulla risurrezione e sulla vita eterna, perché il
paradiso e l’inferno li abbiamo relegati alla pubblicità? Perché non preghiamo
più. E quando cessi di pregare, cessi di vedere l’oltre, cessi di far posto a
Dio e alle sue sorprese. L’unico orizzonte diviene quello terreno e siccome non
ti basta vai in confusione. Prova a fermarti. Non serve che dici cinquanta
avemaria. Dinne una, ma dilla con la fiducia di chi non si rassegna alla
prigionia del tempo e cerca il varco fatto di cielo.
2. La
seconda direttrice è quella dell’impegno
operoso. Neda era una donna servizievole e disponibile. Undicesima di
dodici fratelli, ne aveva assistiti parecchi quando erano diventati anziani. Ma
le premure non erano limitate alla sua famiglia. Neda tesseva continuamente i
legami di una famiglia più grande fatta di tanta gente cui dava una mano. A
Godego lei e il marito erano arrivati da pochi anni. Eppure, ci fosse da fare
un’iniezione o prestare un po’ di assistenza, lei c’era. E lo faceva seminando misericordia e
benevolenza, perché non si può fare del bene e diffondere chiacchiere e neppure
calcare la mano con chi non si comportava troppo correttamente: «Poaretto,
porta pazienza!». Edda aveva la residenza in quella città che scende dal cielo,
la Gerusalemme celeste. Che non è un’utopia, ma l’accoglienza di un progetto
possibile inaugurato da Gesù risorto. Il progetto di chi percorre le vie del
mondo animato dalla carità.
3. La
terza direttrice è quella più impegnativa perché si inerpica sulle salite del
Calvario. È quella della malattia
che Edda ha vissuto con una fiducia disarmante, anche quando un po’ di domande
su Dio e sul suo amore te le saresti fatte. Neda aveva un antico crocifisso in
camera, un pezzo d’antiquariato che custodisce un’espressione dolcissima. E
quando domenica me la fatto vedere ho capito dove dimorava questa sorella. Era lì,
ai piedi della croce. E non ne faceva mistero. Non solo perché nella visibile
sofferenza non si lamentava, ma perché apertamente diceva: «Nostro Signor ze morto in croze e se anca mi so cussì lu sa parchè». Qui
ci fermiamo. Perché non siamo attrezzati a raggiungere queste vette. È un
regalo che Dio fa a qualcuno in qualche momento. Gli altri capiscono fin là e
rischiano di dire banalità. Neda ha riconosciuto il Signore anche nella morte
di croce. E siccome proprio in quell’ora sta la salvezza cristiana, crediamo
che il venerdì santo sia diventato pasqua di risurrezione. La affidiamo al
Signore risorto al quale chiediamo di darci almeno un briciolo della fede di
questa sorella.
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