sabato 19 luglio 2014

Omelia 20 luglio 2014


Sedicesima domenica del T. O.

Abbiamo di fronte agli occhi le immagini che ci giungono da Israele. Oltre 300 morti che interrogano la comunità internazionale ma anche la preghiera per la pace che i contendenti hanno fatto insieme a Papa Francesco. Dov’è finito quel progetto di concordia e di buona volontà? A volte il male sembra avere il sopravvento. È il problema che incontra il seme di cui Gesù già ci aveva parlato domenica scorsa. Non è solo questione di terreni; c’è anche la zizzania. È l’immagine di una realtà che minaccia il raccolto, che infesta il campo alterandone la fisionomia promettente. Il seme era buono, ma non era il solo. E forze di morte sembrano prevaricare su di esso. Eppure Gesù non perde la speranza e invita i suoi discepoli a fare altrettanto. Che cosa suggerisce?

1.     Anzitutto vigilare e registrare quanto accade. Mentre qualcuno dorme, infatti, qualcun altro agisce di nascosto. Un nemico venne… seminò… se ne andò. Tre azioni che sono passate inosservate. Il cristiano si confronta con forze che avversano l’azione di Dio, che attendono il momento in cui abbassiamo la guardia per diffondere il loro veleno. Notate che in greco il termine zizzania è al plurale: seminò delle zizzanie. La zizzania è una specie di “radice mutante” che si annida nel cuore umano in tante forme. Se il buon seme è quello del vangelo, le zizzanie sono le esperienze che lo contrastano. E sono esperienze che crescono boriose e rivendicano il loro dominio, la loro supremazia. Ti confondono a tal punto da credere che siano esse la piantagione buona. Ma non portano frutto: anzi, disumanizzano. Pensate all’erba cattiva del sospetto, della maldicenza, del giudizio. Pensate alla velocità con cui cresce. Ma che frutti genera? Frutti di morte. Vorresti somministrarli a qualcuno ma intanto avvelenano la tua esistenza. Pensate anche alla bugia e al sotterfugio: furbo chi arraffa di più! Ma intanto la tua vita diviene un imbroglio. Pensate a quei dirigenti di Rovigo che approfittando della caduta del sindaco e della giunta, con un vero e proprio blitz si sono aumentati lo stipendio. Attento al nemico in azione: impara a distinguere la spiga del loglio da quella del buon grano.
 
2.    Vi è però una seconda tentazione, più pericolosa della prima. È quella di intervenire immediatamente, di fare pulizia, di pretendere l’eliminazione della zizzania: Vuoi che andiamo a raccoglierla? È il gioco subdolo del nemico che mentre ti dà l’idea di poterlo eliminare, in realtà sta rafforzando sé stesso. Perché se tu ti metti subito a combatterlo trascuri alcuni aspetti importanti: non ti rendi conto che la zizzania non è solo degli altri ma un po’ è anche tua, non ti rendi conto che la zizzania ha uno parte aerea visibile una radice sotterranea, ramificata, non ti rendi conto che estirpandola rischi di sradicare anche qualche pianticella buona, indebolendoti. Il male ci dà fastidio, vorremmo eliminarlo, ma chi domina il mistero del male è uno solo. E se vuoi partecipare della sua vittoria devi unirti alla sua lotta, accettando la difficile convivenza. Lasciate che buon grano e zizzania crescano insieme, raccomanda il padrone ai servi. Perché è importante questa crescita simultanea? Perché ti consente di vedere meglio i confini tra le due realtà, di conoscerne l’azione e gli esiti, di sviluppare risorse. A volte la vita ci riserva dei dispiaceri: dissapori con qualcuno, attese deluse, ferite che ci arrivano. E vorremmo strappare questa zizzania con misure risolutive, sia quando prendiamo le distanze da qualcuno, sia quando proclamiamo improbabili cambia-menti. Prova a metterti con calma di fronte al bene e al male che ti appartengono: forse la colpa non è solo degli altri. Prova a vedere se la tua vulnerabilità ti insegna qualcosa: forse c’è qualcosa da imparare anche dalle fatiche. Prova a vedere se l’esperienza dolorosa può renderti può attento a quello che patiscono anche gli altri.

Come diceva Paolo: Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza. Non alla nostra presunzione. Quando il criterio di riferimento è la perfezione subentra la rabbia e la devastazione. Quando sperimentiamo la debolezza impariamo ad essere un po’ più umili, a conoscere il Padre, a sentirci custoditi da lui, a invocarlo. A diventare come lui misericordiosi e pietosi (salmo), più indulgenti con noi stessi e con gli altri.

3.    C’è un terzo intervento che consente di contrastare l’azione della zizzania. Mentre essa va raccolta e bruciata, il grano va riposto nel granaio. Ebbene il termine che indica questa seconda operazione è il verbo synágo (come sinagoga) vuol dire raccogliere insieme. Ecco, forse il buon grano cresce anche in uno sforzo di comune impegno che va oltre gli sforzi personali. È un appello comunitario, collettivo, per tessere relazioni buone, occasioni di coesione e di partecipazione in cui il regno cresca e si diffonda. Non solo cosa posso fare io, ma anche cosa possiamo fare noi, perché di fronte ad alcune provocazioni culturali, belliche, politiche da soli si fa poco. E non solo come contrastare insieme il male, ma come fare insieme il bene. Provare a alimentare sinergie di bene, per sottrarre terreno alla zizzania ed essere fare spazio al Regno che viene.

domenica 13 luglio 2014

Omelia 13 luglio 2014


Quindicesima domenica del T. O.


http://it.wikipedia.org/wiki/Seminatore_al_tramonto 


Non so se ricordate il celebre dipinto di Van Gogh che raffigura il Seminatore al tramonto. Il pittore imprime sulla tela l’intensità dei colori provenzali, ma accompagna l’immagine con una singolare inversione cromatica. Il cielo diviene giallo e la terra risponde di un blu caliginoso con macchie di viola brillante. I colori della messe matura sono in alto e i colori del cielo sono in basso, come se quel seminatore che appare sulla destra stesse facendo un’operazione carica di cielo. In effetti è proprio così. Quando semini apri varchi di cielo, di speranza, di futuro. Il seme domanda la pazienza dell’attesa, l’accoglienza fiduciosa. Se guardi il campo dopo la semina non vedi alcunché. Ma se lo guardi con i colori giusti, vedi i riflessi del cielo. Già domenica scorsa il vangelo ci ricordava che Gesù stava incontrando ostilità e rifiuto e che erano solamente i piccoli e i poveri a seguirlo. Oggi sono proprio loro che si interrogano e dicono: “Ma ‘sto vangelo funziona? Le tue parole cambiano il cuore degli uomini, gli eventi del mondo o siamo vittime dell’illusione?”. Se ci pensate sono domande che ci facciamo anche noi quando ci pare che il messaggio cristiano sia inefficace o sia rivolto ad un gruppo di derelitti che cercano un po’ di consolazione. Come funziona la semina di Dio? Quali colori ci invita a riconoscere?

1.    Ecco il seminatore uscì a seminare. Prima delle considerazioni agronomiche che riguardano i terreni c’è la fiducia di quel gesto. Dio che semina a piene mani. È quello che stava facendo Gesù con la sua predicazione. Dio non funziona come le moderne seminatrici che misurano e distanziano i semi con logiche di calcolo e di profitto. Dio, quando si tratta della sua parola, adotta lo spreco perché ce ne sia almeno una che ti scenda nel cuore. In questi giorni la gente mi fa le congratulazioni perché sono diventato parroco. Ma c’è anche qualcuno che aggiunge: “Che vai fare in quel posto? Sei sprecato”. E una madre che ricorda strade di fede ad un figlio? Non sta anche lei sprecando parole? E quando cerchiamo di convincere qualcuno ad aprire varchi di fede? Dio mette in conto lo spreco perché continui ad esserci almeno un’occasione in cui tra i solchi della tua umanità cada un seme di vangelo.

2.    Mentre seminava una parte del seme cadde su… La semina di Dio ha bisogno del terreno. Dio non agisce a colpi di bacchetta magica: la magia sei tu se ti fidi di lui, se lo lasci agire. E Dio ti ama a tal punto da metterti in guardia, da avvertirti di alcuni rischi sempre in agguato. Quei tre terreni fallimentari sono la descrizione di una terra che non ospita il cielo e che perde, di conseguenza, i suoi colori più veri. Puoi essere ruvido selciato che non lascia penetrare la parola e qualcuno te la ruba. È la parola che cade su strade calpestate da tutti, strade di opinioni ricorrenti, di mode: fanno tutti così. E perdi l’originalità cristiana. Il Maligno che ruba la parola è il principe di questo mondo che vuole stabilire la sua signoria. Puoi essere terreno sassoso dove la terra mescolata alla ghiaia fornisce solo un breve nutrimento al seme: si alza il sole e la pianta brucia. Entusiasmi improvvisi ma effimeri. Come quando trovi qualcuno che dichiara: “Sono innamorato di Papa Francesco”. Ma ascolti anche quello che ti dice? Infine puoi essere terreno fertile sopraffatto però da rovi che soffocano la crescita della pianta. Le spine sono le preoccupazioni, i problemi di questo mondo, le garanzie economiche, l’ansia per il futuro. Possono crescere e diffondersi da bloccare gli orizzonti, da nascondere il senso della vita. Ecco Gesù vuole metterti in guardia: non tutto è scontato. Non tutto conduce allo stesso esito. Ma questo sembra un discorso moraleggiante se non introduciamo anche il quarto terreno. Gesù ne parla dicendo epi ten ghén, ten kelén: il terreno su cui cade il seme è quello kalós, bello. Gesù vuole che la vita sia bella – come un quadro di Van Gogh! - e su questo terreno affonda il suo seme. Se accogli il vangelo vedi bellezza.

3.    E diede frutto. La semina di Dio si conclude con questa persuasione. Perché con tutta la casistica agronomica ci può rimanere il dubbio: funziona o non funziona la Parola di Gesù? Era la domanda latente dei discepoli. La Parola non è magia, abbiamo detto: ha bisogno di accoglienza e responsabilità. Ma non è neppure forza inerte. È come la pioggia e la neve di cui ci ha parlato il profeta Isaia. Non scendono dal cielo senza irrigare la terra. Così il vangelo è energia misteriosa che agisce, che sostiene, che guarisce. Anche quando non te lo aspetti. Anche nell’aridità di alcune situazioni. Pensate alla tensione tra Israele e Palestina. Uno dice: ma a che è servita la preghiera in Vaticano? Sembra parola sulla strada di un inscalfibile cuore umano! Ma se quello che vediamo provoca orrore e tristezza vuol dire che gli uccelli dell’indifferenza non hanno rubato tutto e si sta diffondendo una cultura di pace che chiede conto anche di questo conflitto talvolta dato per inevitabile o visto in maniera sonnacchiosa anche a casa nostra. Come la pioggia e la neve. La Parola porta frutto, anche quando ti sembra impossibile, anche quando sembra in ritardo. E se gli altri a cui vorresti portarla ti sembrano un po’ refrattari non ti preoccupare, perché intanto Dio sta cominciando da te.

sabato 28 giugno 2014

Omelia 29 giugno 2014


Solennità dei SS. Pietro e Paolo 2014
 
L’altra sera davano ancora una volta Forrest Gump, la storia di quel ragazzotto un po’ strano che ad un serto punto inizia a correre. Una corsa che incrocia persone, fatti situazioni, che suscita interrogativi. Una corsa che finisce al capezzale di una madre morente che in poche parole consegna l’esito di una vita. La morte fa solo parte della vita, Forrest. È un destino che appartiene a tutti: io non lo sapevo, ma ero destinata a diventare la tua mamma. Sono dell’idea che ognuno fa il suo destino: tu devi fare del tuo meglio con quello che Dio ti ha concesso. Qual è la nostra corsa, il destino che Dio ci affida?

Anche Paolo oggi ci parla di una corsa della quale è giunto al termine. Siamo nel 62, l’apostolo è a Roma agli arresti domiciliari che preludono al suo martirio e, scrivendo al suo collaboratore Timoteo, rivela il senso del suo viaggio. Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della mia corsa, ho conservato la fede.

La vita per un motivo o per l’altro ci consegna continuamente dei fine corsa. Il verbo giungere (teléo) dice la ricerca di un fine: cerca di non correre per niente ma sappi che i motivi per cui corri li comprenderai pienamente quando arrivi. Combatti la buona battaglia. La battaglia è ágon e combattere è agonízomai, termini che contengono l’agonia e l’agonismo. Quella battaglia non è solo buona: è kalós, bella. Fa’ in modo che quello per cui lotti sia anche qualcosa di bello, che ti piace. Il vangelo non solo come bontà ma anche come bellezza, fascino, avventura, creatività. E poi custodisci la fede. Qui il verbo teréo vuol dire serbare un rapporto. La fede non è un codice di procedura ma un legame vivo. Paolo ha mantenuto acceso il suo legame con il Signore tanto che lo sente accanto anche di fronte alla morte. 

Ecco, dove corri Forrest? Fa’ in modo, ci dice Paolo, che la tua corsa sia così: aperta ai disegni di Dio, appassionata e creativa, salda nell’amicizia con il Signore. E perché questo si realizzi, Pietro ci dà qualche altro suggerimento, anzi ci consegna la strumentazione che Gesù stesso gli dà. È il carisma di Pietro, lasciato al suo successore e a tutta la chiesa. Che c’è in questa strumentazione? Tre azioni: edificare, aprire, legare e sciogliere.

1.    Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Sii una persona che costruisce, sempre. Mai che distrugge. A volte le potenze degli inferi sono in agguato, montano e confondono: non schierarti dalla loro parte. Non prevarranno. Abbiamo seguito in questi giorni le polemiche intorno alla morte di Ciro Esposito, tifoso napoletano morto a 30 anni per un colpo di pistola sparato alla schiena in una partita di calcio. Erano state lanciate minacce di ritorsione, di vendetta. Come sono state dirompenti le parole della fidanzata ai funerali: «Basta con la violenza perché così Ciro lo uccidete due volte. Ciro era un ragazzo, non un ultras. Il suo è un tifo pulito, sotterrate la violenza». Ecco le pietre che edificano e che ci introducono nella bella battaglia, non in quella che uccide. Le tue parole, i tuoi gesti, le tue scelte… prova a costruire umanità, perché questa è la chiesa di Pietro: segno di un’umanità nuova che splende della luce di Dio.

2.    Altra azione a custodia della fede: aprire. A te darò le chiavi del regno dei cieli. Pietro ha in mano chiavi che aprono il mondo di Dio, quelle chiavi invisibili che lui ha visto in azione quando misteriosamente è stato liberato dal carcere. Ecco: custodire la fede vuol dire dischiudere varchi di libertà. È uscito venerdì l’Instrumentum laboris che accompagnerà la preparazione del Sinodo sulla famiglia. Con molta lucidità e realismo si parla di numerose situazioni che attraversano il mondo familiare. E poi si aggiunge: Per tutti costoro, “serve una pastorale capace di offrire la misericordia che Dio concede a tutti senza misura”. Si tratta, dunque di “proporre, non imporre; accompagnare non spingere; invitare, non espellere; inquietare, mai disilludere”. Sentite come le chiavi del regno siano liberanti! Ma non sono semplici salvacondotto: sono varco verso la carità di Dio che non è mai separabile dalla sua verità. E queste chiavi sono ora proprio nelle mani di Pietro.

3.    Infine legare e sciogliere. La fede si costudisce anche in questo intreccio di fili tra la terra e il cielo. Come quando si tesse un arazzo. Stringi su quello che è importante, molla su ciò che è d’impaccio. C’è una bella devozione cara all’attuale papa: la Madonna dei Nodi. La si invoca perché li sciolga. Rabbia, rancore, ostilità, supponenza… E mi pare che questo papa di nodi bellici, esistenziali, ecclesiastici ne stia sciogliendo tanti. Ecco puoi conservare la fede se annodi quello che le appartiene e sciogli tutto il resto, perché altrimenti ne esce un groviglio che chiami fede, ma è qualcos’altro.

Corri, Forrest, corri… Dove va la nostra corsa? È la corsa della fede? Ci aiuti il Signore a custodirla con lo slancio di Paolo e la tenacia di Pietro.

 

sabato 14 giugno 2014

Omelia 15 giugno 2014

SS. Trinità 2014
Non recidere, forbice, quel volto, 
solo nella memoria che si sfolla, 
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

È la prima quartina di una poesia di Montale. Il poeta è di fronte ad un’acacia che gli ricorda un volto amato e prega la lama del potatore di non recidere quelle fronde capaci di rammentare l’immagine struggente. La forbice è, metaforicamente, quella del tempo che passa, che attenua i ricordi e li disperde nella nebbia della lontananza. Non recidere, forbice, quel volto. Non so se dovremmo dirlo anche di Dio, perché si ha l’impressione che cesoie invisibili intervengano a modificare la percezione che abbiamo di lui e ci consegnino ad una sorta di nebbia che oscura le coscienze e uccide la speranza. Mentre in questi giorni il Dio del calcio ci chiede i suoi tributi e i suoi sacrifici, fa riflettere la testimonianza di Prandelli apparsa l’8 giugno su Credere. A chi gli chiede per che cosa preghi un allenatore alla vigilia del suo primo mondiale, lui risponde: «Di non andar fuori di senno, di non perdere la testa, di non prendersi troppo sul serio. Si prega proprio perché la preghiera può aiutare a mantenere il senso del tuo limite umano». Ecco il volto ritrovato di Dio che diviene anche riscoperta di quello che siamo perché la nebbia non ci avvolga e ci imprigioni. Il dialogo tra Gesù e Nicodemo è apertura sul mistero di Dio, quello che ogni uomo segretamente cerca. Che cosa gli dice Gesù?

1.    Anzitutto la più sorprendente delle rivelazioni. Dio ha tanto amato il mondo. Parole che illuminano la notte di Nicodemo. Il Dio cristiano ama. E ama a tal punto da strutturarsi nell’unica forma che può garantire l’amore: la relazione. Il Dio cristiano è relazione d’amore perenne tra il Padre, il Figlio e lo Spirito. Dio si è pensato così! Non recidere, forbice, quel volto. Ma il Dio cristiano non solo si ama, ma ha tanto amato il mondo. È un amore esuberante che fuoriesce, che permea l’uomo e il creato. Pensate novità di questo volto di Dio rispetto a quello delle suscettibili divinità greche o delle distaccate divinità orientali. Dio ha considerato il mondo più importante di sé e riversa su di esso un fiume di amore, di stima, di benedizione: non c’è nulla di quello che Dio ha creato che sia sotto il segno della condanna, poiché, come dice Tommaso d’Aquino: Aperta la mano dalla chiave dell'amore, le creature vennero alla luce. Ancor prima di essere battezzato, catechizzato, comunicato, Dio fa il tifo per ogni uomo. Perché quell’uomo gli consente di poter essere se stesso, di amare. Ecco perché difendiamo ogni uomo che viene a questo mondo, fin dai suoi primi istanti, ecco perché non ci rassegniamo a sperimentazioni sugli embrioni umani anche se la Commissione europea non ne vuole saperne di due milioni di firme raccolte per mettere in discussione una legislazione che prevede tale intervento sul quale anche la comunità scientifica è spaccata. Dio ha tanto amato il mondo. Guarda con tenerezza ogni uomo, come un padre e una madre che si recano insieme a fare l’ecografia del figlio in arrivo.

2.    Ma Gesù continua. Da dare il suo figlio. Fino a questo punto Dio ha amato il mondo. La Trinità è la festa di un Dio che si fa conoscere mentre si dona. Il verbo allude al dono radicale di Gesù, dal suo farsi uomo al suo morire sulla croce, al dono dello Spirito; come dire: ha dato proprio tutto. A volte abbiamo la sensazione che Dio si sia risparmiato, che si sia tenuto solo per sé qualcosa che ci serviva. E invece non ci manca niente di lui e se qualcosa manca all’appello è perché non vogliamo lui ma vogliamo noi, le nostre attese e pretese, il Dio con il volto compiacente dei nostri desideri. Trovi Dio se cerchi il Figlio che ti ha dato, il suo cammino, il suo progetto. Provate a pensare alle situazioni in cui ci pare che ci manchi qualcosa: salute, lavoro, benessere, riconoscenza, attenzione… E se Dio volesse donarti qualcos’altro? E se attraverso la tua precarietà volesse donare qualcos’altro a qualcun altro? Pensate al dramma delle carrette del mare che approdano nelle nostre coste. Dove sono Dio e il suo dono? Sono nell’esperienza della solidarietà, nel volto del buon samaritano. Ecco Dio che continua a dare il suo Figlio.

3.    E infine: perché chi crede abbia la vita eterna. Notate che in greco non viene adoperato il termine bíos che comunemente indica la vita biologica, ma zoé aiónios che è la vita di Dio, la vita dell’eterno che è definitiva e non è toccata dalla morte biologica. Con il battesimo noi siamo stati generati a questa vita e Dio si manifesta quando questa condizione dell’esistenza si manifesta, quando la zoé sottrae spazio a logiche di morte. Avete sentito di quei ragazzi che hanno concluso l’anno scolastico in discoteca con una festa a base di ketamina. E quando sono arrivati i carabinieri, come spesso accade, si camminava sulle sostanze disperse sul pavimento. Questa non è zoé e non è neanche bios! È una cultura di morte barattata come normalità. E mentre a scuola sembra importante fare battaglia all’omofobia, di altre battaglie, specie se toccano il divertimento e gli interessi connessi, non c’è traccia. Dov’è Dio? Dove l’eterno vince. E dove l’uomo pensa in grande la vita.
 
Non recidere, forbice, quel volto.
Il Signore ce lo regala ancora una volta quel volto, ad immagine del quale è stato fatto anche il nostro. In esso ci rispecchiamo perché quei tratti ci sorprendano e la nebbia non ci avvolga.
 

 

sabato 31 maggio 2014

Omelia 1 giugno 2014


Ascensione del Signore

John Gribbin, è un astronomo britannico, autore di una quarantina di libri. In un suo saggio scrive: «La vita comincia col processo di formazione delle stelle. Noi siamo fatti di polvere di stelle: ogni atomo di ogni elemento presente nel nostro corpo, eccezion fatta per l'idrogeno, è stato prodotto all'interno delle stelle, è stato poi disseminato nell'universo per mezzo di grandi esplosioni stellari, ed è stato infine riciclato per diventare parte di noi stessi». Noi siamo fatti di polvere di stelle e, per quanto le vicende di ogni giorno e le alcune strettoie culturali ci tengano imprigionati a visioni molto limitate, il nostro DNA grida ragioni più grandi di quello che talvolta ci viene indicato.

La festa dell’Ascensione torna a indicarci i percorsi del cielo. Gesù ci fa capire il senso della sua vicenda terrena: è disceso per riportarci in alto, per suggerirci il fascino delle stelle. Il Padre della gloria, illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati. Come si sale con Gesù? Come si diviene uomini e donne dell’ascensione?

1.    Anzitutto l’evangelista ci dice che i discepoli tornarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato. Non si deve dimenticare che è Matteo che sta raccontando i fatti e il monte della Galilea con cui l’evangelista apre il suo vangelo è quello delle Beatitudini. Gesù dopo la sua risurrezione torna a indicare questa pagina perché è la sola che apre beatitudine, vita risorta, cielo. Quale beatitudine cerchi? Guarda che ce ne sono alcune che ti tengono al piano terra: beato chi possiede, beato chi comanda, beato chi è famoso. Gesù predica altre prospettive: beati operatori di pace, beati assetati di giustizia. Abbiamo visto le provocanti immagini del Papa che in Terra Santa ha atto fermare l’auto e ha appoggiato le proprie mani al muro che divide Israele dai territori palestinesi. Un muro che dovrebbe difendere ma che nella costruzione diviene occasione di attacco perché entra in casa dell’altro. A volte funziona così anche nella nostra vita: pensiamo di doverci assicurare un diritto e invece ne stiamo compromettendo un altro. Pensate al tanto esaltato divorzio breve che sembra una conquista sociale. Certo che le lungaggini burocratiche sono inopportune, ma forse nella mente del legislatore un tempo non c’era tanto la burocrazia quanto la possibilità data alla famiglia e alla coppia di poter osservare attentamente la situazione, di ripensare ai propri atteggiamenti, di individuare anche strade di recupero. Invece ecco la soluzione: muro rapidamente innalzato che ci separa e ci dà la sensazione di essere felici. Sembra una costruzione legittima ma è entrata abusivamente in casa. Bisogna ritornare al monte che Gesù ci ha indicato, quello delle Beatitudini. Così si apre il cielo.

2.    Ma questo discorso non è facile da accettare. Che succede quando i discepoli sono sul monte? Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Deferenza da un lato, perplessità dall’altro. Vuol dire che questa logica di Gesù non convince. La proposta del Maestro sarà sempre sorgente di qualche dubbio. A rimedio di questo Gesù dona la sua potenza. A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Di che potere si tratta? Notate: Gesù si avvicina e dice andate, fate discepoli tutti i popolo, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La potenza che convince è quella di una relazione nuova che i discepoli diffondono nel mondo. Comunione con Dio e con gli uomini: è questo il legame buono che convince e apre i cieli. Abbiamo visto nei giorni scorsi nella nostra città l’attribuzione della cittadinanza onoraria a 62 ragazzi figli di immigrati ma nati a Treviso. Certi dispositivi non vanno attuati sulla base degli stati d’animo: bisognerà studiare modalità e condizioni mediante le quali un cittadino di altri paesi diviene italiano. Ma intanto si dà un segnale. Non tutti i segnali sono uguali, non tutti i cambiamenti che promuove questa nostra amministrazione sono evangelici. Ma quando si aiutano dei ragazzi a superare barriere culturali, sospetti, diffidenze di razza e di pelle, allora c’è un po’ di comunione divina che prende forma e i cieli si aprono.

3.    Infine Gesù, prima di salire in cielo, rassicura i suoi discepoli: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Il cielo è dischiuso dalla certezza di essere accompagnato da qualcuno che veglia su di te. E in quel caso non hai bisogno di aspettare: il cielo discende sulla terra. Tutti i giorni. Prova a vedere dove si nasconde il Signore, gli angoli di cielo della tua giornata. Nelle esperienze che vivi e nei tempi della preghiera. Dobbiamo tenere unite queste due realtà perché le esperienze da sole potrebbero confonderci e la preghiera da sola potrebbe diventare evasione. Invece, se colleghiamo le due realtà l’una rivela l’altra e capisci che il cielo abita la terra.

Ecco: noi siamo polvere di stelle. Ma non è una scoperta della chimica. È la realtà di un uomo pensato secondo Dio che in questa festa dell’ascensione trova autenticamente se stesso. Un cammino aperto da Gesù, un cammino anche per noi.

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 7 maggio 2014

Omelia 4 maggio 2014


Terza domenica di Pasqua
 

Sette miglia. Undici chilometri da Gerusalemme. È la distanza che raccoglie le speranze che si spengono e si riaccendono in un cammino che non appartiene solo ai discepoli di Emmaus, ma ad ogni uomo. Perché anche noi ce ne andiamo qualche volta delusi dalla vita, incapaci di comprendere quello che sta succedendo. E ci pare di essere traditi, consegnati a un ingrato destino dopo il tempo delle promesse e delle attese. Noi speravamo. Affetti, lavoro, salute. Quante volte diciamo questa parola persuasi che la vita ci abbia mostrato il lato oscuro, lamentandocene, senza renderci conto che in quell’oscurità un po’ ci siamo cacciati da soli. A volte infatti diamo la colpa al destino, agli altri, al Signore e non ci rendiamo conto che anziché uscire dal tunnel abbiamo contribuito ad arredarlo.

Perché succede questo? Perché non vuoi ascoltare, non vuoi rimanere, non vuoi vedere: i tre problemi dei discepoli. Vediamo la difficoltà e vediamo come se ne esce.

1.     Anzitutto ascoltare. I due discepoli in cammino conversavano e discutevano. In greco abbiamo due verbi interessanti: homiléin e suzetéin. Il primo ci ricorda l’omelia, la predica: si predicavano l’uno all’altro, senza starsi realmente a sentire. Il secondo verbo indica la contrapposizione e il litigio. I fatti che sono capitati generano tensione con chi sta vicino, non si capisce e non ci si capisce. E in questa concitazione i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Non si dice che Gesù sia diverso, si sia trasformato. In realtà lui cammina accanto ma non lo si riconosce più, perché le proprie omelie hanno il sopravento. A volte succede anche a noi. Cerchiamo di comprendere una situazione oscura ma l’idea che ci siamo fatti è così radicata che il parlarne ci serve non per un confronto ma per renderci sempre più persuasi delle nostre posizioni. E finisce che diciamo banalità o che inneschiamo polemica. Il Signore risorto guarisce i loro amici mettendo a tacere le loro omelie con una parola che riscalda il cuore. Pensate alle delusione derivanti dalla crisi e alle parole piene di rabbia che liberiamo. In questi giorni in Francia è divenuta legge dello stato una proposta mediante la quale i lavoratori possono donare i giorni delle loro ferie a colleghi in condizioni di precarietà. Le nostre parole spesso ci lasciano al freddo, ghiacciano i rapporti e le speranze. Occorre trovare parole che riscaldano.

2.     Secondo problema: rimanere. Ma perché questi due discepoli se ne vanno da Gerusalemme? Stanno lasciando la comunità. La distanza che essi stabiliscono non è solo legata agli eventi accaduti, ma anche alle persone che ne sono coinvolte. Quel cammino da Gerusalemme a Emmaus ha i connotati di una fuga. Gli eventi ci deludono e noi scappiamo frettolosamente da tutto e da tutti. Perché? Perché potrebbe esserci un’altra verità ma non siamo disposti a sentirla. O potrebbe esserci un altro supporto che non vogliamo accettare. Andarsene a volte può essere un modo per mettere al sicuro le proprie posizioni, sottraendole alla verifica e cercando altri interlocutori, magari compiacenti. Quando siamo delusi e ce l’abbiamo con qualcuno andiamo a cercare qualcun altro che ci dia ragione. E finisci col crearti un altro mondo a tua immagine e somiglianza che ti mette al sicuro ma che spegne e ti spegne. Pensate a come il mondo dei social network. Posti un articolo sull’appartamento del tal cardinale e raccogli decine di “mi piace”. E finisci per credere che la chiesa sia quella: ho fatto bene ad andarmene! E dimentichi che c’è un’altra chiesa, quella che anche oggi finisce in croce, come ci hanno documentato le terribili immagini che in questi giorni sono giunte dalla Siria. Gesù con pazienza rivela il senso dei fatti: li cuce uno all’altro cercando il disegno completo. Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. E alla fine i due fuggiaschi tornano indietro. E non per raccontare subito la loro esperienza, ma per essere rassicurati dalla comunità che afferma: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone.

3.      Infine vedere. A volte la delusione sopraggiunge perché non vuoi vedere o vedi quello che vuoi. I due ricordano che le donne sono andate al sepolcro dicendo di aver avuto una visione angelica e di aver udito l’annuncio della risurrezione. Ricordano però che anche i discepoli sono andati nello stesso posto dicendo che essi non videro proprio niente. «Hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto». Hanno visto con gli occhi materiali e di conseguenza hanno visto una sconfitta. La delusione è frutto di una visione limitata. Ti pare che il mondo corrisponda a quello che tu vedi. E invece c’è qualcosa di più. Dove? Fece come se dovesse andare più lontano. Gesù vuole portarti dove alcuni gesti ti rivelano qualcosa in più. Di che gesti si tratta? Sono quelli dell’eucaristia, del pane spezzato. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Spezza il pane chi divide, chi dona. I gesti che consentono di vedere oltre sono i gesti dell’amore. Nel giornale di questa settimana c’era la vicenda di un uomo di quarant’anni giunto in pronto soccorso affetto da disabilità e tracheotomizzato. Nel tragitto in ambulanza era in seria difficoltà quando un infermiere ha provato a fargli una carezza. E subito il paziente si è calmato. E l’operatore sanitario osservava: «Ma tu guarda, quanto bisogno d’umano affetto una persona può portare dentro, tu lo soccorri materialmente ma umanamente non lo sfiori neppure!». Cosa vedi? Un paziente o un uomo? Un vuoto o un varco? Vinci la delusione con una nuova visione.

Undici chilometri da Gerusalemme. E' il tragitto di una nuova visione cui il Risorto anche oggi ci conduce.
 

domenica 27 aprile 2014

Omelia 27 aprile 2014


Seconda domenica di Pasqua

Porte chiuse / confine invalicabile

attese frustrate / parole contro un muro di gomma

Porte chiuse / mondo sconosciuto

macigno sulla strada / direzione vietata.

Sono versi di Alda Merini, donna che con la poesia ha cercato di varcare le numerose porte chiuse che la vita le ha riservato, attanagliata dalla fragilità e dalla solitudine, internata in manicomio. Porte chiuse è la vicenda che sperimenta ogni uomo, almeno una volta nella vita, nei sogni che non si realizzano, nelle delusioni che seguono le illusioni, nei quotidiani muri di gomma che anche noi incontriamo.

Ebbene, il vangelo di oggi inizia proprio da qui: dal Risorto che arriva mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei. Non è stato facile affrontare la morte di Gesù ma neppure accettare la notizia della risurrezione. Dubbi, inquietudine, paura di fare la stessa fine. Ma il Risorto passa a porte chiuse e aiuta i discepoli a individuare nuovi varchi, anche quando le strade sembrano ostruite. Come avviene questo passaggio? Come si riaprono le porte della vita?

1.    Anzitutto il saluto di Gesù: Pace a voi. Le porte si riaprono se accogli l’invito alla pace. Ce lo ricorda oggi Papa Giovanni il cui pontificato è stato accompagnato da questo anelito, tanto da dedicarvi l’enciclica Pacem in terris. E questo papa sapeva che non era solo questione di scongiurare il conflitto tra le due superpotenze di allora. Era uno stile da ricercare, fatto di dialogo, di fiducia, di rispetto. E proprio perché è una questione di stile devi fare attenzione, perché il conflitto non è scatenato solo dall’aggressività aperta; a volte nasce anche da quella indiretta ma altrettanto devastante, dove tu potresti mascherarti addirittura da buono. Aggressività indiretta può essere il silenzio quando ti è chiesto di parlare, la disaffezione alle cose costringendo l’altro a farle al tuo posto, la distanza e l’assenza, l’indifferenza che porta ad affermare un velenoso “tu non esisti” o uno strategico “io non esisto”. Il cattivo non è sempre l’altro che si incavola, che non è paziente, che non capisce che sei stanco, immigrato, snervato, ma anche chi ha elaborato una fine strategia per ecclissarsi e scaricare le responsabilità. Il Risorto non dice “pace a te”, ma “pace a voi” ed è solo in questa condivisione di intenti “pacifici e pacificatori” che si aprono le porte chiuse che qualche volta rendono la vita poco vivibile.

2.    Un secondo aspetto è legato all’azione dello Spirito e al perdono dei peccati. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati. A volte le porte sono sbarrate da questa esperienza oscura che agisce più di quanto riconosciamo o riusciamo a immaginare. Non si parla più del caso di quella donna che ha perso la vita in seguito all’assunzione della pillola abortiva RU486. E forse è meglio così. Ma che cosa si annida nel cuore di una donna quando arriva ad un gesto del genere? Che succede mentre agisce una sostanza che dentro di lei spegne la vita e lo fa un po’ alla volta, tanto che c’è bisogno di assumere una seconda dose alcuni giorni dopo perché l’effetto sia assicurato? Sono esperienze che si inscrivono per sempre nella vita: uccidono la fiducia, la speranza, l’interiorità, perché appena osi guardare dentro di te sei sopraffatta dalla colpa. Porte chiuse che solo Gesù risorto riesce ad oltrepassare, perché lui conosce bene l’oscurità. L’ha raggiunta negli abissi della morte e l’ha vinta. E non solo l’oscurità che piomba su una madre che fa un gesto sconsiderato, ma anche l’oscurità che ci rende estranei gli uni agli altri, prigionieri di noi stessi, sordi agli appelli altrui. L’oscurità di chi ha interrotto i rapporti con un famigliare convincendosi che le proprie ragioni possano legittimare ogni distanza. Abbiamo bisogno dello Spirito del Risorto e del suo perdono perché le porte della vita si aprano.

3.    E infine la vicenda di Tommaso ci ricorda che le porte si aprono in relazione all’esperienza del credere. A volte la nostra vita è prigioniera di una mentalità quantificatrice dove vorremmo calcolare ogni evento con i criteri di una mentalità scientifica che alla fine rischia di essere solo scientista, paladina di una verità che crede di essere frutto della libertà ma che in realtà è retta dal pregiudizio: quello che stabilisce i limiti di Dio. Giovanni Paolo II nella famosa Enciclica Fides e ratio ci ha parlato di fede e ragione come di due ali mediante le quali si eleva lo spirito umano. Con un’ala sola non si vola. Tommaso ad un certo punto mette da parte le sue pretese e comprende che c’è una verità più grande di quella che vorrebbe dimostrare. Quella che appare dalle ferite di Cristo: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani. La fede passa attraverso i segni dell’amore nei quali Tommaso è invitato a gettare la sua vita. Si diventa credenti quando si comincia a far posto a questa prospettiva, quando ti lasci convincere non da percorsi intellettuali, ma da quelli dell’amore, perché sono gli unici che ti portano a inginocchiarti e a dire: Mio Signore e mio Dio. Perché c’è un milione di persone che arriva a Roma oggi? Perché due papi credenti hanno creduto all’amore e forse anche perché un terzo papa sta percorrendo la medesima strada. Capisci, non capisci, Dio ti sembra strano, lontano… Prova a vedere quali segni d’amore ti sta mostrando, comincia a chiederti se sia proprio un caso e, se riesci, prova a dire: Mio Signore e mio Dio. Credendo all’amore e correndone il rischio.