venerdì 20 giugno 2025

Omelia esequie Patrizia Silvestri, medico

 

Patrizia Silvestri in Buoncompagno (18 giu. 2025)

(Ez 34, 11-16  – Lc 10, 29-37)

Certe vocazioni sono inscritte nel patrimonio genetico, anche quella di Patrizia che voleva fare il medico. Fin da piccola, quando operava le bambole per vedere cosa ci fosse dentro o quando ne fasciava un braccio o una gamba che, non si sa come, si erano rotte. A dodici anni ad operarla di un’appendicite fu, cosa rara ai quei tempi, una giovane chirurgo all’ospedale di Crespano con cui fece amicizia. E da quel momento comprese che medico era esattamente la rotta della sua vita, che la portò a iscriversi a medicina, a laurearsi col massimo dei voti e a specializzarsi in ginecologia. Brillante negli studi, avrebbe potuto intraprendere una carriera clinica, ma il desiderio di farsi una famiglia la portò a preferire la medicina di base.

Guardie, sostituzioni fino all’assegnazione dell’incarico a Resana nel 1996 dove è rimasta fino allo scorso anno quando la malattia ha portato ad anticipare i tempi della pensione. Medico di famiglia, dove quella specificazione indica non solo un ambito di lavoro ma la caratteristica del servizio stesso. Di famiglia, come gli stessi pazienti fossero tali.

Alla competenza, infatti, Patrizia aggiungeva tanta umanità, con quell’ingrediente segreto che sancisce la differenza tra chi passa oltre quello sventurato ferito dai briganti e chi si prende cura di lui: la compassione. Lo vide e ne ebbe compassione. Era l’atteggiamento di chi si sentiva interpellato da tante vicende e alla professionalità aggiungeva empatia, vicinanza, comprensione, sostegno, concretezza e gratuità. È la traduzione di quel decalogo della carità nascosto nel racconto di Gesù, che insegna a usare gli occhi, il cuore, la testa, i piedi, le mani per soccorrere chiunque sia nel bisogno. Chi dei tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è capitato tra i briganti? Chi ha avuto compassione di lui. Va’ e anche tu fa lo stesso. E Patrizia ha fatto lo stesso, con le tante donne che ha curato con delicatezza e rispetto, con le donne straniere che in lei potevano trovare un medico e una confidente, con gli orari di lavoro che costringevano a volte il marito ad andarla a cercare e a capire dov’era, magari prendendosi qualche rimbrotto, con una reperibilità che non veniva meno neanche nei tempi della pandemia, neppure quando lei stessa ne era stata colpita. È una pagina luminosa, evangelica, che intreccia la professione di missione e ci ricorda che il buon samaritano a tutti consegna due denari di carità perché ci prendiamo cura di qualcuno. E quello che spenderemo in più ce lo restituisce il Signore al suo ritorno e con le sue sorprese.

Ma Patrizia era approdata alla medicina di base perché voleva farsi una famiglia. E già questa alternativa è interessante per capire che qualche volta la carriera può escludere questa possibilità. Lei però a Padova aveva conosciuto Angelo e ne era nata una storia bella che l’avrebbe portata al matrimonio nel 1993 e alla nascita dei loro tre figli. E anche con loro tanta passione, di moglie, di madre, cercando di esserci, di sostenere, di incoraggiare. Perché non è sempre facile articolare una famiglia quando hai un ambulatorio cui badare. Eppure i suoi figli l’hanno sempre sentita accanto con quell’abilità che hanno le madri di esserci in maniera differente, di capire le esigenze di ciascuno, di dosare sapientemente complicità e autorevolezza, magari alzandosi presto al mattino per fare un po’ di scuola guida con chi non aveva il coraggio di affrontare il traffico delle ore successive. Forse era questo suo essere madre che consentiva a Patrizia di essere accanto a tante madri e forse le tante madri che lei ha accolto e curato le hanno regalato una misura in più di maternità di cui lei a casa ha saputo farne tesoro.

Ad un certo punto però il medico è diventato paziente. È qualcosa che non dovrebbe funzionare così perché i dottori ci stanno per farti guarire e loro stessi non dovrebbero ammalarsi. Ma forse nella ricompensa per quello che spenderai in più c’è anche questo passaggio che il buon samaritano ti chiede e ti rimborsa: quello di lasciarti lavare i piedi dopo che li hai lavati a molti, quello di mostrarti vulnerabile dopo che gli altri ti credevano invincibile, quello di affidarti a un altro medico, dopo che ai tuoi mali hai badato da te. È un passaggio costosissimo, che Patrizia ha vissuto con verità, con umiltà, con speranza. Tutte le terapie possibili con fiducia, ma anche la consapevolezza di un morbo aggressivo. Una punta di umorismo di chi dice l’erba cattiva non muore ma anche la preparazione di marito e figli a quanto stava capitando. La voglia di continuare ad esserci ma anche la decisione sofferta di concludere il servizio, anticipando la pensione. La sosteneva la sua famiglia, sua mamma, sua sorella, tante relazioni buone, ma anche la sua fede maturata tra gli scout, vissuta in parrocchia, anche in questa parrocchia che continuava a ritenere ancora la sua. Un anno fa aveva ricevuto l’unzione degli infermi e nei giorni scorsi, sentendo che il tempo si era fatto breve, aveva disposto con sua sorella che avrebbe voluto qui i suoi funerali con le note del Buon Pastore. Non ha fatto in tempo a precisare altro perché proprio in quel momento la situazione è precipitata. Ma il Buon Pastore aveva già fatto in tempo ad udirla e oggi a raggiungerla con le parole di speranza che abbiamo appena ascoltato: Perché così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Sulle spalle del Buon Pastore, Patrizia trovi ottimi pascoli, sia accanto ai suoi cari, ci regali la sua forza e la sua speranza.

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