domenica 9 agosto 2020

Omelia funerale papà Danilo

 

Funerale papà Danilo – 13 luglio 2020

Rm 8,31-35.37-39 Lc 12,35-40 

Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese, siate simili a coloro che aspettano.

Aspettare. Era un verbo con cui il papà aveva una certa consuetudine, anche se non era un tipo che amasse troppo le attese. Ogni volta che si doveva andar via, saliva in macchina almeno dieci minuti prima del previsto, costringendo la mamma, rea di essere sempre in ritardo, ad accelerare i suoi preparativi. Varda mi che presto che fao. Così quando lo accompagnavo a Montebelluna per la chemioterapia, lui era pronto già di buon mattino e non c’era verso di fargli capire che, a motivo Covid, in reparto bisognava andare all'orario stabilito. E se per strada succede qualcosa? E se c’è traffico? Così mi è parso strano che giovedì scorso non fosse già sulla porta ad aspettarmi. Pochi istanti, il tempo di renderci conto di quello che stava succedendo. Il papà era in attesa di Qualcun altro che era venuto a prenderselo. Il padrone era arrivato e, scombussolando tutte le nostre tempistiche, aveva già portato Danilo con sé. Era la morte che lui si augurava, per la quale pregava, cozzando qualche volta contro le nostre rimostranze famigliari. Perché la bella morte, obiettava il figlio prete, non è solo quella i cui si fa presto, ma anche quella cui ci si prepara.

E lui faceva capire che non trascurava tale esigenza. So ndato confessarme da don Paolo anca l’altro dì. In realtà, il male che gli era stato diagnosticato lo stava mettendo alla prova e lui, abituato a dire poco di sé, in qualche occasione aveva confidato al medico la sua inquietudine: Come va signor Giacometti? El pensiero ze sempre là. Aveva ben presente il travaglio di numerosi compagni di lavoro, che se ne erano andati per la stessa malattia polmonare e per questo era disposto a barattare con il Signore un po’ di anni perché gli fossero risparmiate le sofferenze. E sembra che il Signore lo abbia accontentato. Ecco, il papà con il Signore era di poche parole, ma evidentemente si capivano, in una relazione di fede semplice e quotidiana dove c’era posto per Dio e per gli altri, per la preghiera e l’operosità, per le responsabilità di una famiglia e per una famiglia più grande fatta di numerosi contatti, alcuni dei quali a volte ci sfuggivano. Ci sembra questa un’eredità preziosa che rende cristiana la vita e la morte e che ci fa credere che, al di là della velocità con cui il papà ci è stato tolto, lui, come raccomandava Gesù, non si sia lasciato scassinare la casa. Quale casa?

1.    Custodiva innanzitutto quella casa che eravamo noi, la sua famiglia, rallegrata dai nipotini. E custodiva la casa che con la mamma e con tanto sacrificio aveva costruito in Via S. Giorgio. Quanto costasse quella casa, io bambino lo vedevo nelle tute di lavoro che a lungo dovevano stare in ammollo, quando ancora non avevamo una lavatrice. E lo vedevo nelle sue mani sempre screpolate e callose, sulle quali quintali di Glysolid non sono riusciti ad avere la meglio. Un lavoratore. Il papà non aveva avuto lunghe frequentazioni scolastiche, ma una poesia gli era rimasta in mente, l’unica che spesso ripeteva a noi figli: Dice il Signore a chi batte alle porte del suo Regno: “Fammi vedere le mani; saprò io se ne sei degno” (Renzo Pezzani). E lui era proprio convinto che al Signore avrebbe fatto vedere le mani, lasciapassare indiscutibile per il paradiso, al quale non si accedeva con i discorsi, ma con la fede operosa e la vita spesa per gli altri. Della poesia il papà, forse per modestia, ricordava solo la prima strofa, ma cercando su internet in questi giorni ho recuperato anche le altre due. L’operaio fa vedere le sue mani dure di calli:/ han toccato tutta la vita terra, fuochi, metalli./ Sono vuote d’ogni ricchezza, nere, stanche, pesanti./ Dice il Signore: “Che bellezza! Così son le mani dei Santi!”. C’è un po’ di enfasi poetica, ma c’è anche l’invito a ricordare che mani pulite, per i cristiani, non sono sempre una virtù. La casa dell’operosità.

2.    Ma la casa che il papà non si è lasciato scassinare era anche più ampia di casa nostra. Nonostante la Fervet, insieme al pane quotidiano, gli avesse fatalmente minato la salute, attivando solo in tempi recenti le precauzioni contro l’amianto, di quell'azienda manteneva un ricordo grato, specialmente per le relazioni che aveva vissuto al suo interno. Non ne faceva mostra, ma custodiva con un segreto orgoglio una medaglia pesantissima, in ghisa, fatta dai suoi compagni di lavoro, quando se ne era andato in pensione. Niente di artistico, ma solo una scritta che per lui valeva come il Nobel: Al buon Danilo. A dire il vero, non era sempre così tranquillo: ogni tanto si accendeva, si alterava. Ma erano temporali primaverili che non lasciavano rancore né risentimento. Perché degli altri aveva bisogno. Lo vedevamo chiacchierare con chi passava per strada mentre curava l’orto, offrendo consigli, saluti, giovialità, insieme a zucchine e pomodori. Gli piacevano questa comunità della Pieve, i suoi preti, la sua gente e ricordava con nostalgia il passato sportivo come calciatore e allenatore, anche sul campo dietro a questa chiesa, cui si affacciava dalle finestre della sacrestia, quando da chierichetto le prediche erano troppo lunghe. Io ci vedevo una tessitura buona, avvolgente, fatta di amabilità, di disponibilità di cui oggi abbiamo bisogno e di cui tutti possiamo essere artefici. L’ultimo gesto che il papà ha fatto è stato quello di seminare radicchio, ma mi pare che abbia seminato qualcosa in più e che lui abbia ospitato nel suo campo anche i semi buoni del vangelo. Almeno qualcuno.

3.    C’è infine la terza casa che papà non si è lasciato scassinare. Quella della sua vita interiore, con il Signore. Non era esente da limiti e da debolezze, ma ci ha lasciato il ricordo buono della sua coerenza cristiana, della preghiera semplice, della messa domenicale che non ha mai perso, delle bestemmie che non ha mai detto. Non reggeva un rosario intero, ma gli piaceva dirne un pezzo con il Card. Comastri e ci teneva che, finita la chemioterapia, tornassimo dall'ospedale di Montebelluna non per la statale fatta all'andata, bensì per Fanzolo, dove, presso il Santuario del Caravaggio, chiuso anch'esso per il lockdown, si sostava in macchina e si recitava un’ave-maria. Mi venivano in mente ogni volta i Magi che, dopo aver visto il Bambino e la Madre, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Era la strada della fede che il Signore chiedeva al papà e a noi, quella che oggi ci fa credere che le preghiere non sono state fatte per niente, che il Signore vede più in là di quello che oggi ci sembra incomprensibile, che c’è un’altra realtà da accogliere e abitare. Chi ci separerà dall'amore di Dio in Cristo Gesù? Che questa domanda guidi le nostre domande, divenga rassicurazione buona sul presente e sul futuro, compassione e misericordia per il papà, consolazione e speranza per tutti noi.  


Dice il Signore a chi batte
alle porte del suo Regno:
“Fammi vedere le mani;
saprò io se ne sei degno”.
L’operaio fa vedere
le sue mani dure di calli:
han toccato tutta la vita
terra, fuochi, metalli.
Sono vuote d’ogni ricchezza,
nere, stanche, pesanti.
Dice il Signore: “Che bellezza!
Così son le mani dei Santi!”.

R. Pezzani – Le mani dell’operaio


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