giovedì 30 dicembre 2021

 

Ascensione del Signore

Ci impressionano le immagini della Palestina, i cieli attraversati dalle scie luminose dei razzi lanciati su Gaza e Tel Aviv. Immagini di una guerra dolorosa e fratricida che si trascina da decenni con colpe scaricate da una parte e dall’altra. In questa festa dell’Ascensione ci piacerebbe vedere un cielo differente, quello che ha inaugurato Gesù ritornando al Padre: Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Un cielo che raccoglie un’unica umanità, un cielo sotto il quale c’è posto per tutti. E perché questo sogno si realizzi, la festa di oggi ci suggerisce tre movimenti: in salita, in discesa, in avanti.

1.    Il primo movimento va verso l’alto. Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Gesù ci invita a dare altezza alla vita, a non soffocarla depotenziandola della sua forza spirituale, ultraterrena. C’è di più di quello che si vede: mi colpiva quello che diceva un cresimato a proposito della pandemia: Secondo me Gesù ha detto: “Fermatevi tutti e pensate a me”. E come dargli torto: al giorno d’oggi per lui ritagliamo pochissimo tempo, siamo tutti sempre impegnati e ci dimentichiamo spesso la ragione per cui siamo in vita. Un ragazzo ci ricorda le ragioni alte dell’esistenza. Quelle che motivano la scelta di battezzare un bambino e di educarlo nella fede. Quelle che interrogano il modo con cui viviamo la domenica. Quelle che riguardano la realtà della morte e una vita eterna ritenuta improbabile anche dagli stessi cristiani. Esiste cielo sulla tua vita, sulle tue giornate? Giovedì un 19enne si è buttato dal multipiano di Moncalieri, a Palermo mercoledì un trentenne si è tolto la vita lanciandosi dal terzo piano di casa. Un ventinovenne ieri sull’autostrada vicino a Brescia, anche lui l’ha fatta finita. E poi le risse dei quindicenni. Fragilità certo, pandemia, situazioni psicologiche complesse. Ma anche la nostra incapacità di guardare con speranza alla vita, di indicare orizzonti. Questi ragazzi ci smascherano, ci dicono che il re è nudo. E non basta riaprire la movida: bisogna riempire il cuore, accendere il desiderio, indicare l’oltre. Perché quello che vedi dal multipiano è troppo limitato.

2.    Il secondo movimento è verso il basso. Che significa, si chiede Paolo, che ascese se non che prima discese? Paradossalmente tu vedi il cielo se ti distendi sulla terra, se rimani aderente ad essa. È questa terra che deve diventare cielo. Com’è che diventa cielo? Paolo lo ricorda: Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. I razzi non sono solo a Tel Aviv, sono anche tra noi. Razzi che alterano anche il momento in cui una persona muore, perché anziché lasciarla andare in pace, intorno a lei si scontrano le preoccupazioni per l’eredità, il controllo di chi entra e chi esce di casa, le diffide reciproche a stare lontani. Non va meglio con le prime comunioni, con bambini che vengono riprogrammati a ignorare i nonni, quella zia odiosa, i vicini di casa. E a dare le risposte scritte sul copione spietato dei loro genitori. Il giorno della prima comunione. Pensi di fargliela pagare al parente, reo di chissà quali colpe, la stai facendo pagare a tuo figlio. In sofferenza, menzogna, sensi di colpa e cattiveria che, se qualcuno non lo salva e non gli suggerisce una vita diversa, un ragazzo imparerà a sua volta a coltivare e a far crescere. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: prenderanno in mano i serpenti. Non liberare i serpenti: impara a prenderli in mano, a controllarli, a dominarli. Il serpente del rancore, della gelosia, del risentimento, della vendetta. La comunione non è la sceneggiata in chiesa, è la vita in comunione.

3.    Infine movimento in avanti. È quello che Gesù raccomanda ai suoi amici prima di salire al cielo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Il cielo appare se porti vangelo, se abiti il mondo con la buona notizia che ti appartiene, se regali verità, speranza, fiducia. Pensate agli Stati generali sulla natalità che si sono tenuti a Roma. È sotto agli occhi di tutti il vistoso calo demografico che passa da un anno all’altro,  con nuovi record negativi. Dal 2008 la flessione è del 30%, nello scorso anno del 3,8. E non c’è solo un problema economico, cui il Governo sta cercando di dare risposte; c’è anche un problema culturale, che ha a che fare col tempo libero, con la libertà, con la realizzazione di sé. Ad esempio negli ambiti dello spettacolo e dello sport “è triste vedere modelli a cui importa solo apparire, sempre belli, giovani e in forma”. Ma mantenersi giovani “non viene dal farsi selfie e ritocchi”, ma “dal potersi specchiare un giorno negli occhi dei propri figli”. Ecco il vangelo: cosa annunci in questo tempo, cosa ti sta a cuore? Giusto difendere le persone dalle discriminazioni, senza perdere di vista la discriminazione della vita nascente e il sostegno di chi la può promuovere. Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Lo guardiamo il cielo, ogni tanto. Ma ricordiamoci che è sceso qui sulla terra e con la forza del vangelo si allarga e ci regala bellezza.

 

mercoledì 29 dicembre 2021

Esequie Diego Marchesan

 

Esequie Diego Marchesan (29 dic. 2021)

(Letture bibliche: Rm 8, 31-39  / Lc 2,41-52)

Non si sa se certe persone siano nate così o se sia stata la vita a plasmarli. Fatto sta che Diego, fin da piccolo mostrava le sue propensioni. Il papà lo andava a prendere in asilo e lui dov’era? Nascosto in fondo ai tombini che formavano il trenino colorato da cui usciva solo quando gli veniva promesso che avrebbe guidato lui il motorino per rientrare a casa. Era affascinato dal vento. Gli piaceva vedere l’albero in giardino agitarsi quando arrivava il temporale. «Stai lontano, gli diceva sempre il papà, c’è un leone, ti mangia». Ma questo avvertimento rendeva la faccenda ancora più interessante. Così, se c’era una collina, lui doveva arrivare in cima rima degli altri e, se c’era un fiume, lui si doveva sporgere sull’argine. Poi arriva l’adolescenza con le sue turbolenze, con le raccomandazioni che sembrano fatte per niente, con la ribellione che accompagna numerosi ragazzi e che si riflette sulle loro famiglie, su genitori che registrano l’inefficacia dei loro interventi.

La vicenda di Maria e Giuseppe che perdono il loro figlio dodicenne forse ci può aiutare a comprendere quello che succede a casa nostra, a rileggere la vicenda di Diego e a capire che perduti e ritrovati, in fondo, lo siamo un po’ tutti.

1.    Anzitutto c’è la constatazione di un’assenza. Un ragazzo che non è più nella carovana. Maria e Giuseppe erano stati a Gerusalemme, per la festa di pasqua e avevano portato anche il loro figlio.  La visita ai parenti, la liturgia del tempio, le ricorrenze, i ricordi, in una ritualità consegnata da una generazione all’altra. Poi il ritorno, a Nazaret. Le famiglie viaggiavano unite per affrontare meglio il cammino e i ragazzi, come avviene anche oggi, stavano insieme, sotto lo sguardo degli adulti. Ma non era un controllo serrato. E così Maria e Giuseppe, credendo che Gesù fosse nella comitiva si accorgono che manca, solo dopo una giornata di cammino. E tornano indietro. Ecco la prima questione importante: accorgersi di chi manca e iniziare a cercare. Non è detto che troviamo subito chi manca, che chi è scomparso sia disposto a rientrare. Ma, cercando, evitiamo di sparire anche noi, di sottrarci alla nostra responsabilità di padri, di madri, di educatori. Un ragazzo prima o poi prenderà le distanze da casa, ma anche questa salutare e necessaria operazione sarà possibile solo se c’è una casa, un riferimento, perché dal nulla non ci si può distanziare. La vicenda di Diego interroga i rapporti che ci legano, famiglie e genitori che spesso si chiedono che cosa possono ancora fare per un figlio che rompe gli abituali confini, ma anche le relazioni, le compagnie di quel figlio: stai custodendo i tuoi amici o qualcuno manca all’appello?  Diego aveva tanti amici e in queste ore sono stati proprio loro a farci conoscere qualcosa in più di lui: i suoi spostamenti, le sue idee, la sua sensibilità, compreso il cuore che nascondeva sotto la corazza del ragazzo testardo e ribelle. La vicenda di Diego interroga anche le istituzioni, quelle alle quali era un po’ allergico. Ma forse è proprio per gli allergici che dovremmo imparare ad esserci, senza pensare che debbano sempre adeguarsi loro e accettando qualche volta di poter cambiare anche noi, chiesa compresa. Il tentativo di costruire un oratorio risponde a questa esigenza e dovrebbe essere un pensiero non solo del prete ma dell’intero paese che a volte non ha idea di dove siano i suoi giovani o li presuppone nella carovana. Uno degli aiuti che Diego ha avuto nella sua adolescenza è stata la vecchia Agenzia delle idee, realtà che ha accompagnato la storia di Castello di Godego e che forse potrebbe ricordarci uno stile di prossimità e aiutarci a capire se i perduti siano i ragazzi che ci provocano con il loro stile poco convenzionale o non siamo noi incapaci di raccogliere i loro segnali. Cercare e cercarsi. Ascoltarsi, magari mandare segnali. Attivare i localizzatori.

2.    Nella ricerca di Maria e Giuseppe ci sono però anche le loro domande: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io angosciati ti cercavamo. Penso a quante volte Renato e Daniela avran fatto o si saran fatti questa domanda. Ed è proprio questo l’atteggiamento importante: farsi domande, capire, tenere aperta la vita e la possibilità che essa ci riveli qualcosa in più, che l’altro di dica qualcosa in più. Perché in genere, più che domande noi formuliamo risposte, sulla base di idee, non sempre verificate o di pregiudizi che già hanno collocato l’interlocutore di turno nelle nostre semplificazioni o nelle nostre esclusioni: tu sei, tu devi, tu non… Un genitore però fa il suo lavoro e ci prova sempre: a capire, a ragionare, a dire la sua. E allora Diego marcava le distanze: «Basta, madre! Te me ghe insegnà tutto. Desso fasso mi».  Daniela,  per tutta risposta, gli mandava una faccina con la bocca cucita. E lui allora, di lì a poco, nuovo messaggio: «Scusa, mammetta». Madre, quando si impuntava e difendeva il territorio, mammetta quando capiva che quel legame era vitale. E così Daniela si rifugiava nelle parole di Madre Teresa. I figli sono come gli aquiloni: gli insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo. Gli insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo sogno. Gli insegnerai a vivere, ma non vivranno la tua vita. Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto. Educare vuol dire credere in una promessa di vita buona, anche quando tarda a realizzarsi. E forse, proprio per questo, Daniela, pensando ai suoi figli, ogni tanto si affacciava sulla finestra di casa, verso il Santuario della Crocetta, dicendo: Ciao, Maria, ricordate che i ze tui. Eora vedi ti.

3.    Infine le convinzioni. Perché ogni ricerca insegna qualcosa. Ci possono far riflettere le parole che Gesù rivolge ai suoi: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Sia chiaro, Diego non era Gesù, come Daniela e Renato non erano Maria e Giuseppe. Come noi non siamo nessuno per intervenire nelle loro faccende. Ognuno porta con sé risorse e fatiche, energia e limite e ciascuno a casa propria nasconde qualcosa che gli altri non sanno. Ma quella risposta di Gesù non va a frugare nei nascondigli: è un invito a figli, padri e madri, forse anche a fratelli, nonni, amici a interrogare la vita ad un livello più alto. Quello delle cose del Padre. Perché a volte la confusione avviene quando siamo troppo legati alle cose della terra e non ci rendiamo conto che è il cielo la nostra misura più vera, come questo tempo di natale ci aiuta a ricordare. Gloria a Dio nei cieli e pace in terra agli uomini che lui ama. Abbiamo bisogno di prendere sul serio la vita e i suoi confini, abbiamo bisogno di distinguere ciò che resta da ciò che passa, abbiamo bisogno di agganciare i giorni a Qualcuno che li accompagni e li custodisca. Chissà qual era il mondo religioso di Diego: non amava la chiesa, ma don Giovanni Faganello, rettore della Crocetta, gli era rimasto nel cuore e lo andava a trovare. Non era tipo di tante devozioni, ma tornando dal Messico aveva con sé le medaglie di Nostra Signora di Guadalupe; chissà se credeva nella vita eterna, ma per i funerali della nonna era arrivato da lontano, accompagnandola con le preghiere. E soprattutto era uno dal cuore buono e generoso, che per aiutarti faceva l’impossibile. Allora, certo, sono importanti le preghiere, la messa, le medagliette, ma il paradiso è aperto soprattutto dalla carità, quella che sai praticare anche se non sai che si chiama così.

Diego scherzando, rassicurava ai suoi: «Vedarì che a 35 anni metto a testa a posto». Poi l’obiettivo dei 35 era stato spostato ai 40.  Li avrebbe compiuti proprio oggi, 29 dicembre. Vedrà il Signore se quella testa, Diego, l’avesse messa a posto. Forse però poco importa. Perché quel che interessa a Dio non è tanto la tua testa, ma il tuo cuore. Che possa aprirsi a lui e agli altri, che possa ospitare ribellione ma anche verità, che possa battere delle tue passioni ma anche delle passioni di Dio per ciascuno dei suoi figli, compresa la passione con cui li va a cercare nel momento della morte. Diceva S. Paolo poco fa: Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Chi può resistere alla sua ricerca? Affidiamo Diego al Signore. Lo accompagni all’incontro la Vergine della Crocetta, sua vicina di casa, che l’ha visto crescere e che meglio di ciascuno di noi sa leggere e comprendere il cuore di questo suo figlio. E la Vergine accompagni anche noi e ci insegni la maternità vera, quella di una chiesa e di una società che non perdano nessuno e che possano essere ugualmente casa, ovunque un ragazzo, un giovane o un uomo mettano la loro dimora. 

lunedì 29 novembre 2021

Omelia esequie Federico Pegoraro

 

Federico Pegoraro (29 nov. 2021)

(Lam 3,17-26 / Gv 12, 20-25)

Alle origini del sole

agli albori delle stelle

nasceva Gaia

una forza sovrumana, la natura.

Una melodia, la più pura.

Una foglia la nostra creatura, flebile al vento, guidata da Eolo

con portento.

Una spira di vento.

Un terreno puro e duro.

Un filo d’erba verde

per chi non si perde

ma ci crede ancora.

Con questa poesia, la scorsa estate, Federico si è guadagnato una menzione speciale al premio letterario “Onigo Mura Bastia”. Una poesia che muove dalla formazione dell’universo, della terra, della natura. Una forza sovrumana. E in questo flusso di energia cosmica, l’uomo, la nostra creatura, appare come una foglia portata dal vento,  che si posa sulla terra: un terreno puro e duro. Tutto finito? No. Federico ci invita a osservare un filo d’erba verde, presagio di una vita che continua, per chi non si perde, per chi ci crede ancora.

1. La vita di Federico è così, foglia portata dal vento, depositata sul terreno duro della giovinezza rapita, di una malattia in buona parte sconosciuta, delle terapie dall’esito incerto, delle attese infinite e di numerose conseguenti delusioni. Per lui e per la sua famiglia. Vengono in mente le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Libro delle Lamentazioni.

Son rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere.
Il ricordo della mia miseria e del mio vagare
è come assenzio e veleno.
Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima.

Ma Federico non viveva accasciato. Non l’aveva fatto prima della malattia e non l’ha fatto neanche durante.

Era quel filo d’erba nel quale credeva e nel quale invitava a credere. Basta scorrere le pagine di Sunshine, narrazione autobiografica che descrive l'iniziale lucido confronto con gli esordi del male, per rendersene conto. La voglia di esserci, di lottare, di capire era più grande dei limiti che il male poneva, della fatica di motivare agli amici quello che stava capitando, dell’incertezza che trapelava dal colloquio con i medici, della necessità di riorganizzare la vita sulla base del possibile e non del desiderabile. Ma ugualmente Sunshine, sole che splende, anche quando nella camera dell’ospedale di quella luce ne filtrava troppo poca. Federico è un invito ad amare la vita, ad accoglierla in ogni stagione, a ricercarla anche nelle pagine dolorose che sembrerebbero smentirla e per le quali a volte vorresti farla finita.

Ogni malato ha qualcosa di importante da dirci, ogni malato è docente ordinario alla cattedra del dolore, ogni malato merita attenzione, rispetto, silenzio. E ogni malato è una provocazione su come viviamo i nostri giorni, specialmente quelli in cui perdiamo la proporzione delle nostre paturnie rispetto a chi sta male davvero, ci lamentiamo del nulla o rimaniamo in ostaggio di un altro male, che forse potremmo curare: la presunzione, il rancore, il sospetto, la chiusura del cuore. Val la pena di vivere così? Federico avrebbe qualcosa da dirci? Forse sì, il filo d’erba verde. Da cui tutto può ripartire. Anche la guarigione dal male che non credi di avere. Non calpestare mai le possibilità che la vita ti offre, neanche quelle più flebili. 

2. Ma Federico non ha combattuto da solo. La breve parabola della sua vita è stata accompagnata dalla straordinaria, diuturna vicinanza della sua famiglia. Tenace e caparbio era lui nello studio, negli impegni, nei valori in cui credeva, ma altrettanto ostinati erano i suoi nell’assicurare presenza, assistenza, affetto, speranza. La mamma, il papà, i fratelli, qualche familiare. Una fedeltà che commuove, perché un conto sono le situazioni che si risolvono in fretta, un conto è lo stillicidio dei giorni che si ripetono uguali, talvolta su una brandina accanto a chi ami, dove ogni respiro percepito diventa la misura del tuo. Una volta ho chiesto a Gabriella come facesse a resistere così a lungo, così determinata. «Non sopporto l’idea, mi disse, che Fede, svegliandosi possa vedere un volto diverso dal nostro». Ma un volto diverso, a dire il vero, c’era: era quello degli amici. Quelli consegnati già dalla scuola materna, quelli dei giochi e delle scorribande, delle confidenze e delle cavolate, quelli che allargano il mondo e lo rendono appassionante. Ma anche quelli che non ti mollano, che sono disposti ad ascoltarti seguendo il tuo sguardo sul vetro alfanumerico mentre componi una frase, quelli che sfidano i protocolli pur di stare con te, anche nella pandemia. Forse il filo d’erba di Febo, così per gli amici, è anche il filo delle relazioni. Esserci per qualcuno. Voler bene e lasciarsi voler bene. Perché l’uomo è fatto così e perché, forse, è tutto qui il segreto della vita. Nati grazie a qualcuno, solo se a qualcuno ci affidiamo e solo se qualcuno ci viene affidato comprendiamo chi siamo. Stringi relazioni buone, non perdere nessuno. Perché così non ti perdi neanche tu.

3. E Dio dove è andato a finire? C’è spazio per lui nel momento in cui tutto sembra smentirne la presenza e l’azione? Federico non ha mai fatto questo pensiero, non apparteneva né a lui né ai suoi. E non perché fossero indifferenti. Ma forse perché Dio dava loro un appuntamento diverso dai soliti. Quello del chicco di grano che muore. «Signore, chiedono alcuni greci a Filippo: Vogliamo vedere Gesù». E quando quella domanda arriva a Gesù, lui risponde: «Se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane da solo, se invece muore produce molto frutto». È stata la mamma di Federico a ricordarmi questa pagina. E allora mi viene da pensare che il filo d’erba verde non fosse il prato all’inglese, ma il germoglio di quella vita nuova che Gesù stava nuovamente generando, in Federico e in chi gli stava accanto. Vita nuova di chi rimaneva e non si scostava dalla croce, come Maria e il discepolo amato, accettando di abitare un lungo venerdì santo. Vita nuova di chi continuava a serbare la memoria delle cose belle vissute insieme, senza che il male riuscisse a cancellarle. Vita nuova di chi, mentre attendeva di abbracciare le membra di un figlio per l'ultima pietà, lasciava che il suo corpo ancora potesse restituire speranza ai giorni di qualcun altro. 

E vita nuova per Federico, per quella strana possibilità che appartiene a Dio di prendere sul serio le nostre preghiere. Perché se un tempo, in macchina col papà, Federico recitava le preghiere andando a scuola, ora con la sua vita era diventato preghiera, quella che appartiene a tutti i crocifissi della storia e che lui, Gesù, crocifisso con loro, conosce bene. Una preghiera alla quale agganciamo anche la nostra, perché Dio ci aiuti a vedere dove non vediamo. Una preghiera che è anch’essa un filo d’erba verde, su un terreno duro e puro, per chi non si perde, per chi ci crede ancora.

domenica 24 ottobre 2021

Omelia 24 ottobre 2021

 

Trentesima domenica del T.O. GMM

C’è una trasmissione, una nuova serie coreana seguita da milioni di persone in tutto il mondo. È un gioco tragico in cui dei poveracci indebitati vengono messi in competizione con la promessa di un premio in denaro che porrà fine alla loro povertà. Solo che chi è eliminato dal gioco non va a casa, ma viene ucciso. Squid game. Il gioco del calamaro. Ciò che mi impressiona non sono solo la brutalità con cui si esce dal gioco o la sinistra competizione che si crea tra i partecipanti, ma la loro trasformazione, determinata dal denaro. Se infatti ad un certo punto, dopo le prime eliminazioni, chi volesse potrebbe andarsene, di fatto in molti rimangono o ritornano per giocare di nuovo, attratti dal monte premi che cresce e modificati nelle loro stesse convinzioni, nei valori in cui credevano: la vita, la dignità, la libertà, il rispetto di ogni individuo. E chi muove il gioco lo sa e si diverte a tenerti in scacco, a cambiare le tue convinzioni, a usurpare il luogo più sacro che ti appartiene: la tua coscienza. Eccolo qui il calamaro. Che ti schizza il nero in faccia, che ti impedisce di vedere, che ti oscura la verità, che ti cattura e ti mangia.

Quel cieco di cui ci parla il vangelo di oggi un tempo ci vedeva. E infatti dice a Gesù: Rabbuni, che io veda di nuovo. Ma qualcosa ha spento i suoi occhi. Non è che anche noi stiamo perdendo la vista? La vista della fede, del vangelo, di quella vita buona che Gesù sogna per noi? Proviamo a raggiungere il cieco e a metterci accanto a lui. Per capire, per gridare, per guarire, com’è capitato a lui.

1.    Bartimeo vive a Gerico, oasi nel deserto, città di frontiera dove c’erano molte seconde case e un tenore di vita medio-alto a motivo dei fiorenti commerci che transitavano. Ma Bartimeo è un poveraccio ed è là col mantello raccolto sulle ginocchia per raccattare qualche moneta che gli veniva gettata dai mercanti di passaggio. Bar-timeo è il figlio di Timeo. Timè in greco è l’onore. Bartimeo è il figlio di un onore che non c’è più, costretto com’è a vivere di elemosina. A volte anche noi assomigliamo a Bartimeo e mendichiamo elemosina. L’elemosina è una dipendenza malata. Da tua madre che continua a mantenerti perché non trovi lavoro: però il lavoro manco lo vai a cercare o non è mai quello che vorresti. L’elemosina del mantenuto. Ragazzi isolati che iniziano a frequentare i bulli e che diventano bulli a loro volta perché così acquistano rispetto; chi non mi ama almeno mi tema: l’elemosina del branco. L’elemosina dell’apprezzamento che non hai avuto da piccolo e che ancora ti porta a essere geloso di tuo fratello e a covare di risentimento. L’elemosina della ripicca, del puntiglio, di chi gliela fa pagare per essere appagato. Senza riuscirci. Ad un certo punto Bartimeo si alza e butta via il mantello. Ecco l’operazione da fare: alzati in piedi, riprendi in mano la vita, smettila di raccattare monetine e ricordati che sei figlio dell’onore, della dignità, di una bellezza che Dio continua a scorgere dentro di te. Lui è la luce. Esci dalla nube di inchiostro e impara a guardarti come ti guarda Dio.

2.    C’è un’altra dinamica importante per essere guariti dal calamaro. Cercare alleati, persone che ti ascoltino nella tua ricerca di luce e ti aiutino ad arrivare a Colui che è la luce. Perché non è detto che succeda così. Quando infatti il cieco grida, qualcuno interviene per farlo star zitto. Molti lo rimproveravano perché tacesse. È quello che capita anche oggi, quando uno cerca sentieri di verità, di fede, di vangelo. Taci, cosa ti inventi? Un ragazzo di separati che chiede di andare a messa e il padre che gli dice: ci vai quando sei con tua madre. Non mi fare più questi discorsi. Gesù potrebbe chiamare il cieco e risolvere direttamente la questione, ignorando la folla. Invece il suo intervento cerca ugualmente una mediazione, cerci i discepoli ai quali dice:  Chiamatelo. E costoro si premurano di andare dal cieco per dirgli: «Coraggio, alzati, ti chiama». Perché Gesù non si arrangia? Perché sa che dev’essere guarito il cieco e devono essere guariti anche i discepoli. Dall’inerzia, dalla rassegnazione, dall’indifferenza o dalla vergogna quando qualcuno ti chiede di aiutarlo a crescere nella fede. Oggi celebriamo la Giornata Missionaria. Ed essa porta questo messaggio: Profeti e testimoni. Non possiamo tacere. Come i due genitori di quel sedicenne di Cosenza che, quando hanno scoperto che era il loro figlio l’autore del pestaggio a sangue di un coetaneo, lo hanno portato dai Carabinieri per l’autodenuncia. Non facciamo altro che chiederci dove abbiamo sbagliato, dopo aver vissuto tutta la vita, e il nostro essere famiglia, guidati dai valori dell’accoglienza, della correttezza e del senso di responsabilità… Non so se avremo mai risposta a questa domanda, ma, proprio sulla base dei valori che ci guidano, riteniamo giusto che nostro figlio impari ad assumersi le sue responsabilità ed a rispondere delle sue scelte e delle sue azioni, sebbene ancora minorenne. Il ragazzo sopraffatto dal rimorso aveva confessato e loro quel grido sommesso lo hanno preso sul serio. Non possiamo tacere.

3.    E infine quella richiesta. Rabbuni, che io veda di nuovo. Mi pare una bella provocazione per chiederci dov’è che dobbiamo tornare a vedere di nuovo. Vedere di nuovo qualcuno? O vedere in modo nuovo qualcuno? O vedere la vita in maniera più attenta. Una relazione alla Settimana Sociale di Taranto ci ha messo di fronte ai cambiamenti climatici che interesseranno l’Italia dal 2050. Troppo vicina questa data per non lasciarci inquietare e non cercare di vedere di nuovo le responsabilità che ci appartengono, anche quelle che mettono in discussione i nostri stili.

E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. Il cieco guarito riprende il cammino e ci fa capire che è anche il nostro cammino  perché il calamaro non vinca e perché la luce ci sia, per noi e per ogni mendicante di verità.     

sabato 1 maggio 2021

Omelia esequie Nicolò Guidolin

 

Funerale Nicolò Guidolin (30 apr. 2021)

(Letture: Rm 8,31-35.37-39/ Gv 21, 1-25-30)

La canna da pesca appoggiata sulla bara di Nicolò sembra riposare con lui, ricordargli e ricordarci quella passione che l’ha accompagnato fin da bambino quando, al mare, un giorno, aveva conosciuto un pescatore dal quale era rimasto affascinato. Da allora tante canne si sono alternate nella sua vita, testimoni dei timidi lanci nel Brenton e nel Muson e di quelli più esperti nel Brenta, le cui rive Nicolò raggiungeva con i suoi amici, anche in bicicletta, fino a Bassano e a Solagna, come si può fare solo con l’entusiasmo e la spensieratezza dei sedici anni. I mezzi di trasporto poi erano cambiati, ma la felicità era sempre la stessa: di chi arrivava, metteva una tenda, sistemava l’attrezzatura, studiava il fiume, lanciava e rimaneva in attesa.

La pesca. È metafora della vita. Basta sfogliare alcune pagine di Hemingway, per rendercene conto. Basta ascoltare De Andrè per ritrovarci accanto a quel pescatore, che "all’ombra dell’ultimo sole" ha insegnato a generazioni la calma, la tolleranza, la pazienza con se stessi e con gli altri.  Forse è per lo stesso motivo che Gesù chiama con sé dei pescatori, perché fosse questa loro antica professione a raccontare qualcosa di Dio e degli uomini, di quello che scorre lungo il fiume della vita e di quello che puoi tirare a galla. E di questa storia, fatta di cielo e di terra, di acque placide o irrequiete, forse la lenza di Nicolò può dirci qualcosa di importante. E' lei oggi a fare l'omelia. Può raccontarci la pazienza, la determinazione e l’ulteriorità.


1.    La pazienza è una dote importante per il pescatore. Ti restituisce il senso vero della vita: l’attesa, l’umiltà, la prudenza, il senso del limite. Quanta pazienza serve ad un genitore mentre accompagna la crescita di un figlio? Consigli, raccomandazioni e quel pensiero che ti martella da che lo metti al mondo: dov’è, starà bene, ha mangiato, è rientrato? Magari mentre apri la porta della camera per vedere se è a letto e tiri un respiro di sollievo.  Di fronte alla morte di Nicolò, credo che molti abbiano pensato al pomeriggio di sabato scorso. Ma cosa gli è venuto in mente? Ma quella moto, ma non poteva starsene a casa, ma non poteva andare alla cresima di sua sorella? Sono i nostri ma, ragionevoli forse di fronte a un ventenne, ma a volte poco meditati, poco aderenti alla vita di un ragazzo che cresce, che rivendica spazi di autonomia, che ti rassicura sulle sue intenzioni anche se sai bene che non sarà così. Mamma, dai, non è mai successo niente. E gli dai credito, sospendi le tue riserve,  augurandoti che un passo dopo l’altro, un lancio dopo l’altro, possa appendere all’amo della vita la responsabilità, la misura, l’accortezza. Gettate le reti dalla parte destra della barca e troverete. L’educazione è continuare a investire nel grande mare dell’umanità, nel mare di un figlio, di uno studente, di un ragazzo che frequenta la parrocchia o che ha smesso di frequentarla, rivendicando però ugualmente la possibilità di sentirsi a casa, solo perché una panchina davanti all’oratorio o una collinetta gli sono famigliari. Quella lenza Nicolò ce la consegna per continuare a lanciare ai ragazzi vita nella vita, simpatia, cordialità, fiducia. Con pazienza e lungimiranza. Quella lenza Nicolò la consegna però anche ai suoi amici, perché anche loro imparino ad essere pazienti e a riconoscere negli adulti e nelle loro raccomandazioni non gli antagonisti, ma gli alleati della loro felicità.

 

2.    Ma ogni lenza lanciata in acqua può anche recare sorpresa. Quella di uno strattone, di un galleggiante che si inabissa, quella di una lotta che devi sostenere per agganciare e salpare la preda. Quanta felicità nel volto di Nicolò quando questo avveniva! Forse perché non c’era solo la fortuna ma anche la sua abilità, la determinazione, le ore di discussione con gli amici sull’amo da scegliere, sull’esca da adoperare. Quella lenza ci ricorda la perizia con cui si sta nella vita, con cui si pensa al domani, con cui ci si prepara a dare qualcosa di sé. Dice la mamma di Nicolò che suo figlio era un tipo piuttosto “sciallo”, per il quale, quello che si doveva fare oggi, lo si poteva fare tranquillamente domani. Ma questo non valeva per tutto, perché se non c’era verso di fargli spreparare la tavola, e lo sapevano bene le sue sorelle, su altre cose Nicolò si appassionava. Volentieri dava una mano al nonno nei campi e non vedeva l’ora di approdare nel mondo del lavoro che la scuola, una scuola che sentiva sua, gli aveva consentito di conoscere e di accostare. Con la soddisfazione di sentirsi apprezzato già nei primi tirocini aziendali  e con la certezza interiore che presto sarebbe stato assunto. Comincia a prendere in mano la vita. E fallo con serietà. Proprio come prendi la canna da pesca. Verifica in che acque stai lanciando, perché non tutte sono pescose e non tutte sono pulite. Occhio alle esche, perché qualcuno le usa anche con te, per catturarti. Perché se anche tu fai una pesca no-kill, che Nicolò praticava, non è detto che altri facciano lo stesso. E mettici l’energia necessaria perché la vita è fatta di impegno, di lotta, di partecipazione. Le reti della vita le riempie il Signore, come ha riempito quelle di Pietro e dei suoi amici, ma lo sforzo di lanciarle è tuo, lo stile è il tuo, la fiducia è la tua. Quegli uomini sul lago non sono rimasti prigionieri dell’inerzia, delle secche, della rassegnazione. Hanno corso il rischio di vivere ancora. Prendi in mano la tua vita e non lasciarti addormentare. Pescare, diceva Harry Middleton, scrittore sudamericano, non è fuggire la vita ma immergersi ancora di più.  Abilità, coraggio, vivere e non vivacchiare. 

 

3.    Infine quella canna sembra rivolgerci anche un invito a spaziare, ad andare oltre le acque che già si conoscono. Perché in ogni pescatore autentico c’è l’attaccamento ad alcuni luoghi preferiti ma c’è anche il movimento, l’esplorazione, la ricerca dell’inatteso. Mi piacciono Nicolò e i suoi amici che partono in bici, alle quattro di mattina, precedendo l’alba. Mi piacciono mentre la luce inizia a danzare sulle brevi rapide del torrente e illumina i loro volti, messaggera di una bellezza misteriosa che si affaccia nel mondo, che vedi e non vedi.

Forse è la stessa esperienza dei discepoli di Gesù, sul Lago di Galilea.  Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Nicolò dopo la terza superiore aveva chiuso la sua frequentazione ai gruppi, mettendo in stand-by anche la questione di Dio. Pratico com’era, una volta aveva detto a sua madre: Mi Gesù no me ga mai dato un panin. Come dire, se non ho modo di vedere, di toccare, di mangiare qualcosa di sostanzioso, come posso credere? Messa? Anche no.

Dov’era Gesù quando è morto Nicolò? Dio non sempre interviene come vorremmo. A volte lascia che la vita ci raggiunga con i suoi imprevisti forse perché della vita impariamo a prenderci cura, perché nel dolore sappiamo starci accanto gli uni agli altri, perché iniziamo a volgere lo sguardo altrove, a riconoscere i varchi dell’eterno. Come i pescatori del lago che ad un certo punto riconoscono Gesù. È il Signore. E allora, dov’era Gesù quando è morto Nicolò? Era con lui. Era sulla riva dell’infinito a preparare il pane, il famoso panino, mentre aspettava un ragazzo che gli avrebbe portato il pesce, come se Dio ne avesse bisogno e di quel dono volesse nutrire anche noi. Prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.

Mi piace pensare che Nicolò, insieme a Gesù, ci inviti a  scommettere non sulla delusione o sulla ribellione indignata, ma sulla speranza, su un lancio di canna che, con l’audacia dell’impossibile, continui a credere che i fiumi della terra hanno una sorgente, che quanto di bello custodiscono i giorni non possa andare perduto, che l’amore, l’amicizia, l’affetto che ci legano gli uni agli altri siano più forti della morte.

Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù?  Oggi Nicolò ci pone di fronte a questa persuasione. E, insieme a Gesù, tra poco ci sarà anche lui a spezzare il pane e a ripeterci: Venite a mangiare. Perché ci sentiamo nuovamente in sua compagnia e perché non dimentichiamo di nutrirci di eternità.

giovedì 4 marzo 2021

Omelia esequie Massimiliano e Egidio Battaglia

 

Funerale Egidio e Massimiliano Battaglia  (4 mar. 2021)

(Testi di riferimento - Ap 21,1-7 / Mc 1, 12-15)

In quel tempo lo Spirito sospinse Gesù nel deserto. È la pagina delle tentazioni che ha aperto il tempo della quaresima e che ha accompagnato anche questi nostri difficili giorni. Anche noi siamo stati sospinti, anzi gettati nel deserto ed esposti ad una aridità che non pensavamo esistesse.

Gettato nel deserto Egidio, prigioniero di una diagnosi mal comunicata o mal intesa, che per lui era diventata un valico insuperabile.

Gettato Massimiliano, fragile germoglio di vita, strappato ai suoi giorni, proprio da chi quei giorni li voleva assicurare in tutta la loro bellezza.

Gettata Adriana, che ha visto crollare un progetto famigliare condiviso con Egidio e con il suo bambino, travolta da una sofferenza che nessuna madre dovrebbe conoscere.

Gettata nel deserto anche la famiglia di Egidio, perché un figlio che si sposa, un nipotino che arriva sono quanto di più bello la vita ti riservi e non vi sono difficoltà che non possano essere condivise e affrontate con la forza dei nonni.

Nel deserto anche gli amici di Egidio che ricordano la simpatia, la responsabilità di un ragazzo che ai legami teneva parecchio e che, caparbio com’era, forse non li voleva appesantire con quello che portava nel cuore.

E gettati anche noi, piccolo centro di provincia, in una cronaca sproporzionata che pensavamo appartenesse solo alle grandi città, dimenticando che il male serpeggia invisibilmente e, ovunque, getta inquietudine, dolore, sconcerto.

Nel deserto. Tutti. Sperimentando ancora una volta la tentazione. Quella di capire senza la pazienza di ascoltare, quella di parlare senza sostare sul silenzio e sulle domande vere, quella di cercare altrui responsabilità, senza intravedere le nostre, ivi comprese quelle legate a questo tempo faticoso che ci impedisce e talvolta ci fornisce l’alibi, di esserci veramente accanto e di portare i pesi gli uni degli altri. 

Proviamo  delusione anche sul piano della fede, l’ipotesi dell’assenza di un Dio che doveva esserci e ci ha dato buca. Dov’era il Signore quando Egidio ha fatto quello che ha fatto? Ma anche questa è tentazione: di sfuggire a noi stessi e alla conoscenza di un Dio che non interviene magicamente nella vita degli uomini, ma agli uomini dà sempre la garanzia di una speranza più grande. Dov’è Dio e dove siamo noi quando lui ci dà appuntamento, quando vuole suggerirci i segreti della vita, quando vuole regalarci orizzonti più grandi di quelli terreni? Non è lui che ci abbandona, siamo noi che a volte pensiamo di farcela senza di lui. Ma Dio non se ne va indispettito. Ci aspetta nel nostro deserto, insieme a Gesù e ci suggerisce tre parole che forse abbiamo smesso di udire. Parole ricche di vangelo, quello che Gesù annuncia dopo la tentazione e al quale chiede di orientare la nostra vita. Convertitevi e credete al vangelo.

1.    Fragilità. La prima parola ci ricorda la verità della vita, alla quale appartengono le imprese di cui siamo capaci e i limiti di cui facciamo esperienza. Penso ad Egidio, al suo coraggio e alla determinazione imparata nella Brigata Folgore dei paracadutisti. Penso al suo lavoro tecnico-specialistico in giro per il mondo a collocare impianti, ad aggiustare quello che non funzionava, qualche volta in assenza dei pezzi necessari e cercando ugualmente di far fronte ai problemi. A volte però la vita presenta situazioni dove le soluzioni non sembrano disponibili e dove l’imprevisto appare più grande di ogni rimedio. Egidio è stato paracadutato nella vicenda di un figlio che sembrava affrontare la vita con qualche incertezza, come spesso capita nei bambini. La diagnostica ha evocato alcuni rischi e tanto è bastato per chiudere la speranza: quello che poteva essere un ragionevole passaggio evolutivo di un bambino è divenuto un varco inaccessibile per il padre. E mai come in questo caso ci si rende conto di quanto sia importante la prudenza nel momento in cui si elaborano referti, si suggeriscono cure, si evocano gli scenari successivi. Prudenza determinata dall’oggettiva valutazione del caso ma anche dall’attenzione ai genitori cui ci si rivolge, non sempre attrezzati ad entrare nella nuova esperienza. E chi non lo sarebbe? Un problema amplificato da questa nostra società che ha manomesso i concetti della normalità e li ha sostituiti con una ricerca di perfezione che altera i contorni della vita e dimentica che i limiti sono importanti: per capire chi siamo, per riconoscere fin dove possiamo arrivare, per fuggire alle pretese di onnipotenza. E per riconoscerci bisognosi di aiuto, di protezione, di vicinanza, di conforto. Quello che Egidio assicurava a tanti suoi amici e faceva fatica ad accettare per sé.

Non avere paura dei tuoi limiti. E non aver paura neanche delle difficoltà che può incontrare un bambino, perché anche se le valutazioni terrene muovono da una presunta normalità, tuo figlio non è mai sbagliato e ti viene affidato come una risorsa, mai come un problema. Ne sono testimonianza i papà e le mamme raggiunti da questi bambini, genitori che li hanno circondati di premura, di affetto e di opportunità, lottando senza sosta contro la cultura dello scarto, promuovendo il loro riconoscimento e l’integrazione, affermando un supplemento di umanità in questo mondo in cui dell’umano, a volte, perdiamo pezzi per strada. Fai della fragilità la tua forza. Fai della fragilità la possibilità di ospitare anche il Signore. L’onnipotente è lui e nei piccoli della terra continua a fare grandi cose.

2.    Famiglia. La vicenda di Egidio ci ricorda l’universo famigliare nascosto a casa nostra. Era bello Egidio quando faceva volare per aria il suo figlioletto ed era bella la mamma Adriana che non si tratteneva al lavoro un minuto in più per tornare a casa ed abbracciare Massimiliano. E questa realtà piena di energia e di vita ci rassicura sulle misure della gioia che ogni famiglia a suo modo sa custodire. Nello stesso tempo a casa nostra ci sono anche le fatiche, le inquietudini, i tumulti interiori di cui talvolta ci si rende conto quando è troppo tardi. La pandemia ha esasperato i disagi, ha circondato di paura la vita, ha alterato la percezione di sé e degli altri, tanto che facciamo fatica a riconoscerci. Pensiamo di essere sempre gli stessi, invece qualcosa è cambiato. Forse nelle dinamiche di coppia e di famiglia dobbiamo recuperare una funzione presente nei nostri smartphone: il localizzatore. Ma quello delle geografie interiori. Per chiederci e rivelarci dove siamo, per mandare posizioni prima di perderci, per consentire a ciascuno di arrivare in soccorso dell’altro.

Un supporto reciproco da non sottovalutare, da non ritenere opzionale, perché le sorprese non siano quelle della tragedia, della divisione, ma della speranza ritrovata. Dove sei? Domanda che fin dai primordi dell’umanità Dio continua a fare ai suoi figli, specialmete ai suoi figli che sbagliano.

3.    L’ultima parola è orizzonte. Afferràti dalle nostre preoccupazioni ci dimentichiamo di alzare lo sguardo e di mettere in gioco il mistero, l’assoluto, quel Dio che, pur nel computo delle questioni importanti, non sempre rientra tra quelle più urgenti. Non perdere il Signore perché lui ti consegna le misure corrette della vita, ti restituisce speranza, ti mostra risorse che non credevi di avere. La fede non ci sottrae alle difficoltà: ci aiuta ad abitarle, a riconoscere che non siamo da soli nel cammino della vita, neanche nelle insidie più grandi. Non è consolazione degli illusi ma persuasione dei testimoni, di chi continua a ricordare che una pietra è stata rovesciata dal sepolcro, che un tale di nome Gesù ha aperto un varco di risurrezione e di vita e ha legato per sempre il chiaroscuro dei giorni al giorno senza tramonto, in cui Dio terge ogni lacrima, cancella ogni lutto e fa nuove tutte le cose.

A questo giorno affidiamo Massimiliano: sulle ginocchia di Gesù sia avvolto di carezze, come i bambini che al rabbi di Galilea saltavano in braccio sulle strade della Palestina. A tale giorno, Massimiliano trascini anche il suo papà con la forza degli innocenti che al Signore possono chiedere tutto, anche misericordia e perdono per un gesto che ci appare scellerato ma sulla cui natura vede bene solo il Signore.

Quel giorno rischiari anche Adriana, la famiglia di Egidio, i suoi amici e questa nostra comunità. Perché sia la solidarietà a custodirci sempre, perché le luci di Dio prevalgano su ogni oscurità, perché ogni vita sia accolta e benedetta. Sempre.

martedì 26 gennaio 2021

Omelia 24 gennaio 2021

 

Terza domenica del T. O.

Erano forti e provocanti le parole con cui la giovane poetessa americana Amanda Gorman ha aperto la presidenza Biden. Parole che non nascondevano i recenti giorni difficili che gli Stati Uniti hanno conosciuto e parole che alludevano ad un riscatto ancora possibile.

Facciamo in modo che il mondo,

se non altro, dica che è vero.

Che abbiamo pianto, ma siamo cresciuti.

Che abbiamo sofferto, ma abbiamo sperato.

Che siamo stati stanchi, ma ci abbiamo provato.

Le parole con cui si inaugura un nuovo assetto politico o sociale  sono importanti per intuire il percorso successivo. In quelle parole ci si può sentire  interpretati, custoditi, portati verso nuova coscienza e nuova responsabilità.

Anche Gesù oggi inaugura la sua missione. Non è il presidente degli Stati Uniti, ma un giovane rabbi di Galilea che libera la forza della sua parola. E quella parola scuote, provoca, coinvolge uomini alle prese con un quotidiano apparentemente estraneo ai discorsi, in un percorso di trasformazione e di vita, come mai si sarebbe immaginato. Oggi, Domenica della Parola, quella Parola il Signore torna a dirla anche per noi, perché nella proliferazione delle parole non ci stanchiamo di cercare quelle importanti, perché tra le parole del mondo non dimentichiamo la sua. Quali parole ci rivolge il Signore?

1.    La prima parola ci consegna un invito all’abitabilità del momento presente rispetto ad un passato che può trasformarsi in nostalgia e a un futuro che può diventare evasione. Il tempo è compiuto, il regno è vicino. Oggi, qui. Smettila di vivere di rimpianti e raccogli le opportunità che la vita porta con sé in questo momento. Le persone che non ci sono più: quest’anno abbiamo vissuto lutti dolorosissimi. Ma non devi imprigionare chi se n’è andato né devi lasciarti imprigionare; pensa, che cosa vorrebbe da te questa persona che non c’è più? Le guerre che hai vissuto: per quanto tempo devi alimentare l’arsenale del rancore? Quello che sei stato quando lavoravi, quando eri giovane, quando eri qualcuno. Lo sei anche ora, magari per i tuoi nipoti che proprio di te hanno bisogno. Qui ora. E attento parimenti alle fughe in avanti, perché anche l’attesa di un futuro magico può distrarci dalle opportunità e necessità del presente. Pensate a quante volte fuggiamo da questo tempo, rifugiandoci nel desiderio che il virus ci abbandoni, che possiamo abitare i nostri sogni, che tutto torni come prima. C’è una giusta responsabilità di fronte all’emergenza, ma c’è anche una certa paralisi che ci impedisce di raccogliere l’occasione. Alcune coppie di fidanzati sono tentate di rinviare il matrimonio già rinviato. Perché? Perché non possiamo fare la festa che vogliamo. Forse la festa vera è sfidare la modalità della festa, è credere che il vostro amore non possa più aspettare. Il tempo è compiuto, il regno è vicino. Qui, ora. Dio non è rimpianto né miraggio. È l’oggi.

2.    La seconda parola è: convertitevi e credete al vangelo. Dio non ci lascia inerti: la sua è una parola genera processi di cambiamento. Attenzione però: si tratta di cambiamento evangelico. Convertirsi è connesso a credere al vangelo. Perché oggi siamo molto attratti dal cambiamento: di immagine, di situazioni di vita, di partner tanto che con la pandemia le richieste di divorzio sono aumentate del 60%. Ma non è il cambiamento che suggerisce il Signore. Pensate anche alla solidarietà che questo tempo ha dischiuso. Gente che ha dato il meglio di cui disponeva, soldi, tempo, volontariato. Ma non è l’unica immagine che vediamo, perché la regola mors tua vita mea è dura da sradicare. Credo sia una sana provocazione il gesto che ha fatto Papa Francesco di vaccinare alcuni senza tetto, in Vaticano. Perché, mentre le forniture non sono nel numero che pensavamo, stiamo assistendo alle cortesi sgomitate di chi dice: io vengo prima. Perché ho l’età, perché sono più esposto, perché ho un lavoro a contatto col pubblico. O forse perché non so aspettare, non so valutare le ragioni dell’altro, non sopporto di essere secondo. Ci si converte se si crede al vangelo nelle cui pagine è custodito il comandamento dell’amore, non dell’opportunismo. Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. Ninive si salva se ci si salva insieme.

3.    La terza parola è: Venite dietro a me: vi farò diventare pescatori di uomini. È una parola importante che ci consegna reti buone, che generano vita. Che reti si diffondono intorno a noi? La vicenda di quella ragazzina di Palermo morta in seguito ad una sfida su Tik-Tok ci segnala l’esistenza di una rete subdola che ci sta rubando le nuove generazioni. Non mandiamo i figli a catechismo perché abbiamo paura del contagio e permettiamo al contagio della rete di fare strage. Cosa possiamo fare? A un bambino delle elementari non si dà il telefono. Per iscriversi ai social per legge bisogna avere almeno 13 anni. Proviamo a mettere dei momenti social-free, come quando si è a tavola. E non basta parlare e abitare i social con i figli, facendo i video insieme, perché anche il papà della ragazzina di Palermo lo faceva. Bisogna offrire relazioni in presenza e bisogna allargarle: scuola, sport associazioni, anche parrocchia. Solo una rete di solidarietà educativa ci mette al riparo dai rischi di una deriva di cui non sempre ci rendiamo conto. Le parole di Gesù sono quest’oggi anche per i nostri ragazzi. E i pescatori di uomini sono chiamati per custodire la loro umanità, sottraendola a ciò che la mortifica, aprendola a ciò che la libera.

domenica 17 gennaio 2021

Omelia domenica 17 gennaio 2021

 

Seconda domenica del T. O.

Un leader si presenta sulla scena politica, culturale, mediatica e …ci prende: per quello che dice, per come si muove, per le visioni che evoca. Capisci che c’è qualcosa di affascinante e inizi a seguirlo, diventi un follower, identità che sta ridisegnando i rapporti tra le persone, i contatti, gli orientamenti della vita. Non sempre però a questi entusiasmi corrisponde la successiva conferma e anche il sogno che inizialmente sembrava promettente può aprire la strada alla delusione. Hai seguito la persona sbagliata o i tuoi followers non hanno capito quello che avevi in mente.

Giovanni Battista oggi invita i suoi discepoli a seguire Gesù: Ecco l’agnello di Dio. Un’immagine potentissima, carica di riferimenti simbolici, che accende passione, coinvolgimento, interesse. Ma quando i discepoli di Giovanni arrivano da Gesù, lui non ha fretta. Vuole capire chi ha davanti e vuole che chi ha davanti capisca chi è lui. Perché Gesù non cerca facili entusiasmi, ma verità, non ha bisogno di followers che gli clicchino i like ma di discepoli che mettano in gioco la vita. Che gente cerca Gesù? Chi sono i suoi discepoli?

1.   Che cosa cercate? Gesù ti invita anzitutto a verificare le tue attese, i desideri che porti nel cuore. La prima attenzione che devi avere non sono le risposte, ma le domande. Pensate, è l’esatto contrario di quello che oggi avviene. Troviamo risposte prima di aver fatto domande. E quelle risposte, a ritroso, costruiscono le domande. Domande però pesantemente condizionate da quello che hai già trovato, che impediscono ricerche ulteriori. Vado in un negozio e vedo un cellulare di ultima generazione: tre videocamere. Fantastico, lo compro. E una volta comprato, che fai? Scatti e metti in rete: foto, video, commenti. Un'operazione che inizialmente fai un po' per gioco e che un po' ala volta ti prende, tanto che la realtà finisce per coincidere con quello che pubblichi e che gli altri pubblicano. Il cellulare che hai comprato diviene la risposta a una domanda di vita: per esistere devi dotarti di questa opportunità, altrimenti sei fuori. La risposta, lo smartphone che hai acquistato, ha generato una domanda che allude a un bisogno vitale. Ma è una vita che altri hanno indotto, parziale, edulcorata come le foto piene ritocchi. Sicuro che sia questa la vita che cerchi? E non è solo un problema delle giovani generazioni. Come venerdì scriveva su Repubblica una diciassettenne:  Cari adulti, non cercate solo di capire cosa proviamo noi, indagate i vostri sentimenti, leggetevi dentro, capite cosa manca davvero a voi. A volte pensiamo che ci manchi solo la vita di prima o il vaccino per potervi ritornare. Ma forse c'è un di più che questo tempo inutilmente cerca di farci capire: un di più di verità, di solidarietà, di essenzialità. Che cosa cercate? 

2.    Maestro, dove abiti? Venire e vedrete. Ed essi andarono e videro dove abitava. Gesù cerca gente che non si fermi alle vetrine della vita ma cerchi ospitalità; gente che si coinvolga, che dimori nelle questioni. Gente di spessore.  Oggi abbiamo una conoscenza piuttosto epidermica dei fatti. Ci nutriamo di post ai quali attribuiamo il valore della verità. La verità invece chiede di abitarla, di dimorarvi insieme. Pensate a quella donna di cui negli Stati Uniti si è eseguita la condanna a morte. Una sentenza applicata in maniera oscena, mettendo velocemente fine alla sospensione all'esecuzione annunciata il giorno precedente.  Non si gioca con la vita della gente, neanche dei criminali. E' vero, si trattava di un delitto feroce quello che aveva commesso Lisa Montgomery, l’imputata, perché aveva ucciso una donna incinta per impossessarsi del bambino che portava in grembo. Ma quella storia alle spalle dell'imputata? Quella catena di abusi da parte del patrigno e della madre che vendeva la figlia all’idraulico e all’elettricista di turno. La detenzione non poteva essere una misura sufficiente? Ci sentiamo più tranquilli ora che l’abbiamo uccisa? Sono soddisfatti l’America e il suo presidente che sigilla il suo mandato con questo gesto? I due discepoli andarono e videro dove abitava. Non c’è vita se non abiti, se non vai oltre le tue idee, i luoghi comuni, la pancia. Anche nella vita di coppia; forse è il momento in cui bisogna tornare a dirsi: dove abiti? Dove sei andato a finire, dove posso ritrovare il tuo mondo, quello che mi aveva fatto innamorare e dal quale sono uscito? Nella vita di un figlio, di un genitore, di un amico che abbiamo perso di vista: dove abiti? Il Signore si nasconde in questa profondità e ogni volta che la raggiungi lui è là che ti aspetta.

3.  Infine, se hai trovato vita, ti lasci cambiare. Tu sei Simone, figlio di Giovanni. Ti chiamerai Pietro. I discepoli di Gesù non sono pezzi di marmo, ma gente che accetta di rinascere sulla base di un compito. Simone, il pescatore che diventa la pietra della nuova comunità che Gesù ha in mente. Come ti conosce la gente? Per il tuo lavoro, per la casa, la macchina, le parentele…  Quale nome ti affida il Signore? Ieri sono stato al funerale di un vecchio parroco, con cui ero stato insieme: Don Adriano. E qualcuno di Resana diceva: per il nostro paese è stato una ventata di freschezzaEcco il nome nuovo! Non si tratta di anagrafe, ma di missione. A volte sei chiamato ad essere roccia, a volte carezza, a volte fuoco, a volte speranza, a volte sostegno. E non è mai tardi: ti chiamerai, al futuro. Vuol dire che c’è sempre la possibilità di cambiare, di dare il meglio, di stupire, di tornare a credere ad un progetto. 

Verifica di chi sei follower e se ne vale la pena. Valuta la possibilità di essere discepolo. Può essere una strada inedita: di verità, di libertà, forse anche di gioia. 

giovedì 7 gennaio 2021

Omelia 6 gennaio 2021 - Epifania

 

Epifania del Signore 2021

Abbiamo seguito con tristezza nei giorni scorsi la vicenda di Agitu, giovane donna etiope che, fuggita alla persecuzione del proprio paese, era approdata in Italia, in Trentino, dove aveva messo in piedi un allevamento di capre in estinzione. Un’attività con vedeva il riscatto di un territorio semiabbandonato e l'affermazione di un progetto di integrazione per cui una donna africana, inizialmente vista con sospetto, era poi stata accolta con gratitudine e stima.  Un suo dipendente, un africano anche lui assunto in nome di quella integrazione che Agitu credeva possibile, l’ha uccisa. Pensieri rancorosi, covati chissà da quanto, che hanno trovato un tragico epilogo. 

Quando ascolti queste vicende ti viene da pensare alla grandezza del male, alla faticosa affermazione di quei progetti di vita, di liberazione, di pace che Dio ha in mente. Ti viene però anche da pensare anche che il bene non va perduto, che i germogli cresceranno, che la luce accesa non sarà spenta da chi si è affiliato alle tenebre. La cosa che rincuora infatti, in questo tragedia, è che qualcuno sta raccogliendo l’eredità di Agitu; non solo le capre, ma anche il suo progetto di convivenza possibile. 

Agitu, come i Magi, veniva da lontano e anche lei ci insegna a cercare la luce, a prendere sul serio i segni e i sogni, a non sottovalutare gli ostacoli ma neppure a dare loro più potere di quanto non ne abbiano. Quali ostacoli sbarrano il cammino di Dio con gli uomini? Come affrontarli?

1.    Il primo ostacolo è la distanza. A volte abbiamo la sensazione di essere troppo lontani da Dio, dai suoi progetti, dalla realizzazione di qualcosa di bello. La distanza può avere tante forme: quella dell’indifferenza, del non mi interessa, non fa per me; quella dell’inadeguatezza: sono cose per gli addetti ai lavori, per i catechisti, per quelli che vanno in chiesa; quella dell’arrabbiatura: Dio, lasciami perdere che ultimamente non mi hai trattato bene. E va a finire che la distanza diventa una fossa che spesso ci scaviamo e che ostruisce ancora di più il nostro orizzonte. Come si supera la distanza? Cercando la stella e lasciandosi provocare dalla sua luce. Non si tratta solo di congiunzioni astrali come è capitato recentemente con l’allineamento di alcuni pianeti. Si tratta di prendere sul serio le provocazioni della vita, perché sono passerelle, scialuppe che Dio ci manda per metterci in viaggio. Il presidente Mattarella, qualche giorno fa, ha insignito di onorificenze al merito della Repubblica, numerosi italiani, che si sono distinti per il loro impegno sociale e civile, tra cui Chiara Amirante, una giovane donna di Roma che sta animando numerose iniziative di carità. Quando già faceva volontariato, un giorno decise di raggiungere un sottopassaggio dove non andava mai nessuno, ma dove sapeva che c’era un’umanità disperata: «Quando arrivai c’era una rissa. Vidi Angelo, per terra, che aveva tentato la terza overdose per farla finita. Cercai un posto dove portarlo ma non trovai nulla. Mi tornarono in mente le parole del Vangelo: “Non c’era posto, per loro, nell’albergo”. L’impotenza di non poter fare nulla fu per me uno shock fortissimo». Ecco la stella che brilla, un tossico. Togli dal buco lui e lui toglie dal buco te, superi la distanza e ritrovi le strade di Dio.

2.    Il secondo ostacolo è Erode. Erode è l’astuzia malevola, la malvagità, l’arroganza del potere che non sopporta concorrenti, la trappola tesa ai cercatori di Dio: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Attenzione perché Erode è sempre in agguato. Lo nei contatti che ci rubano il Signore dal cuore. Lo è in chi distrugge i suoi progetti di amore, pace, giustizia. Erode è sulla frontiera tra la Bosnia e la Croazia, dove non i Magi, ma i migranti che vengono dall’oriente con i loro bambini, muoiono di freddo respinti con la violenza e raccolti in campi disumani. Andate, informatevi… Aspetta che attiviamo le commissioni, magari mandiamo degli ispettori: se sapete qualcosa fatecelo sapere... L’ostacolo di Erode va affrontato con la verità, con una distanza interiore rispetto alle insinuazioni e alle mistificazioni, con un’altra strada su cui tornare. Come è avvenuto a Napoli con quei ragazzi che hanno aggredito il rider per rubargli la moto. Subito dopo si è vista un’altra Napoli, reattiva e solidale rispetto all’accaduto, che ha fatto una colletta per comprare di nuovo la moto. Come dire: Erode non vincerà. 

3.    Infine altro ostacolo all’incontro con Dio è pensare di sapere già tutto, come gli scribi interrogati da Erode. Hanno le profezie che correttamente interpretano ma quelle parole non li mettono minimamente in cammino. Rimangono prigionieri del loro mondo e delle loro certezze. I Magi invece si mettono in moto, vogliono capire, si lasciano provocare non solo dalla scienza, ma anche dall’esperienza. Alla fine, gli scribi sono prigionieri dell’autosufficienza, i magi della gioia. Che cosa ha fatto la differenza? Che cosa ha consentito di superare l’ostacolo? Si prostrarono e lo adorarono. La verità domanda umiltà, silenzio, partenze diverse da quelle che pensi, perché Dio è altro rispetto alle nostre supposizioni che diventano talvolta supponenza. Dio rivoluziona la nostra conoscenza di lui: se tu pensi di sapere già tutto, di dettare le regole, lui sfugge e si nasconde dentro ad una mangiatoia. Pensate a tutte le volte che noi dettiamo le regole a Dio: lo incontro quando decido io, lo riconosco quando "mi sento". E cosa sente Dio? Cosa ha deciso? Prova a capire se il suo appuntamento è differente da quello che hai in mente, se ha qualcosa di nuovo da suggerirti, magari in quella "mangiatoia" dove ogni domenica ti vuole nutrire, di parola vera, di pane che sazia, di fraternità. 

Alzati, rivestiti di luce. E' una vita rialzata e luminosa quella che apre il Signore, una vita rialzata, dopo che hai avuto l'audacia di inginocchiarti.