domenica 25 febbraio 2018

Omelia 25 febbraio 2018


Seconda domenica di Quaresima

Quando senti che un impiegato di un call-center, com’è capitato in questi giorni a Taranto, viene pagato trentatré centesimi all’ora, comprendi che una realtà oscura e tirannica è segretamente in azione, ci vuole catturare e soprattutto vuole consolidare l’idea che ormai funzioni così, che non valga la pena di intervenire e di lottare. Perché, se ci si pensa nessuno si indigna più e anche le rivendicazioni che una volta il sindacato sosteneva non vedono più le accese battaglie di un tempo.

Gesù oggi vuole restituirci alla luce, vuole marcare distanze tra bene e male, vuole che usciamo dalla penombra e reagire all’anestesia con cui il mondo d’oggi ci addormenta.

Per questo Gesù sale sul monte e ad alcuni discepoli mostra un chiarore nuovo, quello di chi si fida di lui e accetta di vivere sulle sue strade. Come ci raggiunge la luce della trasfigurazione?

1.    Su un alto monte. Anzitutto bisogna salire di livello, di prospettiva perché gli orizzonti terreni spesso ci schiacciano a visioni insufficienti. Pensate alla vicenda dei bambini di una scuola dell’infanzia di Modena che si addormentano sul pavimento perché né bidelli né insegnati tirano fuori le brandine custodite nel magazzino della scuola. Non è previsto dal contratto, non è nel mansionario. Per fortuna che era nel mansionario di un’associazione di volontariato che ha assicurato il riposo dei bambini. A volte la nostra disponibilità è misurata con bilancini di precisione sui quali non solo trovano posto la premura e la carità, ma neanche il buon senso. Sali più in alto: dei contratti, del minimo sforzo, della delega. Il mondo è differente se tu regali nuove visioni della vita. Non rassegnarti allo scantinato.

2.    E apparvero loro Mosè e Elia. La trasfigurazione avviene in compagnia di due personaggi dell’Antico Testamento. Pietro, Giacomo e Giovanni capiscono che c’è una storia più grande di loro, che parte da lontano, che è fatta di un progetto che si compone nel tempo. Le cose a volte non cambiano perché siamo concentrati unicamente su noi stessi e sul momento caricato di tutte le nostre attese. Una piccola crisi di coppia diviene una sentenza in giudicato, senza considerare la storia che abbiamo alle spalle, l’amore che abbiamo vissuto. Ci si può dare un’altra possibilità o il presente cancella l’intera storia che abbiamo condiviso? Però non c’è solo un presente senza passato. C’è anche chi abita un presente senza futuro. È la tentazione di Pietro che dice: È bello per noi essere qui. Facciamo tre tende. Fermare il tempo al benessere momentaneo, alla cuccia calda senza accogliere la responsabilità delle decisioni ulteriori. Convivenze protratte all’infinito perché sposarsi costa, senza capire che ciò che ti costa davvero non sono le nozze, ma la decisione di giocare la tua libertà, di impegnare seriamente il futuro. La trasfigurazione è sfida lanciata al tempo, al modo in cui lo vivi, non occupando spazi ma attivando processi.

3.    Infine la trasfigurazione avviene raccogliendo l’invito all’ascolto. Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo. Ascoltare Gesù. Ciò che trasforma la vita è la sua parola. Le altre parole non trasformano: spesso deformano. Come le tante parole che in questa settimana abbiamo speso sul presunto aumento della bolletta dell’energia elettrica per pagare presunte evasioni altrui. Quanto tempo perso in chiacchiere inutili! Chiaramente si trattava di fake news. Abbiamo bisogno di riguadagnare la parola del vangelo altrimenti altre parole e altri stili si impossessano di noi. Anche nell’agire pastorale. Perché si può fare l’animatore e il catechista anche senza vangelo e seguendo altre logiche. Invece di andare alla formazione me ne sto tranquillamente a casa e, invece di salire in casa alpina con gli altri, vado a fare il cameriere, anche se ho alle spalle una settimana di lavoro. Soldi che regolano tutta la vita e non ti bastano mai, nuovo vangelo che soppianta quello di Gesù. Tornare ad ascoltare la parola di Gesù, tenere un vangelo sul comodino, lasciarsi smuovere. E allora la nostra vita sarà trasfigurata. E forse sapremo resistere alle insidie del buio, e forse sapremo portare un po’ di luce anche agli altri. 

martedì 13 febbraio 2018

Omelia Funerale Francesco Carlesso


Funerale Francesco Carlesso (12 feb. 2018)

(Fil 4,4-9 / Mt 25, 31-46)

Spesso il male di vivere ho incontrato. È l’inizio di una celebre poesia di Eugenio Montale ed è anche il fardello che, abbastanza presto, ha accompagnato la vita di Francesco, consegnandolo alla fatica dei giorni. Giovane e promettente ingegnere, ad un certo punto percepisce un disagio che gli rende più difficile il lavoro, gli incontri, le responsabilità. La stanchezza, la fatica di andare avanti, la tristezza. Perché capitano vicende di questo tipo? Qualcuno può interrogare il passato, le storie di un bambino bisognoso di cure costretto a vivere in sanatorio per due anni o la voglia di riscatto passata sui libri di studio, di giorno e di notte. Non sappiamo perché capitano certe cose. Sappiamo però che Francesco ha continuato ad essere e a dare tutto ciò che poteva, aiutato dall’affetto di Vanna e di Sara e da una comunità che per lui è diventata una sorta di famiglia allargata. Perché capitano certe situazioni? Perché forse il Signore ci chiede di amare: anche nella fatica, nella debolezza, nel controsenso, resistendo allo sconforto e alla voglia di andarsene. Francesco non si è lasciato andare e non è stato lasciato dai suoi: in un contesto, nonostante tutto, umanamente ricco, ci ha lasciato qualcosa di importante che oggi raccogliamo.

1.    Ci ha lasciato innanzitutto una piccola busta con scritto: Messa dopo morte. Francesco. In essa c’erano le indicazioni delle letture che voleva al suo funerale. Sono quelle che abbiamo letto poca fa. Nella prima lettura c’era una piccola raccolta di indicazioni famigliari, per i mariti, le mogli, i genitori, i figli, gli schiavi… Ma Francesco aveva trascritto una frase che molto probabilmente lo colpiva maggiormente: Voi mariti non rattristate le vostre mogli. Forse, almeno agli inizi, si rendeva conto delle sue fatiche e di quello che potevano generare negli altri, ma portava nel cuore il desiderio di non rattristare Vanna, di custodire quella relazione che per lui era vitale. Ma il rapporto con Francesco era vitale anche per Vanna che in quasi quarant’anni di matrimonio ha sempre circondato suo marito di rispetto, tenerezza e cura, riempendo di normalità anche i momenti più impegnativi. È in questo affetto reciproco che il Signore ci dà appuntamento, qui vuole essere cercato, come ci ha ricordato Paolo: Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l'eredità.

2.    Ma nella busta c’era anche la pagina del vangelo che abbiamo appena ascoltato. Per Francesco aveva un titolo solo: Avevo fame e mi avete dato da mangiare. E a casa Carlesso da mangiare ce n’era sempre per tanti, anche per gli scartati della società. Se poi c’era da aiutare qualcuno perché i soldi non bastavano, Francesco c’era. Con semplicità, mettendo nella busta anche più di quello che si era stabilito. È la misericordia, la chiave del paradiso, l’investimento a lungo termine che produce interessi nel regno dei cieli. “Vi raccomando, sembra oggi dirci Francesco: non dimenticate-vi che si trova unicamente ciò che si è donato e che Dio si fa presente nel povero al quale si sono aperte le porte”.

3.    C’è una terza pagina che Francesco ci consegna. Questa non l’ha scritta sulla lettera, ma l’ha vissuta. Quella della preghiera e del suo rapporto con il Signore. Partecipe della spiritualità dei Focolarini, sentiva che la croce era il luogo in cui la sofferenza sconfinava nell’amore e anche lui ripeteva spesso, convinto: «Partecipo con le mie sofferenze alla redenzione». Parole straordinariamente grandi e forse un po’ lontane per noi, ma che a Francesco non facevano paura, perché le viveva. E le sue ultime preghiere erano quelle della semplicità, ma che, se ci pensiamo, contengono una piccola sintesi della vita cristiana: Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia l’appartenenza al Signore. Siate la salvezza dell’anima mia: solo il Signore ci guarisce e ci salva. Assistetemi nell’ultima agonia, spiri in pace con voi l’anima mia: al termine della vita non siamo da soli. Ma aggiungeva anche: Fate che l’ultimo mio pan sia l’Eucaristia: la forza di quel Pane che gli antichi chimavano “il farmaco dell’immortalità”. Uno sembra fuori coi pensieri, ma forse alcune cose le ha capite più di quelli che i pensieri ritengono di averli a posto. E per questo Gesù dice: Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato il mistero del regno dei cieli. Francesco era uno di questi piccoli, ma ha compreso e percorso strade di vita e di felicità. Francesco ogni tanto chiedeva a sua figlia: «Sara, sei felice?». Forse oggi questa domanda la fa anche a noi, come invito a ritornare all’essenziale e a una vita che, per quanto impegnativa, mai si chiuda alle sorprese di Dio, anche quando il male di vivere vorrebbe avere la meglio.




Omelia 11 febbraio 2018


Sesta domenica del T. O.

Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Quante volte questo grido è risuonato nella storia, sia da parte di chi si è trovato a vivere una situazione di emarginazione, sia da parte di chi ha emarginato, ghettizzato, privato qualcuno del diritto di esserci. La Giornata del Ricordo, ci ha rammentato ieri la tragedia di molti nostri connazionali barbaramente uccisi e gettati nelle foibe da dove solo un esiguo numero di cadaveri è stato recuperato. Quanta lebbra segna i rapporti umani, quanta presunzione di stabilire confini tra puro e impuro, tra chi può stare a questo mondo e chi no! Nel vangelo di oggi Gesù è alle prese con questa situazione: un lebbroso, un escluso dalla legislazione giudaica che lo raggiunge sfidando tutte le precauzioni sanitarie e i divieti sociali. Vediamo che succede, perché l’approccio di Gesù forse può essere d’aiuto anche a noi per superare alcune barriere che ci dividono e sconfiggere le lebbre che ci colpiscono.

1.    L’evangelista ci dice che Gesù ebbe compassione. Ed è bello questo approccio pieno di tenerezza e di partecipazione interiore. Ma alcuni codici antichi, anziché parlare di compassione, parlano di indignazione da parte di Gesù. Sembra un sentimento opposto, in realtà è l’altra faccia della compassione. Mentre Gesù dimostra accoglienza e misericordia verso l’escluso, si arrabbia per tutto ciò che genera esclusione. Compassione e rabbia. Sono i due sentimenti con cui Gesù si oppone al male. Servono entrambi, perché la rabbia da sola degenera in violenza, la compassione rischia di fermarsi all’assistenza. Noi ci commuoviamo quando sentiamo la canzone di Mirkoeilcane a Sanremo, che ci racconta l’emigrazione con gli occhi dei bambini, ma ci siamo dimenticati della rabbia, della lotta per la giustizia, del coraggio della denuncia. E mangiamo tranquillamente i mandarini di Cosenza  raccolti da immigrati che ricevono un euro a cassa. La compassione è fatta anche di rabbia.

2.    Poi Gesù fa un gesto. Tese la mano e lo toccò. La lebbra si vince toccando, mettendo mano. Un gesto sconcertante che sanciva una scomunica sociale anche per Gesù. Chi toccava un lebbroso era considerato ugualmente lebbroso.  Finché noi non mettiamo mano nelle concrete vicende dell’altro non c’è guarigione. Gesù non salva con i decreti attuativi ma con le mani in azione. Penso alle mani della sorella del presidente nordcoreano che hanno consegnato un invito al presidente della Corea del Sud in occasione dei giochi olimpici, per ristabilire quanto prima i rapporti tra i due paesi. «Facciamolo accadere», ha detto il presidente sudcoreano. Ecco le mani che si toccano, che sconfiggono la lebbra della boria, della presunzione egemone, della violenza e che forse potrebbero sconfiggere anche alcune nostre distanze e scomuniche. Facciamolo accadere.

3.    Infine mi pare che per sconfiggere la lebbra e l’esclusione serva anche la volontà, la decisione. «Se vuoi, puoi guarirmi». Come “se vuoi?”, sembra chiedere Gesù: certo che lo voglio, sono venuto per questo! E infatti, dichiara: «Lo voglio, sii purificato». Non bastano le emozioni o le intenzioni: ci vogliono le decisioni, le scelte. Ce l’ha fatto capire quel papà che martedì è venuto a raccontarci l’esperienza vissuta con Emanuele, suo figlio sedicenne morto di droga. Amministratore delegato di una grossa azienda, non si era reso conto di quello che stava vivendo suo figlio che una notte decide di farla finita. A quel punto crolla tutto il castello imprenditoriale e professionale, ma a quel punto nasce anche la decisione di mettere la vita a disposizione di altri ragazzi e genitori perché non si ripeta quel tragico errore. Lo voglio, ha detto papà Giampietro: ci sarò. E ha detto a suo figlio: Scusami, Ema, se non mi fermo a piangerti come farebbero altri padri: io vado avanti. Atteggiamento ben diverso da quei genitori di Lucca conniventi con l’assunzione di sostanze dopanti da parte dei loro figli ciclisti. Non solo sapevano: incoraggiavano. Ecco la lebbra che per essere vinta ha bisogno di responsabilità, di volontà, di e di no. E allora la vita cambia. E forse non sentiremo più il grido “Impuro, impuro” ma quello di un’umanità sollevata, liberata dalla lebbra, restituita a se stessa, quella cui anche noi possiamo contribuire a dar forma. 


sabato 3 febbraio 2018

Omelia 28 gennaio 2018


Quarta domenica del tempo ordinario

La Giornata della Memoria è stata accompagnata quest’anno dalla testimonianza di Liliana Segre, sopravvissuta di Aushwitz e recentemente nominata senatore a vita dal Capo dello Stato. La sua vicenda ha la forza di zittire chiunque ascolti, di far pensare, di prendere ogni distanza possibile rispetto ad un male che talvolta ha un’onda lunga, nella testa di chi nega gli accadimenti o di chi ne riduce l’atrocità. Ebbene, questa donna che oggi ha 86 anni, ricorda il momento della selezione che periodicamente i prigionieri vivevano davanti ai medici del lager. Lei aveva quindici anni e miracolosamente riesce a superare la verifica. È viva. Ma dietro di lei c’è una coetanea con cui lavorava fianco a fianco: qualche parola, il sorriso, un saluto. Una ragazza cui una pressa aveva tagliato le falangi. E Janine, così si chiamava, viene mandata a morte.     Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Un rimorso che mi porto dietro per non averle fatto capire con un addio che la sua vita era importante per me. Il male è questo. È ciò che ti disumanizza anche quando del male sei una vittima. Gesù è venuto a liberarci da queste catene invisibili, da questa oscurità in cui si muove il principe delle tenebre. È quello che capita nella sinagoga di Cafarnao. Come avviene la liberazione?

1.    Anzitutto Gesù lascia risuonare le domande e le obiezioni del male. Vuole che impariamo a individuarne il linguaggio, le espressioni dietro cui si nasconde. Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? È il tentativo di creare distanza: Gesù e noi, Gesù che vuole qualcosa da noi, un Dio esigente, pretenzioso. Queste parrocchie che pretendono di avere ragazzi, genitori e padrini per preparare la cresima… Abbiamo molti impegni, che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci? Un Dio che ci perde, che è causa della infelicità. Clonazione di due scimmiette, possono essere molto utili per la medicina: se una si rompe c’è l’altra di ricambio. Dai, può essere utile per il progresso: non essere nemico della scienza… Io so chi tu sei: il santo di Dio. In queste parole apparentemente devote c’è la più potente delle sfide: io so già tutto di te, non hai più niente da dirmi. Dio dici sempre le solite cose: che noioso che sei! Dobbiamo affinare l’udito, riconoscere che in alcune nostre posizioni dove riteniamo di essere liberi, liberi non siamo: perché succubi dell’ideologia, dei nostri egoismi, della nostra incapacità di metterci in discussione. Taci, esci da costui. Bisogna far tacere queste voci, spegnere l’amplificatore con cui grida la sua boriosa presunzione.

2.    Ma non basta spegnere le voci del maligno: bisogna accendere la Parola di Gesù. La gente infatti si stupisce perché  la sua parola è differente da quella degli scribi. È una parola detta con autorità, che fa quello che dice. Che parole ascolti? Guarda che le parole del mondo spesso sono parole false, vuote, irrealizzabili. Come alcune che accompagnano questa campagna elettorale. Le parole che guariscono dal male sono quelle della coerenza. Mi ha colpito molto in questi giorni il modo con cui i ragazzi delle superiori hanno ascoltato la testimonianza di Matteo, giovane missionario che sarà ordinato sabato prossimo. Erano in silenzio e pieni di attenzione, come non sempre succede. Perché? Forse perché le parole che diceva trovavano la forza della Parola di Gesù e della testimonianza resa con la vita. Perché le nostre parole non cambiano le cose? Perché spesso sono chiacchiere. Vieni seccata a prendere tuo figlio a catechismo: entri boriosa in classe, non saluti nessuno e lo strattoni via perché i preti non capiscono quanto sia prezioso il tuo tempo. E quando la catechista la volta dopo chiede ragione al bambino di tanta urgenza, candido afferma che la mamma doveva andare a bere il caffe con le amiche. Quale parola segui, quale parola vince?

3.    Infine la vittoria sul male non avviene senza lotta e fatica: Lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte se ne andò da lui. Gesù vince con la nostra partecipazione, a volte anche con i nostri patimenti. Se ne sono resi conto i ragazzi del gruppo Emmaus che venerdì sono andati a Treviso ad ascoltare le due donne legate da un’amicizia che sembra impossibile: perché il figlio dell’una ha ucciso il carabiniere marito dell’altra. Invece di odiarsi e distruggersi hanno fatto della loro vita un percorso di pace e di riconciliazione che ora diffondono tra i ragazzi. Ma come si può arrivare a tanto senza passare attraverso la lotta? Contro la voglia di vendicarti o di rinchiuderti? Allora al male bisogna opporre resistenza, qualche volta bisogna anche accettarne lo strazio, sapendo che non è l’esecuzione di una condanna ma il travaglio di un parto. Prova a vedere se dai tuoi mali, dalle tue ferite, dalla tua solitudine può nascere vita. Anche questa forse sarà una giornata della memoria, baluardo contro il male, forza di un mondo umano, ancora possibile.

Omelia 14 gennaio 2018


Seconda domenica del T. O.

Abbiamo sentito in questi giorni la vicenda di quell’insegnante di Avola picchiato dai genitori di un alunno rimproverato in classe. Scene che si ripetono ormai con una certa frequenza con ragazzi che rispondono con il vaffa ai richiami dei docenti e genitori che in maniera spregiudicata e talora offensiva prendono le difese dei ragazzi. Mi pare che stiamo ignorando gravemente la questione educativa interrompendo quel rapporto di alleanza che lega tra loro i soggetti che intervengono nel mondo dei ragazzi e, ancor più grave, compromettendo l’attenta e coerente comunicazione delle direttrici fonda-mentali del vivere, tra cui il rispetto e la responsabilità. Nel vangelo di oggi vi sono alcuni aspetti da rimettere in gioco, elementi che in nome di una malintesa libertà e di una frettolosa distanza da Dio ci siamo dimenticati, non senza gravi conseguenze.

1.    Innanzitutto vi è Giovanni Battista che indica Gesù. Ecco l’agnello di Dio. E due dei suoi discepoli lasciano il vecchio maestro e si mettono sulle tracce del nuovo rabbi. Ecco il primo insegnamento: ogni maestro da solo non basta, ogni azione educativa ha bisogno di indicare un riferimento superiore. Un po’ come Eli che insegna al giovane Samuele a dire: «Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta». Il ragazzo che insulta l’insegnante, i genitori che lo picchiano hanno come unico riferimento se stessi. Ma da solo non ti basti: finisci prigioniero delle tue strette visioni, di idee che divengono ideologie, talvolta dei tuoi rancori o delle paure. Cosa rimane del Natale se in un gruppo di catechismo di quarta elementare, su dodici ragazzi, solo tre sono stati a messa? È una questione di coerenza educativa ma anche di messaggi sulla vita e sui suoi orizzonti: un bambino cresce e comprende che c’è qualcuno di più grande, qualcuno di cui anche il papà e la mamma hanno bisogno, qualcuno che ti dice che alcune cose sono importanti e altre non vanno bene.

2.    Un secondo aspetto importante sono le domande. Domande che pone Gesù: Che cosa cercate? Domande che pongono i discepoli: Maestro dove abiti? Penso che le domande oggi siano piuttosto scomode e noi abbiamo smesso di farcele per non trovarci di fronte a quello che intuiamo ma, per paura o pigrizia, non vogliamo riconoscere. Eppure è proprio nelle domande che Dio spesso ci dà appuntamento. Pensate all’ora di religione: facoltativa. Certo, può essere un diritto non avvalersene, ma in tal modo abbiamo tolto Dio di mezzo e cessato di farci domande sull’oltre o su una dimensione che ha segnato l’esistenza umana di molti. Offriamo patatine da Mc Donald e abbiamo rinunciato a quello che d. Ciotti chiama il morso del più. I cristiani interrogano e si lasciano interrogare. La Caritas in questi ultimi tempi ha lavorato parecchio per assicurare assistenza a una persona in grave difficoltà, confrontandosi anche con i necessari passaggi burocratici che il caso richiedeva. E quella domanda evangelica ritornava molto forte: che cosa cercate? La legge o la persona? Servizi sociali o carità cristiana? I protocolli o l’uomo? E così, sperando che la gente nel frattempo non muoia, aspetti quando la burocrazia dorme, per chiamare l’ambulanza e assicurare un ricovero che altrimenti appare impossibile. Che cosa cercate? Le domande, ci diceva Biagi in avvento, impediscono alla coscienza di addormentarsi, ci tengono desti in un mondo che qualche volta ci canta la ninna nanna dei sentimenti e delle responsabilità.

3.    E infine: Venite e vedete. Una vita che sia vita ha bisogno di luoghi in cui dimorare e osservare condizioni di possibilità. Gesù percorre questa strada: non fa troppi discorsi ai discepoli ma offre loro l’occasione di vedere una vita differente, la sua È la logica della testimonianza, del dare a vedere, dell’essere credibili perché prima si è credenti. Pensate a fratel Biagio che sta dormento sotto i cartoni, davanti alle poste di Palermo, per riuscire a strappare alla città un posto per ospitare i senza tetto. C’è molta gente che lo sta raggiungendo in queste ore, attratta non dai discorsi ma dalla vicinanza che quest’uomo è stato in grado di stabilire con i poveri. Venite e vedrete. La sfida educativa non la si vince con le informazioni e neanche con le raccomandazioni: la si vince col coraggio della testimonianza e con la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si è.

Maestro dove abiti? Aiutaci, Signore, a smascherare chi ci vende illusioni e a dimorare nella vita vera. Aiutaci a essere un segno per le giovani generazioni, a non disertare l’umano e ad esserne segno.