domenica 26 febbraio 2012

Omelia 26 febbraio 2012

Prima domenica di quaresima

In macchina si guida e si pensa. Almeno per chi come me normalmente viaggia da solo. E la radio fa da colonna sonora all’agenda degli impegni, alle riflessioni, a quello che ti prepari a dire in una lezione o a in incontro. Ma le note talvolta prendono il sopravvento, soprattutto quando trasportano versi che inchiodano e paralizzano ogni altro pensiero.
Mina. Ultimo suo disco. Questa canzone. Mentre la sentivo mi pareva che Dio stesso cantasse, all’inizio di questa quaresima.
Canto per te questa canzone/per tormentarti ancora un po’,/tornare lì per un momento/con te che non puoi dire ”no”
Dio che torna a tormentarci, ma che per farlo non trova niente di meglio che cantare, fiducioso che a tutto possiamo resistere fuorché al suo canto di innamorato. Un Dio che va oltre le nostre sdegnose o apparentemente indifferenti alzate di spalle nei suoi confronti raccogliendo il nostro sussulto interiore: adesso fingerai di niente, ma dentro invece tremerai.
È un Dio che ritesse una storia di fedeltà alleandosi alla parte migliore di noi, quella che lui vede anche quando noi non vediamo, anche quando abbiamo la sensazione che quella con lui sia una storia conclusa o una storia delle possibili sue  recriminazioni nei nostri confronti.
Volevo solo dirti ancora/che non è passata mai,/che tu mi senti come allora,/anche se non lo dici mai.
Per Dio non è finita e ostinatamente torna a cantare questa canzone per farti male forse un po’, perché tu sappia almeno ancora che dentro non mi hai perso, no.
Mi sembrano parole bellissime per comprendere il vangelo delle tentazioni che abbiamo appena ascoltato, perché la grande tentazione è appunto questa: pensare che Dio sia altrove, si sia stancato di noi o peggio ancora sia indispettito perché ci siamo stancati di lui. E invece Dio canta. Dove?

1.    Il deserto. Dio non cerca situazioni ospitali per poterci riprendere. In quel tempo lo Spirito spinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni. Nel deserto rimase. Abbiamo celebrato mercoledì i funerali di Mario Sardi, il quarantasettenne tragicamente morto in montagna. Eravamo in tanti in questa chiesa, ma era come se fossimo nel deserto dell’esistenza, quando solo la morte sembra avere la meglio. Ma che brividi ci ha fatto dopo la comunione la voce della sorella di Mario che, di fronte alla bara, cantava il Panis angelicus. Il pane degli angeli sazia la fame degli uomini. Quel canto allude all’esperienza dell’esodo quando, proprio nel deserto, Dio sazia il suo popolo con la manna, il pane disceso cielo, anticipo dell’Eucaristia. Nel deserto Dio non ci abbandona, si serve anche di un brivido musicale per farci comprendere che c’è. E quei quaranta giorni, per quanto possano pesare o sembrare troppi, indicano sempre un termine, una conclusione. Quaranta. Non di più. Dio a volte si vela di incomprensibilità per tirarci fuori dalle idee confuse che abbiamo di lui. Per farsi ritrovare e per farci ritrovare.

2.    Stava con le bestie selvatiche. Il deserto dell’esistenza è popolato da bestie. E Gesù è là in mezzo. Ecco il canto di Dio: in mezzo ai ruggiti di chi ti può sbranare. Il Daily Telegraph, importante giornale londinese, ha denunciato la triste realtà di medici disposti a chiudere un occhio di fronte alla sconcertante richiesta di alcune donne, di «sbarazzarsi di un figlio» semplicemente perché non è del sesso desiderato. Usando un reporter in incognito che ha accompagnato donne incinte in nove cliniche del Regno, il quotidiano ha scoperto tale vicenda che ora sta inquietando l’opinione pubblica inglese. Ecco le bestie selvatiche. A volte le loro fauci ci dilaniano, a volte siamo noi a dilaniare gli altri: per garantirci una sopravvivenza, un territorio che anche la presenza di un figlio potrebbe compromettere. La tentazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione. No. Non ti tradire con la gente, canta Mina. Dio canta la canzone anche in questo caso. Per ricordarti che non sei una bestia e da questi istinti belluini ti puoi affrancare. Con lui e grazie a lui.

3.    E infine gli angeli lo servivano. Il canto di Dio è accompagnato dalla presenza degli angeli. Sei in buona compagnia. Perché quando sei a servizio di Dio e del suo progetto gli angeli si fanno interpreti di tale servizio e si mettono a tua disposizione. Vuoi fare da solo, di testa tua, senza Dio o vuoi metterti a servizio suo? In questo caso volano gli angeli. Pensate alla notizia shock, tutt’altro che infondata, che pubblicano i giornali locali: “Si prostituisce con la figlia di 16 anni”. Bel modo di aprire una ragazza alla vita che, per fortuna, rappresenta un caso limite. Ma pensate ai messaggi più generali che inviamo o non inviamo agli adolescenti sulla sessualità. Sono messaggi ammiccanti o cautelativi. Vuoi fare: hai ragione. Vuoi fare: stai attento. Forse c’è anche una comunicazione che fa intuire il valore. Sessualità che in un uomo fatto corpo e di spirito. Sessualità dove anche Dio ha qualcosa da dire. Se ti riconosci in questo progetto gli angeli si mettono a tuo servizio e ti fanno volare un po’ più in alto di quei livelli che più che voli sono saltelli sul posto.

Canto per te per tormentarti ancora un po’. La quaresima è il tempo del tormento di Dio. Nei nostri confronti. Ma soprattutto tormento suo. Perché non si rassegna a perderci e perché ci vuole uomini.

Se vuoi sentire Mina - http://www.youtube.com/embed/N7Q6BBx-ghg

martedì 21 febbraio 2012

Omelia 12 febbraio 2012

Settima domenica del T. O.

Ieri mattina a Zelarino c’è stata la presentazione dei dati relativi alla religiosità del Nord-Est, pubblicati in un’ampia inchiesta curata dall’Osservatorio Religioso del Triveneto. Emerge un panorama credente in veloce evoluzione che interessa in maniera particolare le giovani generazioni. Non avevamo bisogno delle inchieste per capirlo: basta osservare la distanza pratica che non più e non solo i giovani, ma anche i ragazzi prendono dall’ambiente ecclesiale, dalla messa domenicale, dal catechismo senza che questo costituisca un grosso problema, né per loro né per la loro famiglia. Si può essere infatti cristiani in tante maniere visto che, se i cattolici al Nord-est sono il 77% della popolazione, oltre la metà si definisce credente “con riserva” o “a modo suo”.
I figli sono perfettamente in linea con il trend dei padri e con una varietà nel modo di credere che sembra socialmente ratificabile e umanamente rispettosa: puoi essere cristiano come vuoi tu. Non importa vincere, ma partecipare, anche se il cristianesimo che interpreti non è quello che ti presentano i preti o la tradizione.
I dati dell’indagine interrogano il nostro futuro e le modalità con cui trasmettiamo la fede. Dobbiamo però interpretarli non solo in relazione alla statistica, ma alla luce della parola di Dio, al suo modo di vedere le cose e il vangelo di oggi ci viene in aiuto. Un paralitico condotto da Gesù, icona delle nostre paralisi e della possibilità di uscirne.

1.    Un primo dato è costituito dalle persone che, escogitando un sistema ingegnoso, introducono il paralitico attraverso il tetto davanti a Gesù. Da parte loro c’è la persuasione che il Rabbi di Galilea possa fare qualcosa di importante. Non sanno ancora che cosa, ma sono guidati da una certa fiducia che non sfugge a Gesù: vista la loro fede. La fede li ha messi in movimento. Se c’è una paralisi che può bloccare le percorrenze dell’uomo contemporaneo verso Cristo, c’è una paralisi che può bloccare anche i suoi discepoli e la loro fede. Quando tu prendi a cuore la fede dell’altro, le sue paralisi, quando ad esse non ti rassegni barattandole come espressione di libertà, una guarigione è già avvenuta. La tua. Cosa possiamo fare per la fede dell’altro, per prendercene cura: un consiglio, un esempio, un incoraggiamento? Non lo sappiamo se gli servirà. Sappiamo però che servirà a noi, per uscire dal nostro immobilismo e ritornare ad affermare che nella direzione del vangelo c’è una vita buona, che ti rimette in piedi.

2.    Un altro aspetto riguarda il dialogo tra Gesù e il paralitico. «Figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati». La situazione è un po’ strana, come se vi fossero due livelli di guardia. Quelli di un uomo colpito da una distrofia per il quale si invoca guarigione e quelli di un male più profondo che Gesù riconosce nel cuore dell’uomo e chiama peccato. L’indagine triveneta ha messo in luce un dato che fa riflettere: la chiesa è percepita in maniera più severa di quanto non si percepisca lo stesso Dio. Un tempo il suo occhio triangolare indagatore incuteva timore; oggi lo stesso atteggiamento sembra legato a una chiesa più matrigna che madre. E con questa chiesa non si intende più avere a che fare. È importante che ce lo ricordiamo e che soprattutto l’istituzione ecclesiale non dimentichi i tratti della misericordia. Ma c’è da chiedersi se talvolta non vi sia la pretesa di saltare il secondo livello di guardia, cui la chiesa ti riconduce. Oggi si guarda con favore ad una chiesa che rialza dagli intoppi della vita: la chiesa della solidarietà, delle sue organizzazioni caritative e assistenziali. Una chiesa che si prenda cura dei bambini ma lasci perdere le politiche sulla famiglia, che tenga aperte le mense della Caritas ma non entri nelle questioni dell’immigrazione, che curi l’educazione ma lasci stare la scuola. Che cosa è più facile, dire: ti sono rimessi i peccati o alzati e cammina? La guarigione dell’uomo non è a settori: è integrale. La chiesa talora è impopolare non perché è matrigna ma perché guarda all’uomo custodendone misure complete. Gesù rimettendo in piedi il paralitico ci fa capire dov’è la vera paralisi: è quella che ci impedisce di camminare sulle strade di Dio, di accogliere il suo progetto di salvezza, di cambiare mentalità e di essere uomini fino in fondo e non solo in qualche periferico movimento. E pazienza se le nostre quotazioni saranno in ribasso. Per fortuna Gesù Cristo non guarda lo share.

3.    Infine, dopo il miracolo, mentre il paralitico guarito se ne va, la gente dice: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!». Proprio lui, calato dal tetto, protagonista di quella straordinaria vicenda che avrebbe fatto la gioia televisiva di Bruno Vespa, se ne va senza una parola di commento.
Il cristianesimo che fa breccia è quello che desta sorpresa non per le dichiarazioni che rilascia ma perché ritorna a camminare. Ecco che cosa ci chiede il Signore in questo nostro tempo e in questo nostro Nord-Est: ritorna a camminare. Non ti inquietare, né delle polemiche di Celentano, né sugli attacchi dell’Ici e nella semplicità del tuo quotidiano riprendi i contatti con gli uomini e fai vedere che la paralisi non ti appartiene e le strade di Dio continuano a percorrere quelle degli uomini. Lui che continua a dire: Ecco, io faccio una cosa nuova, non ve e accorgete?

domenica 12 febbraio 2012

Omelia 12 febbraio 2012

Sesta domenica del Tempo Ordinario

Il Tribunale di Bologna il 13 gennaio scorso ha condannato un giovane di 26 anni per aver insultato un coetaneo eritreo: «Sporco negro». Parole che evocano discriminazioni che ci piacerebbe fossero finite ma che ogni tanto ritornano e ci fanno capire come la nostra società sia percorsa da linee invisibili di demarcazione che racchiudono varie tipologie umane e la pretesa di essere più uomini di altri o con più diritti di altri. Nel vangelo di oggi c’è una mano tesa che supera questo subdolo confine e cerca una prossimità nella quale è custodita l’autentica misura dell’umano. La lebbra ai tempi di Gesù più che una malattia era una segregazione e una condanna, un’esclusione, di chi ne era affetto, da ogni vincolo sociale. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.

Quante volte si è udito questo grido nella storia. Lo ha ribadito il presidente Napolitano che, in occasione della recente Giornata della memoria, ha ricordato che la Shoah, oltre ad essere un genocidio sistematico di un popolo, procurava anche lo sterminio degli oppositori politici del regime, di omosessuali, disabili fisici e mentali, delle popolazioni rom e sinti. E vediamo che l’onda lunga di tale devastante discriminazione non è ancora passata e il filo spinato continua a percorrere la i nostri rapporti con l’altro percepito come diverso.
Che cosa ci suggerisce Gesù? Come si comporta?

1.    Anzitutto si pone di fronte al suo interlocutore udendone la supplica. «Se vuoi puoi purificarmi». Puoi sottrarmi da questa esclusione. Pensate a come tale supplica oggi ci raggiunge e da parte di chi. È la supplica della gente immigrata che ci invita a superare la xenofobia con cui anche oggi ci misuriamo, è il grido contro il negazionismo che tenta di cancellare la memoria di un eccidio come un tempo si è cercato di cancellare l’altro. Ma pensate anche all’incalzante monitoraggio cui ogni donna incinta è sottoposta: da un lato rassicura in un’esperienza importante come quella della gestazione, dall’altro espone continuamente di fronte alla domanda non solo sulla salute dell’embrione, ma anche della sua “normalità”. E se bisogna verificarla, significa che qualcuno normale non è e a quel punto sembra legittimo chiedersi se val la pena di metterlo al mondo. Ma chi stabilisce la normalità? Se vuoi puoi. Puoi udire un grido, puoi sfidare la mentalità corrente, puoi prendere posizione. Puoi rompere il muro di silenzio che talvolta è più lacerante del filo spinato di Auschwitz.

2.    Gesù non si limita a udire e ad osservare. Ne ebbe compassione, tese la mano e lo toccò. Vibra delle percezioni dell’altro e lo raggiunge senza esitazioni. La discriminazione può essere vinta solo se raggiungiamo la reale situazione altrui, se tocchiamo con mano. In questi giorni è ritornata la polemica a proposito del decreto definito “svuota carceri”. E subito a preoccuparsi perché le strade saranno nuovamente piene di malviventi. Impuro, impuro… C’è un decreto molto equilibrato che affida al magistrato, non ad una generica amnistia, la possibilità di trasformare una residua parte di pena in forma sostitutiva alla detenzione. Ma qualcuno non ne vuole sapere. Carcere, sbarre, rigore, sicurezza. Buoni e cattivi. Ma dentro ad un carcere non ci sei mai stato, non hai visto il degrado di un ambiente che trasforma l’ultima possibilità di redenzione della vita nella definitiva perdita di sé e della speranza. Leggete “Alice nel paese delle domandine” di Monica Sarsini che racconta l’esperienza delle detenute nel carcere di Solliciano, vicino a Firenze. Le domandine sono quelle che le detenute devono fare per tutto, anche per tenere un paio di mutande in più rispetto a quelle che indossano e che ogni sera lavano. Toccare con mano e riattivare la compassione. È più obiettivo che analizza con freddo disincanto o chi riattiva anche il cuore? L’essenziale è invisibile agli occhi.

3.    Infine Gesù raccomanda di non dire niente a nessuno. È impressionante questo silenzio che Gesù cerca rispetto all’efficacia dei suoi gesti che gli potrebbero procurare grande popolarità e favore. Ma ciò che a lui preme non è tanto la restituzione di immagine quanto il cambiamento dell’uomo. E non solo dell’uomo guarito, ma anche di quell’uomo che gli vive accanto: Va’ a mostrarti al sacerdote. Il sacerdote era il crocevia di un riconoscimento sociale che decretava la guarigione del malato, indagando però anche sulle circostanze. E in quelle circostanze c’era un inedito che non rientrava nella prassi comune: un’azione di Dio che guariva mediante la medicina dell’amore. Ecco, non basta curare un malato: occorre promuovere una cultura della relazione nella quale ci rendiamo persuasi che oltre all’antibiotico occorre il rispetto, l’umanità, la pazienza di spiegare un referto, la possibilità di includere anche la fede tra le chances di un malato. Gesù invita la società del suo tempo a riorganizzare i suoi criteri di giudizio per non dover più gridare all’impuro e ritrovare autenticamente se stessa. C’è la lebbra della pelle che conosce vari morbi e ci inquieta, ma c’è anche una lebbra dell’anima, più pericolosa e sfuggente nella quale la compassione di Gesù nuovamente si effonde, stende la mano perché diventi la nostra.