domenica 10 dicembre 2017

Omelia 10 dicembre 2017


Seconda domenica d’avvento

Marco Dolfin è un giovane chirurgo di Torino; rientrando dal viaggio di nozze è coinvolto in un tragico incidente che lo costringe su una sedia a rotelle. Con grande tenacia però il medico ha ricominciato ad operare rimanendo seduto. Ma siccome certi interventi complessi non li poteva fare, in questi giorni è stato dotato di una speciale apparecchiatura che gli consente di stare in piedi e di tornare ad operare come prima. Quest’uomo poteva deprimersi, arrabbiarsi, prendersela con Dio e con chi lo ha investito e invece è ripartito. Un nuovo inizio della sua vita. Ebbene, anche nel vangelo di oggi risuona questa parola. Inizio del vangelo di Gesù Cristo. Dio ci dà continuamente la capacità di iniziare da capo, di tirare fuori la parte migliore di noi, di essere parte della bellezza che egli ha deciso di diffondere nel mondo. Com’è che si ricomincia, com’è che si torna a vivere?

1.    Anzitutto ascoltando la voce di uno che grida nel deserto. Il deserto per Israele è il luogo dei grandi inizi: dell’esodo, del rientro da Babilonia. È il luogo che sancisce la necessità di stabilire un nuovo contatto con Dio e di ascoltarne la voce che finalmente ritorna udibile. Nella confusione della città quando sei travolto da occupazioni e preoccupazioni non sempre odi la voce. Senti solo notizie che si sovrappongono, chiacchiere e gossip, comunicazioni prevaricanti o abilmente gestite da chi tiene ben salda l’informazione e il potere che ne deriva. E così certe notizie non ci raggiungono o sono pesantemente condizionate dall’opinione prevalente. Pensate al dibattito sullo ius soli in relazione alle elezioni ormai vicine. Chi se ne fa interprete è bruciato in partenza, nonostante il riconoscimento che il disegno di legge ipotizza non sia una liberalizzazione degli ingressi e nonostante vi siano migliaia di ragazzi che non possano neanche praticare uno sport perché, non avendo cittadinanza, non si possono neppure iscrivere in una squadra. Chi ascolti, di chi ti fai interprete? Dei rumori della panca o della voce che grida nel deserto? Guarda che gli inizi di Dio a volte sovvertono lo status quo.

2.    Altro aspetto che decide il nuovo inizio è la conversione: si facevano battezzare da Giovanni confessando i loro peccati. Se vuoi essere nuovo devi smetterla con ciò che ti invecchia, con le logiche di sempre, con quel male che ti seduce, promette e non mantiene, ti assicura vittoria ma ti toglie la vita. C’è qualcosa da cambiare? C’è qualcosa da cui prendere le distanze? Quell’uomo che a Treviso ha sfasciato le slot gridando che sono truccate è un problema di macchinette manomesse o è la tua vita che è manomessa, magari anche a motivo delle slot su cui prosperano anche i guadagni dello Stato? Il problema della violenza femminile è circostanziato alle donne abusate o l’abuso è anche nell’idea della sessualità a cui oggi segretamente ammicchiamo? Il Giordano è un fiume che racconta la storia di Israele, la storia di Dio con quel popolo. Prova a vedere dove è andata a finire la tua storia con Dio e prova a reimmergerti nell’acqua in cui sei stato battezzato. Altre acque rischiano di essere pozze acquitrinose.

3.    Infine la novità vuol dire guardare anche oltre se stessi. Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale non sono degno di slacciare i sandali. Si è nuovi quando non ci si identifica con la totalità ma si comprende il proprio limite. Smetti di sentirti onnipotente! Perché è un grande inganno, perché ci sarà anche un dopo di te, in mano a colui che è alfa e omega. Tu, quando va bene sei una virgola… Prova a riconsegnare la storia a Dio. Ti fa bene per tutte le vicende che vorresti cambiare e non puoi, ma anche per quelle che potrebbero cambiare e non vuoi. Perché a volte siamo più attaccati alle nostre ragioni più di quanto non lo siamo al vangelo. E si arriva ad andarsene da questo mondo senza dare o ricevere perdono attaccati alle proprie ragioni più di quanto non lo siamo al vangelo. Noi aspettiamo cieli nuovi e terra nuova, ci ricordava S. Pietro. Come può esserci questa novità ultima e definitiva se non siamo stati in grado di esprimere la novità di un sorriso, di un saluto, di un abbraccio? Come ti presenti al Signore o come vivrai i giorni che ti restano? Inizio del vangelo di Gesù Cristo. Forse queste parole sono lì non solo per segnalare l’incipit di un libro, ma per ricordarci che inizio sei tu se il vangelo ti appartiene e con la tua vita diventi vangelo.

domenica 3 dicembre 2017

Omelia 3 dicembre 2017


Prima domenica di Avvento

Abbiamo assistito nei giorni scorsi a Como all’irruzione di un gruppo di giovani skineads nella sede di un’associazione che si occupa di migranti, per leggere un comunicato farneticante contro l’accoglienza. Parole piene di boria e di retorica sulle quali anche il portavoce neofascista sembrava incespicare. Una scena grottesca e patetica , dove i volontari di Como senza frontiere, più che con paura, guardavano con smarrimento e pietà quelli che potevano essere loro figli e nipoti, mentre recitavano una parte di cui neanch’essi sembravano persuasi.

Di fronte a questi fatti, tuttavia, non si può essere indifferenti: la storia ci insegna che spesso le più sinistre ideologie, anche se arrivano da ...destra, hanno preso forma da segnali trascurati, da movimenti marginali e sotterranei che poi si sono trasformati in un fiume in piena.

Ecco allora l’invito che l’avvento ci rivolge. Vegliate. Un imperativo che nel vangelo di oggi risuona per tre volte. Attento a non addormentarti, perché c’è il rischio di perdere l’appunta-mento con Dio e l’appuntamento con la vita.

Che significa vegliare?

1.    È come un uomo che è partito lasciando la sua casa ai servi. Vegliare significa custodire una casa che ci è affidata. Ma bisogna fare attenzione perché non è detto che il nemico venga da fuori. Il nemico può essere anche dentro di noi. Gli skineads credono che i nemici siano gli immigrati, che la casa sia travolta dal loro arrivo. Invece il nemico più grande è annidato nel loro cuore e porta il nome della paura, della presunzione, della cattiveria, dell’egoismo. Chi è che vuole usurpare casa tua? Noi tutti siamo avvizziti come foglie diceva il profeta Isaia. Che cosa ci avvizzisce? L’assenza di Dio, la sensazione di poter fare anche senza. Mi ha colpito e un po’ rattristato la scarsa partecipazione all’incontro sull’educazione religiosa dei bambini. Qualcuno ha detto che l’ora era infelice. Ma lo scorso anno, stessa ora e stesso relatore registravano il pienone. Quando parli di abilità, di competenze, di metodo di studio si crea subito molto interesse. Quando si parla di Dio, la questione sembra facoltativa. A volte però c’è bisogno di aprire il cielo e non solo i libri di scuola. E le domande vere non sono i quiz dell’Eredità. Se tu squarciassi i cieli e scendessi.

2.    A ciascuno il suo compito. Vegliare vuol dire assumere una personale responsabilità. A ciascuno la propria. Ora, mi pare che ci sia uno sconfinamento di competenze dove ognuno fa il mestiere dell’altro. E lo si fa con una sicumera e una carica di presunzione che non ammettono repliche. Oggi frequentiamo spesso la facoltà di internettologia che rilascia lauree veloci in tutti i campi. Ha ragione quel medico che ha scritto in sala d’attesa: Coloro che si sono già diagnosticati da soli tramite Google, ma desiderano un secondo parere, per cortesia controllino su yahoo. E dove non c’è internet c’è whatsapp e il gruppo mamme dove le insegnanti si trasformano in mostri, si ingenerano faide, si crea divisione non solo tra il corpo docente, ma anche tra genitori e i ragazzi a scuola. È giusto essere consapevoli di quello che avviene a scuola; magari non sempre un insegnante agisce o reagisce nel migliore dei modi. Ma prova a valutare gli interventi e l'opportunità di una gradualità. Prima provo a vedere se sia attendibile quello che mi racconta mio figlio, poi parlo con il docente interessato, poi mi recherò dal preside. E sempre nel rispetto reciproco. Perché altrimenti siamo come i naziskin che se ne vanno dicendo: Nessun rispetto per voi. A ciascuno il suo compito. Di genitore, di insegnante, di allenatore, di catechista. Veglia sul tuo operato e non solo su quello degli altri.

3.    Infine i turni della veglia. Nel mondo ebraico erano quattro: la sera, mezzanotte, al canto del gallo, al mattino. Le prime due veglie sono fatte di resistenza, le seconde due, mentre sorge il sole, sono fatte di speranza. Ecco una bella ricetta per la vita: resistenza e speranza. Domenica scorsa in un supermercato bolognese la gente si è messa in coda per due ore per mangiare una fetta di torta per il compleanno del centro commerciale. C’è qualche speranza migliore per sostenere la nostra resistenza? Se la resistenza fosse un po’ di assistenza in ospedale? O fosse pensare che il proprio matrimonio possa essere migliore di ogni altra compagnia o solitudine? Vegliare vuol dire attraversare qualche volta anche la notte, sapendo che la nostra speranza è abitata da Dio. L’avvento che inizia ci aiuti a ricordarlo, a liberarci dal torpore, ad accogliere ancora una volta l’iniziativa di Dio.




martedì 21 novembre 2017

Funerale Maria Pauletto


Maria De Lazzari in Pauletto  (21 nov. 2017)

Ct 2, 8ss – Mt 7, 24- 29

Chi ascolta la mia parola e la mette in pratica, è come l’uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Queste parole del vangelo, in questo momento, sono rivolte anzitutto a noi. Perché quando ci confrontiamo con l’esperienza della morte, sentiamo che le nostre certezze vacillano, i nostri sistemi di vita divengono traballanti e la casa che abitiamo improvvisamente ci appare meno sicura.

Se poi ad andarsene è una persona ancora giovane, una donna importante non solo per la sua famiglia, ma per molta gente che in lei trovava accoglienza, attenzione e sostegno, l’inquietudine, insieme alle nostre domande, si fa ancora più viva. Ma forse è proprio qui che la vita o più probabilmente il Signore ci danno appuntamento, perché se non ci arriva qualche scossone più deciso noi non ci fermiamo: la velocità ci travolge, evitiamo le domande, il confronto, la profondità e assomigliamo molto all’uomo che costruisce sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande.

Quante volte Maria con i ragazzi dei corsi matrimoniali ha commentato questa immagine, mettendoli in guardia da una vita inconsistente e approssimativa. E oggi fa la stessa cosa con noi perché impariamo a dare spessore all’esistenza, a giocarcela bene, anche quando gli eventi ci sorprendono in maniera oscura e inquietante. Noi possiamo essere più forti degli eventi, grazie a qualcuno che ci sorregge. Maria aveva affidato la sua vita al Signore: il vangelo la accompagnava ed è questa la roccia che oggi indica anche a noi.

1.    Roccia per Maria era l’esperienza coniugale e famigliare. Quando una diviene mamma e poi nonna, a volte si dimentica di essere anche una moglie. Maria invece continuava ad essere la sposa di Antonio e mi colpiva molto l’intimità che entrambi riuscivano a vivere anche in questi ultimi drammatici giorni. Sembrava che i ti amo, reciproca-mente sussurrati all’orecchio, contassero più della chemio. Su una cartellina in cui custodiva i ricordi, Maria aveva conservato il libretto del suo venticinquesimo anniversario e vi aveva raccolto anche il testo di una canzone di Morandi: Ma poi arrivi tu e scegli me, sorridi e vanno via le nuvole perché mai niente è impossibile in questo viaggio con te. La bibbia non dice nulla di diverso: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l’amore, le grandi acque non possono spegnerlo, né i fiumi travolgerlo. E questa bella esperienza d’amore faceva bene anche ai tanti fidanzati che Maria e Antonio accompagnavano nei percorsi di prepa-razione al matrimonio. Qualche tempo fa le avevo chiesto se avesse voluto sospendere l’itinerario che attualmente stava facendo con un gruppo di loro. E lei aveva detto che quella esperienza era importante, la stava sostenendo nella sua malattia e forse arricchiva anche i suoi ragazzi. Proprio vero: più forte della morte è l’amore.

2.    Ma roccia per Maria era anche il suo lavoro alla Scuola materna. Lo aveva iniziato una ventina d’anni fa quando aveva sospeso la precedente occupazione perché avvertiva l’esigenza di stare un po’ di più con i suoi figli. Ma le rimaneva del tempo e per questo aveva iniziato a darci una mano in parrocchia e nella Scuola, prima nel volontariato, poi trovando un impiego vero e proprio, in cui metteva non solo competenza, ma anche passione, relazioni buone, cordialità. Faceva fatica a dire di no e, se rimaneva ancora qualcosa da fare, sapevi di poter contare su di lei. Maria aveva un’impostazione rigorosa dal punto di vista contabile, com’era retta e precisa anche nella vita, ma nella partita doppia che quotidianamente aggiornava, sapeva inserire una voce che oggi a volte sembra passata di moda: gratuità. È una voce che va oltre i bilanci terreni e che ha a che fare con la remunerazione divina. Quando ci spendiamo per gli altri, per i piccoli e i poveri in particolare, non si riempiono le tasche terrene, ma le casseforti del paradiso. E il paradiso non è solo quello che ci verrà incontro nell’ora della morte, ma anche quello che, con nostra stessa sorpresa, si realizza sulla terra. Il paradiso Maria lo riconosceva tra i bambini della scuola e quel paradiso è sceso tra noi anche per un po’ di merito suo. Quando ti spendi per gli altri la tua vita trova nuova stabilità e nuovo futuro.

3.    E infine la pagina più impegnativa. Perché quando le cose vanno bene, la nostra casa più o meno sta in piedi. Ma quando arriva la bufera rischiamo di esserne travolti. Maria ad un certo punto ha iniziato a fare i conti con una malattia che subito sembrava gestibile, ma che dal mese scorso ha rivelato un’inattesa aggressività. E Maria ha lottato tanto: «Sono una guerriera, io». E spesso aggiungeva nei messaggi l’iconetta del braccio muscoloso. Lottava contro la sfiducia, lo scoramento e metteva tutto nelle braccia di Dio. «La guerriera – mi scriveva nel febbraio scorso - va a rapporto dal Capo tutte le mattine. D’ora in avanti allargherò il giro e passerò anche dalla sua Mamma». «Pezo dee to suore», scherzavo io. E lei: «Te poi dirlo». Negli ultimi giorni rileggeva la sua vicenda e, nonostante le fatiche e la consapevolezza che non sarebbe durata a lungo, non cessava di ringraziare il Signore per i suoi cari che le erano accanto, per gli atteggiamenti che vedeva in loro. Ed era grata per le suore e i bambini che pregavano per lei e le tante persone che le volevano bene. L’oncologa aveva detto che le cure in atto avrebbero causato situazioni alterne: una discesa e una risalita. E Maria ogni tanto chiedeva ad Antonio: «Semo drio ndar zo o semo drio ndar su?». Antonio cercava di rassicurarla, finché poco prima di andarsene, l’ha detto per l’ultima volta: «Semo drio ndar su, vero?». E si capiva che quel su non corrispondeva più a un’evoluzione clinica, ma al Paradiso che ormai era vicino. Io credo che questo sia il messaggio più bello che Maria ci lascia: «Semo drio ndar su». Che queste parole ci riconsegnino alla verità della vita ma ci regalino anche la speranza che la nostra vita, nelle mani di Dio, non rimane prigioniera dell’oscurità e della morte ma si apre alla speranza e all’eterno. «Semo drio ndar su». Non dimentichiamocelo mai e grazie a Maria che ce l’ha ricordato.

domenica 29 ottobre 2017

Omelia 29 ottobre 2017


Trentesima domenica del Tempo Ordinario



Con quella maglietta addosso Anna Frank ha giocato una partita che mai avrebbe pensato. Qualcuno l’ha fatta scendere in campo, strattonandola violentemente, pensando di servirsene ridicolizzare l’avversario. Ma in questa partita Anna Frank ha vinto e noi abbiamo perso. Ha vinto perché quella maglietta non riesce a imprigionarla, la sua statura è più grande di qualsiasi becera tifoseria e il suo diario ci porta in un campo dove non solo una squadra, ma tutta l’umanità ha un appuntamento, più grande di quello sportivo. Appuntamento con la vita e con la morte, con la cattiveria  e la devastazione, con la tenacia di chi non si è lasciato calpestare nonostante sia stato messo a morte. Lei ha vinto e noi abbiamo perso. Ha perso lo sport che ha smarrito il senso del limite, i dirigenti che credono sia una sceneggiata, i ragazzi tristemente coinvolti e gli adulti che su quanto è capitato alzano incuranti le spalle. È un deficit di umanità che periodicamente torna a presentarci nuove pagine, misere e inquietanti. Abbiamo bisogno di ritrovare il senso di quello che stiamo facendo, l’essenziale, ciò che ci regge come uomini e come donne e non travisa il nostro volto.

La domanda posta a Gesù è dunque importante: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Vuol dire: che cosa non dobbiamo perdere di vista per essere noi stessi, per custodire le coordinate essenziali della vita?



1.    La prima risposta di Gesù è ama. Non: va’ a messa o prega o impegnati, ma ama. Nel DNA dell’uomo c’è questa forza che caratterizza la sua specie e la rende differente da ogni altra creatura. Quando cessi di amare cessi di essere uomo. Però è interessante il fatto che Gesù non ci dica “ama”, ma “amerai”, al futuro. E così ci fa capire che l’amore non si improvvisa: è un cammino che domanda un investimento ogni giorno, la disponibilità a mettersi in discussione e a percorrere nuove strade che interpellano i giorni. Pensate a quelle coppie in cui non arriva un figlio. C’è il rischio di vivere questa situazione come un fallimento e di lasciarsi imprigionare in un’involuzione che impedisce ad esempio di valutare  le possibilità di  adozione o di affido. Ci pare di esserne incapaci. Amerai… prova! E a volte succede che dopo questa scelta arriva il figlio che non si è avuto prima. Investire sempre nella direzione dell’amore.  



2.    Poi si scopre che gli amori in realtà sono tre e che sono strettamente relazionati. Dio, il prossimo e se stessi. Sono come le tre arcate del ponte della vita. Se ne crolla una non si passa oltre. L’amore di Dio dà grandezza all’amore, l’amore del prossimo gli dà concretezza, l’amore verso se stessi gli dà verità. A volte noi viviamo questi amori un po’ scollegati con un’esasperazione dell’amore di sé. Un amore che si trasforma in narcisismo, chiusura, ombelico. La camuffiamo con espressioni del tipo: devi volerti bene, non bisogna consumersi, bisogna risparmiarsi. Cose che Gesù non ha mai detto. Venerdì sera abbiamo ascoltato la testimonianza del dott. Dal Lago, pediatra del nostro comune, che parte ancora una volta, con la moglie, per la missione. Tanzania. E mentre questi due sposi missionari parlavano, percepivi che l’amore era totale: per il Signore, per i fratelli, per se stessi.



3.    E poi l’amore è fatto di testa, di cuore e di forze.  Perché oggi ci confrontiamo con numerosi episodi di violenza sulle donne che ci inquietano? Perché l’amore è travisato, fin dall’adolescenza. È diventato tutta pancia, istintualità. E ci pare che vada bene così. E assecondando gli istinti, scopriamo che essi non sono mai sazi, comandano e diventano sempre più despoti.  «Fai quello che ti senti, quando sei pronto». Pronto in base a cosa? Pronto lo devi essere col corpo, col cuore, con la testa, con la volontà, compresa quella che ti porta a dire dei no. Per il bene tuo e per il bene degli altri. Perché altrimenti credi di vivere l’amore, ma vivi unicamente il tuo egoismo e la tua prevaricazione. Con tutto. Non dimenticare pezzi per strada.


«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Il grande comandamento è diventare uomini veri e uomini liberi. E Gesù nell’amore ci indica la strada.   




lunedì 23 ottobre 2017

Omelia 22 ottobre 2017



Ventinovesima domenica del T. O.

Come funziona una trappola? Si conduce l’ignara vittima su un terreno apparentemente tranquillo sotto il quale si nasconde un’insidia. E più la preda è ambita, più la seduzione si fa raffinata. Pensate alle ragazzine che vengono adescate sulla rete. Da dove parte il molestatore? Dai complimenti. Così anche Gesù oggi è raggiunto dai complimenti: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno». Non aver paura di alcuno, essere liberi e veri. Ci piacerebbe essere così e ci piacerebbe che qualcuno ce lo attribuisse. In realtà è una strada che conduce a un’insidia. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? L’insidia è ti tipo economico. Visto che Gesù non lo si può imprigionare col dibattito teologico, cerchiamo di farlo con quello tributario. Quando si parla di tasse gli animi si accendono e si finisce per dire anche quello che non si vuole. La Palestina era infatti soggetta alla dominazione romana e ogni cittadino doveva versare all’imperatore un’imposta particolarmente odiosa. Se Gesù avesse detto che bisognava pagare sarebbe apparso come un alleato del dominatore, nemico del popolo; se avesse negato la tassa sarebbe apparso come un sovversivo. In ogni caso non avrebbe avuto vita facile. Invece Gesù fiuta l’inganno e percorre un’altra strada, facendo capire ai suoi discepoli come ci si muove in ambito pubblico. 

1.   Anzitutto Gesù smaschera la malizia dei suoi inter-locutori. Ipocriti, perché mi tentate? Attento all’ipocrisia che tenta di separare le questioni degli uomini dalle questioni di Dio. Mostratemi la moneta del tributo. Gesù si trova nel tempio e quella moneta non doveva proprio entrare nel santuario, tant’è vero che c‘erano i cambiavalute. Ma con facilità e disinvoltura la richiesta viene esaudita e appare un denaro, uscito dalle tasche di qualcuno. Vuol dire che i soldi appartengono alla sfera della vita; vuoi o non vuoi entrano nel tempio e interrogano anche la fede. Questo ci aiuta a capire che non possiamo far a meno di confrontarci con un’economia, pensando di escluderla dalle ragioni del vangelo. Dice Papa Francesco: L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata versione… nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano (EG 55). Oggi Giornata Missionaria, siamo interpellati anche a questo livello: portare il vangelo vuol dire portare anche attenzione sul versante economico. Vi esorto alla solidarietà disinteressata e ad un ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano (EG 58).

2.   Fatto salvo questo principio, Gesù ne annuncia un altro: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Non si tratta di pagare, ma di restituire. A Cesare innanzitutto. È l’immagine di ogni ordinamento pubblico con cui il cristiano si misura. Restituisci qualcosa a quella compagine sociale alla quale appartieni: non nasconderti, non defraudarla, perché fai del male a te stesso e fai del male agli altri. Non è solo una questione di tasse ma di senso dello Stato, della partecipazione alle vicende del Paese, di pretese e di doveri a cominciare, ad esempio, da come gestisco i rifiuti, visto che le borsette del secco vengono sistematicamente disseminate nel territorio. Ma restituire piuttosto che pagare a Cesare, vuol dire anche chiedere a Cesare che faccia la sua parte in termini di equità e di solidarietà, di servizi e di opportunità. Perché non si restituisce ciò che non si riceve. E a volte si patisce l'assenza dello Stato, specie nell'ambito dell'assistenza, del sostegno alla famiglia, del recupero della marginalità. E non solo lo Stato a volte è assente, ma rende complessa la presenza di chi cerca di porre rimedio ai disagi, senza prevedere sgravi e aumentando la burocrazia, come sta avvenendo nel terzo settore. 

3.   L’altra parte del binomio invita invece a riconoscere a Dio ciò che gli appartiene. Se il denaro recava l’effigie di Tiberio, si tratta di cercare la moneta che reca l’iscrizione di Dio. E quella moneta è l’uomo, creato a sua immagine. Allora il criterio ultimo che regola l’economia e anche i rapporti con Cesare è la restituzione di ogni uomo a quello che Dio ha in mente. Un uomo non saccheggiato della sua interiorità e non privato della sua dignità. Quello che è successo all’Università di Macerata e le spropositate reazioni a un’Ave Maria ci avvertono di come un ordinamento pubblico a volte, in nome della laicità, inneschi battaglie fuori luogo. Così il richiamo di Papa Francesco nei riguardi delle persone con disabilità, che non sempre hanno voce e che nello stato appartengono talvolta alla cultura dello scarto. Restituire a Dio vuol dire che costoro per lui sono moneta preziosa, da non perdere.

Occhio dunque alle trappole. Sono quelle che ci imprigionano nell'individualismo, nella logica di un personale tornaconto, ma sono anche quelle che ci impediscono di liberare l'umanità che Dio ha in mente. Rendere a Cesare e rendere a Dio. Per il bene comune, per il bene di ciascuno.

venerdì 13 ottobre 2017

Funerale Bruno Civiero


Bruno Civiero (13 ott. 2017)

Rom 8,31-35.37-39– Lc 12,54-59


«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade». Bruno si alzava presto al mattino, osservava il cielo ed emetteva il suo personale bollettino meteo: Na bea giornada. Daghe aria a camara. Vardè che piove oggi, toive a ombrea. Il tempo influisce sulla vita degli uomini, ne condiziona le giornate, gli appuntamenti, il lavoro, l’abbigliamento... Ma Gesù non si dà troppa pena per questo. È preoccupato piuttosto che i suoi discepoli, più che il tempo, sappiano scrutare i segni dei tempi, sappiano cogliere le cose importanti della vita: Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? E Bruno era così; pur attento al sole e alla pioggia, non si limitava alle vicende atmosferiche: sapeva abitare il tempo, osservare gli eventi, raccoglierne le conseguenze per sé e per gli altri. Quali tempi ha vissuto Bruno, quali segni vi ha intravisto?


1.    Innanzitutto il segno della responsabilità. Responsabilità è una parola che oggi non ci piace molto. Ci sa di costruzione, di impegno, di risposte da dare. E invece vorremmo essere svincolati, evasivi, liberi dalle pressioni altrui. La vita però ci viene consegnata in una trama di relazioni: qualcuno si è preso cura di noi e noi ci prendiamo cura di qualcun altro. Responsabilità è rispondere a un appello che l’altro ci rivolge, corrispondendo alla partita doppia della vita che è dare e avere. Hai ricevuto, prova a restituire qualcosa. Bruno viveva la responsabilità nel lavoro, nella sua presenza in famiglia, in una comunità cristiana dove per tanto tempo ha fatto parte del coro. Esserci, portare il proprio contributo. E Bruno lo faceva con prontezza, senza neppure il bisogno di chiederglielo e senza troppe parole, convinto e lieto di poter dare una mano. Non si faceva problemi neanche se c’erano i letti da fare e non badava a chi, reduce di passate idee di maschile e femminile, gli diceva: «Te gai messo a traversa?». La “traversa” del resto l’ha indossata anche Gesù, facendoci capire che quando ci dobbiamo essere, dobbiamo farlo davvero, vivendo il servizio fino in fondo. Ecco la responsabilità.

2.    Poi il segno della concordia e la gioia. Bruno teneva alla sua famiglia più di ogni altra cosa e ai suoi figli ripeteva: «Un boccon de par de manco, ma cerchè de ndar d’accordo». Una comunione che lui alimentava in vario modo: con il rispetto che esigeva e insegnava, con i silenzi e le parole. Nelle circostanze importanti, Bruno scriveva raccoglieva i suoi sentimenti in qualche riga: per i cinquant’anni di matrimonio con Anna, ad esempio, aveva detto che di figli lui non ne aveva avuti tre, ma sei, includendo tra essi anche genero e nuore. E poi i nipoti e nipotini, la sua gioia, fatta di gioco e di storie, come solo i nonni sanno fare. E quando poteva nascere qualche divergenza, lui in genere aspettava e interveniva successivamente, ragionando con calma con le persone interessate, stemperando i dissapori. La concordia è importante, ma essa non è uno slogan: ha bisogno di pazienza, di lungimiranza, di fiducia. In paradiso entra solo la comunione e quando la alimentiamo sulla terra la troveremo anche in cielo.


3.    Infine il segno della prova. Sono gli ultimi giorni della vita di Bruno. Sul letto della terapia intensiva ha vissuto momenti di grande fatica. Aveva sete ma non gli si poteva dare che qualche sorso d’acqua. E ciò nonostante ha avuto la forza di osservare: A me va meio del Signore. A lu i ghe ga dato azeo! Bruno aveva compreso che stava arrivando l’incontro definitivo e l’ha vissuto con fede, rimanendo all’ombra della croce, accanto a quel Gesù che ogni domenica gli dava appuntamento in questa chiesa. Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? La tribolazione, la malattia, un letto di ospedale? Noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Bruno lo sapeva e nelle mani di Gesù ha messo la sua vita, con la fiducia che in quelle mani non si sarebbe perso. Perché se noi del tempo viviamo qualche attimo, Gesù dei tempi è la pienezza e quando qualcuno gli appartiene nulla va perduto. E mentre Bruno se ne stava andando, ha regalato l’ultima carezza a sua moglie, come per dire: nessuno ci sottrae ciò che di bello abbiamo vissuto e a ciò che di bello ci viene preparato, la morte non ci separa. Alle mani di Gesù, allora, affidiamo questo fratello: per lui chiediamo misericordia, per noi chiediamo il dono della fede e della speranza, per noi chiediamo di scrutare i tempi secondo le dimensioni dell'eterno.






domenica 8 ottobre 2017

Omelia 8 ottobre 2017


Ventisettesima domenica del T. O.

Una vigna che sale sul dorso di un colle… le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti la terra rossa è dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. Sono le parole di un racconto di Cesare Pavese in cui l’autore descrive una vigna, un ambiente carico di ricordi ma anche varco verso l'infinito dove la nostalgia fa posto alla speranza. 
La vigna racconta le storie degli uomini e racconta anche le storie di Dio con loro. Storie piene di fascino e di attesa, funestate talora da violenze e soprusi, ma aperte anche alla sorpresa e alla ritrovata speranza.  
Raggiungiamo ancora una volta la vigna di Dio e vediamo che cosa in essa si nasconde.

1.   C’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. È Dio quest’uomo appassionato che affida nuova vita alla terra. Non fagioli, ma una pianta che resiste nel tempo, piena di energia e di promessa. Una pianta ben curata: La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. Quanta premura! La vigna è tutto ciò che di bello Dio ha piantato sulla terra, nei nostri cuori, nella nostra comunità. Vigna è il mondo che cresce secondo i suoi progetti. A Godego ultimamente c'è molto interesse a piantare prosecco... ma se ci mettessimo a piantare la vite di Dio, i suoi progetti, il suo modo di vedere le cose? Nell’ambito di un’azienda, ad esempio, come vede le cose Dio? La Giornata per le vittime degli incidenti nel lavoro e l’assemblea AMNIL che oggi ospitiamo in parrocchia sono un invito a ripensare anche le nostre aziende nella logica della sicurezza, della dignità del lavoro, della convergenza di intenti perché le situazioni rischiose vengano rimosse. I morti in Italia quest’anno sono 682, cifra che non ci lascia tranquilli. Ma è bello sapere che vi sono aziende virtuose, anche nel nostro territorio, che a motivo di un’efficace collaborazione tra direzione e lavoratori hanno avuto l’audacia di cambiare precise condizioni di lavoro e talora costosi macchinari. Aziende che non hanno fatto prevalere il profitto sulla sicurezza, ma nella sicurezza hanno visto un profitto. Non cessare di sognare come fa Dio un mondo abitato dal bene. Questa è la vite.

2.   Ma in quella piantagione ad un certo punto serpeggia un infestante più pericoloso della peronospora: la diffidenza, l’invidia, la bramosia, la voglia di prendere le distanze da Dio e di gestire in proprio la vigna. I servi del padrone vengono percossi e il figlio viene messo a morte. Gesù sta parlando dei profeti inviati ad Israele e sta parlando di se stesso, il figlio ucciso per eliminare ogni possibile pretesa divina. A volte anche noi corriamo questo rischio: quello di mettere al bando Gesù, di volerlo eliminare, specie se c’è d’impiccio rispetto ai nostri progetti. Pensate alla polemica sul papa a pranzo con i poveri a S. Petronio. Secondo qualcuno s’è trattato di una chiesa profanata, come se la chiesa fosse estranea alle scelte del papa! «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». Attento a non uccidere il Signore per difendere la religione. Il vangelo qualche volta sovverte i nostri criteri e riapre in maniera nuova anche le porte della chiesa.

3.   E infine in quella vigna c’è ancora futuro. Di fronte ai vignaioli omicidi gli ascoltatori di Gesù suggeriscono vendetta e morte. Ma Gesù non avvalla tale ipotesi. Parla piuttosto di un altro popolo che continui a credere nella vigna, ad investire su di essa e a coltivarla con cura finché produca dei frutti. Prova a vedere se sei di questo popolo nuovo. Vanno bene le giornate commemorative, ma più importante sarà l’energia che metti ogni giorno, magari anche infastidendo qualcuno che rimane prigioniero di vecchie catene, perché la vigna continui ad essere il sogno di Dio e porti i frutti sperati. Anche in un ambiente di lavoro, anche in questa nostra società.

mercoledì 4 ottobre 2017

Omelia 1 ottobre 2017


Ventiseiesima domenica del Tempo Ordinario

Non vi è mai capitato di aprire un vino blasonato e scoprire tristemente che sa di tappo? Tante promesse, magari anche una spesa considerevole. E poi la tristezza di un prodotto che devi buttare. Viceversa una bottiglia poco interessante può riservare grandi sorprese!

È la storia anche di quei due figli di cui ci parla il vangelo di oggi. Sembra una storia presa da casa nostra: un ragazzo apparentemente obbediente che poi si defila e uno ribelle che poi si pente. Chi dei due ha fatto la volontà del Padre? Chi dei due è il vino buono? State attenti dice Gesù alle etichette che mettete addosso agli altri e state attenti anche a voi stessi, perché a volte sotto un’immagine apparentemente pulita e brillante, si nasconde qualche torbido, qualche pozza stagnante. Ecco allora l’invito di Gesù. Conversione. Rimetti in  gioco la vita sulle strade della verità e sulle strade del vangelo.

Come si percorrono queste strade?

1.   Occhio ai no che dici. «Figlio, oggi va a lavorare nella vigna». «Non ne ho voglia». Anche noi siamo spesso così, regolati dalle nostre voglie, dall’immediatezza del desiderio e delle emozioni. Mi piace, non mi piace; mi diverte, non mi diverte. Ma le cose belle della vita non sono solo il divertimento, ma anche l’impegno che metti in ciò che fai, nella tua capacità di coinvolgi-mento, di partecipazione. Avete sentito la storia di Elisa, quella mamma di Lovadina morta dei giorni scorsi? Prima di andarsene ha impacchettato diciotto regali da consegnare alla sua bambina ad ogni compleanno, fino al diciottesimo anno d’età. Questa mamma non ha detto “non ho voglia”, anche quando avrebbe avuto tutte le ragioni per dirlo. Ha deciso di esserci fino alla fine e anche oltre la sua stessa fine. Non ti sottrarre ai tuoi compiti, a ciò che di bello puoi regalare al mondo.

2.   Smetti di recitare la commedia. È il secondo figlio, apparentemente ubbidiente e ossequioso, ma poi estraneo alla volontà del padre. «Si, signore». Ma non andò. Quanti sono i che si trasformano in teatro e poi diventano no? Non solo quelli dei ragazzi, ma anche quelli detti in chiesa, nel matrimonio, nel battesimo dei figli, nelle scelte di consacrazione, in un impegno nella comunità. Sono anche quelli che appartengono a convinte professioni di fede, senza riconoscere le spaventose incoerenze che si creano. Pensate allo scandalo di quei docenti universitari che dietro a una facciata di ineccepibile professionalità erano dei corrotti che si spartivano le cattedre a seconda dei loro interessi e tagliando fuori chi non entrava nel loro giro. Erano insegnanti di diritto tributario. Ma di quale giurisprudenza erano discepoli? Attenzione, perché il vangelo non ci chiede ragione solo della messa domenicale: interroga l’economia, i diritti umani, la solidarietà, la passione per la pace e la giustizia. Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede. È meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo (Ignazio di Antiochia).

3.   Però Gesù conclude con un altro monito. Si può cambiare rotta. Mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo rimangono fermi nella convinzione di essere i migliori, i pubblicani e le prostitute hanno cambiato vita. I nostri no più risoluti e i nostri sì ipocriti possono trasformarsi. Avete sentito di quel quarantenne che sabato scorso a Bergamo aveva tirato sotto una ragazza? Era fuggito, pensando di salvarsi, di farla franca. Nessuna testimonianza contro di lui, eccetto quella della sua coscienza, che l’ha portato dai carabinieri a confessare l’accaduto e ad assumersene la responsabilità. La grandezza di un uomo non sta nella capacità di non sbagliare mai, ma nella possibilità di cambiare rotta. E se la rotta su cui ritorni è quella del vangelo, la vita forse è anche più bella. Perché non trovi più un padrone da cui fuggire e perché non hai più bisogno di fingere.




sabato 30 settembre 2017

Omelia 24 settembre 2017


Venticinquesima domenica del Tempo ordinario

C’è un’espressione che ha segnato profondamente il pensiero teologico: Dio è il totalmente altro. A volte può diventare pericolosa e stabilire una distanza inopportuna tra l’uomo e Dio, una distanza che Dio stesso ha superato. Ma in alcuni casi può essere d’aiuto, specie se riguarda i pensieri di Dio, il suo modo di fare, quello che lui ha in mente: Dio non sta nei nostri contenitori, nelle nostre schematizzazioni e neppure, come abbiamo sentito nel vangelo, nelle nostre rivendicazioni sindacali. I contratti di Dio sono stabiliti solo in base al suo amore, imprevedibile e a volte sconcertante. Vediamo dunque come agisce il Totalmente altro.

1.   Anzitutto lui coltiva una vite. Un albero che ha bisogno di cura, di attenzione, di coinvolgimento. Un albero che racconta una storia importante. La vigna non è una pianta di pomodori. Che cosa stai coltivando? A volte invece di far crescere la vigna ci attraggono altre coltivazioni meno impegnative, come nella storia di quella ragazza universitaria di Pordenone che ha vinto il ricorso contro suo padre che gli aveva ridotto i soldi del mantenimento perché non studiava e perdeva tempo in divertimenti. La Corte d’Appello ha dato ragione alla ragazza perché non può mantenersi da sola. Guarda che la vita è fatta di partecipazione, di impegno. Tira fuori l’energia, la tua disponibilità. Coltiva la vigna non le zucche.

2.   Poi Dio esce e chiama a tutte le ore, dall’alba alle cinque del pomeriggio. Nella sua azienda assume personale di continuo: c’è sempre posto e non è mai troppo tardi per coinvolgerti nei progetti di Dio. Non si tratta solo dell’impegno che puoi assumere in parrocchia, ma anche della decisione che sempre puoi mettere di giocarti un po’ di più nella direzione del vangelo. Prova ad andare nella vigna di casa tua, nella tua famiglia ti stanno aspettando. Prova a coinvolgerti in un progetto di solidarietà. Prova a credere nelle tue possibilità di riscatto. Qualche mese fa il Corriere pubblicava la storia di alcuni baby camorristi assunti dalla Whirpool in un progetto di inserimento professionale che ha salvato un centinaio di ragazzi dalla criminalità. Non è mai troppo tardi per trovare la parte migliore di te, quella che non emerge se rimani tutto il giorno ozioso.

3.   Infine la questione più scottante: quella della paga. Il Dio totalmente altro non paga in base all’orario lavorativo ma in base al suo amore. E se ci dà fastidio questo suo modo di fare, se ci sembra ingiusto, vuol dire che non abbiamo capito che la paga vera non è tanto al termine del rapporto lavorativo, quanto nel fatto di lavorare. Se noi lavoriamo per la paga il lavoro diventa pesante, ci aliena. Se il lavoro è qualcosa di bello la prospettiva cambia: ho avuto non l’onere ma la fortuna di iniziare prima. Perché è vero che nella vigna a volte si suda, ma in quella coltivazione c’è anche qualcosa di appassionante, di straordinariamente fecondo. Se capita, come ho sentito ieri al mercato, che siccome hai preso tante messe da piccolo ora non ne vuoi prendere neanche una, vuol dire che quelle messe erano solo pesantezza. Se il catechismo per tuo figlio ti sembra qualcosa di fastidioso, un impegno in più, piuttosto che trasmettere questi sentimenti, tienilo a casa. E se assumi un servizio in parrocchia fallo con gioia, perché il dramma peggiore che incontra il cristianesimo è la tristezza, vivere come prigionieri quello che è un cammino di libertà. Prova a vedere se ti sei perso qualcosa per strada, magari la fiducia di Gesù che conta proprio su di te.

lunedì 18 settembre 2017

Omelia 17 settembre 2017


Ventiquattresima domenica del T. O.

Se ricordate, in Egitto, nello scorso mese di aprile, c’è stato un sanguinoso attacco ad alcune chiese cristiane in cui persero la vita numerosi fedeli riuniti per la celebrazione della Domenica delle Palme. La moglie cristiana di un agente di guardia, qualche tempo fa è intervenuta con gli assassini di suo marito, dicendo loro: "Vi perdono e chiedo a Dio di perdonarvi. Prego che Dio possa aprirvi gli occhi e illuminare le vostre menti". Un gesto talmente grande che ci disorienta e che ci pone di fronte alla domanda che Pietro rivolge a Gesù nel vangelo: Quante volte dovrò perdonare? Fino a dove possiamo spingerci, fino a quando è ragionevole tale atteggiamento? Quando qualcuno ci ferisce, quando qualcuno usurpa ciò che ci appartiene, quando qualcuno ci tradisce. Ebbene, Gesù vuole farci capire che la sua proposta non è ragionevole: è dirompente. Spacca schemi, consuetudini, umana contabilità. Dio non ci mette in mano la calcolatrice ma il suo amore sconsiderato. Vediamo allora quali sono le strade del perdono. Vi propongo tre passaggi: ricorda, molla, prova.

1.   Ricorda. Il perdono nasce dalla capacità di ricordare. Ricorda il vangelo: guarda che il cristianesimo non è fatto delle tue misure ma di quelle di Gesù. Ricorda quante volte sei stato perdonato, ricorda i diecimila talenti che appartengono al condono che ti è stato fatto: non è abbastanza? Noi teniamo registri contabili aggiornatissimi per quanto riguarda i debiti altrui, per quanto riguarda i nostri ci dimentichiamo di segnare. Ma c’è un’altra realtà da ricordare. Ce l’ha suggerita il Siracide, questo saggio dell’AT che forse si è trovato più volte a creare pace tra i figli di Israele. Ad un certo punto dice: Ricordati della fine e smetti di odiare. Cosa vuoi portare di là: le tue ragioni o il tuo amore? Cosa lasci in eredità ai tuoi figli: il rancore da custodire da una generazione all’altra o la fraternità e la concordia?

2.   Molla. Il servo cui è stato condonato il debito enorme va dal suo collega che gli doveva pochi soldi e non si limita a chiedere la restituzione: lo prese per il collo e lo soffocava. A volte siamo così: prendiamo gli altri per il collo e li soffochiamo. Con le nostre pretese, le cattiverie, le chiacchiere, le azioni legali. Molla la presa. Vi siete separati perché non andavate più d’accordo, perché dovete continuare a farvi del male, a insultarvi, a usare i figli come arma? Molla la presa. E le considerazioni che fai sull’odioso parente o vicino di casa? Guarda che forse non stanno soffocando solo lui, ma anche te e i tuoi figli che ti ascoltano. Molla la presa. Proviamo a vedere se si può curare anche la comunicazione. A volte i problemi nascono perché diciamo parole inadeguate, mal dette o mal comprese. Qualcuno, come se manifestasse un merito afferma: Quello che ho in cuore, io ce l’ho anche in bocca. Non sarebbe augurabile che ce l’avessi anche in testa, che passasse attraverso la verifica dell’intelligenza? Anche le parole soffocano e occorre imparare a dosarle, a selezionarle, a dirle quando è il caso e con chi è il caso.

3.    Infine prova. Era quello che diceva papa Francesco in Colombia paese in cui c’è un estremo bisogno di riconciliazione. Bisogna che alcuni abbiano il coraggio di fare il primo passo in questa direzione, senza aspettare che lo facciano gli altri. Basta una persona buona perché ci sia speranza! E ognuno di noi può essere questa persona! Ognuno di noi. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo fratello? Prova ad attivare percorsi di recupero. Quali? Prova a distendere i muscoli facciali: fai un po’ di ginnastica allo specchio o comprati la crema skinrelax che fa miracoli… Sorridi e saluta invece di girarti altrove. Prova a essere fedele a una parola data senza cambiare le carte in tavola. Prova a perdere qualcosa invece di perdere gli affetti. E se tutto questo non riesce prova anche …a pregare: forse il perdono inizia chiedendone la forza e l’efficacia.

Quante volte? Sempre, tanto da assomigliare a Dio. Perché il perdono non serve agli altri, serve a noi, per essere figli di quel Padre dei cieli che così vuol essere riconosciuto anche in ciascuno di noi.

Omelia funerale Lina Mazzarolo


Lina Stocco ved. Mazzarolo (1 ago. 2017)

Rm 8,31-35.37-39 – Gv 14,1-6

Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. La vita di Lina è quella di una donna forte, che ha tenuto saldamente in mano il timone della vita e non ha mai cessato di credere e di fidarsi di Dio, anche quando gli eventi della vita avrebbero portato a ben altre conclusioni. La sua esistenza potrebbe essere raccolta in tre sequenze, cariche di messaggi che forse oggi ci è chiesto di custodire.

1.    Lina è una ragazza di Godego, nata e cresciuta in questo paese mentre tanti cercavano fortuna all’estero. E dall’altra parte del mondo, in Australia, Camillo Daminato un giorno dice ad Alfonso Mazzarolo: «Fonso, gavaria na tosa da farte conossare». Camillo dovette essere convincente perché Alfonso rientra in Italia e va a trattare con Pietro e la Olga, genitori di Lina che nel frattempo è al lavoro in pastificio. Ma, curiosa come tutte le donne, arriva a casa e spia dal balcone della stalla quello che sta succedendo: «Chi saraeo chel bel toso?». Dieci mesi dopo, nel 1966, il bel toso diviene suo marito e in viaggio di nozze dove vanno? In Australia! Non doveva essere un hotel a cinque stelle perché Lina ogni tanto ripeteva: «Fonso, ma dove me gheto portà?». Abitavano a Griffith, inizialmente in una baracca e coltivavano frutta e verdura. Un po’ alla volta però l’attività cresceva e le condizioni miglioravano e in casa di Lina e Alfonso arrivarono anche i tre figli , Sandra, Renato e Fabio. La vita cominciava ad andare per il verso giusto. La vicenda di Lina, come quella di tanti Godigesi, è anzitutto quella di un migrante, di chi si è messo in viaggio per cercare sicurezza, per dare dignità alla vita. Una pagina che ci insegna ad essere grati a chi ha lasciato questo nostro paese e ne ha permesso lo sviluppo con quello che mandava a casa e che ci insegna ad essere attenti e rispettosi anche nei confronti di chi oggi vive vicende analoghe.

2.    Ma ad un certo punto l’imprevisto e la tragedia. 6 settembre 1975. Mentre la famiglia da Griffith va a Sydney per raggiungere l’Italia, con la felicità di far conoscere i nipoti, Alfonso è colto da un malore e pochi istanti dopo muore in ospedale. Noi possiamo solo immaginare cosa può essere passato nella mente di Lina in quegli istanti. I figli maggiori ricordano che lei aveva Fabio in braccio e continuava a ripetere: «Preghè, preghè». Arrivò poco dopo il nonno Pietro e li aiutò a rientrare tutti in Italia. Un ritorno in risalita, dove si trattava di far crescere i ragazzi e di mandare avanti la famiglia. «Go fatto da femena e go fatto da omo», parole che Lina ogni tanto ripeteva, ricordando i sacrifici di quegli anni. Due erano le risorse che possedeva: una grande forza d’animo e la fede. E forse la prima era dovuta alla seconda, perché Lina diceva spesso: «Se no gavesse avuo a fede no so che gavaria fatto». Fede che si trasformava in preghiera, rosario, messa alla Crocetta, candele accese continua-mente. E senza smarrire la serenità e neanche la capacità di pensare agli altri, magari un po’ di assistenza in ospedale e i gesti segreti della carità. La fede non ci risparmia dalle prove della vita, ma ci aiuta ad affrontarle con coraggio, sapendo che non siamo soli e che qualcuno si prende cura di noi. Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la nudità, la fame, il pericolo, la spada? Vita eterna è credere che Dio è più grande di tutto quello che può capitare, di tutto quello che sembra smentire la sua presenza e la sua fedeltà.

3.    La terza sequenza di Lina è legata agli ultimi anni della sua vita, quando malattia e infermità l’hanno segnata pesantemente: la mente non era più quella di un tempo e un ictus modificava per sempre la sua autonomia. Però, un paio d’anni fa, il giorno prima che la situazione precipitasse, aveva avuto un giorno stranamente diverso. Dopo anni che non si muoveva ed era piuttosto sospettosa, era andata nell’orto a fare qualche lavoretto, aveva parlato amabilmente con i suoi famigliari e aveva regalato loro l’ultimo suo sorriso. La malattia a volte ci trasforma, ci rende irriconoscibili. Ma forse Lina voleva dirci: non perdete la verità delle persone, il loro sorriso. E fatene tesoro buono, anche per i giorni in cui verrà meno. Perché ci ricordiamo di chi siamo, anche quando gli eventi sembrano confonderci. Forse oggi Lina torna a sorridere: la immaginiamo così, mentre entra in paradiso. Ancora ci guarda e dice quella frase che le stava a cuore e che spesso ripeteva: «Vao trovare Fonso».  

Omelia 20 agosto 2016


Domenica ventesima del T. O.

A volte la nostra fede è come l'autobus, fermate e salite e discese in un viaggio già fissato. Crediamo di essere garantiti da un sistema, da un ambiente nel quale siamo nati e cresciuti e non ci rendiamo conto che vi è qualcosa da riprendere. Ricordate? Domenica scorsa Gesù rimproverava Pietro, il suo uomo di fiducia, dicendogli: «Uomo di poca fede». Oggi invece incontra una donna straniera, una donna “fuori sistema” alla quale dice: «Davvero grande è la tua fede». Eppure anche lo stesso Gesù oggi sembra fare un passaggio nelle sue valutazioni, spiazzato da una donna che gli impone di affermare nuovi diritti di cittadinanza di fronte a Dio. Qui, riconosce Gesù, ci sono le misure della fede autentica. Che cosa ci suggerisce questa donna?

1.    Inizialmente la donna grida. E grida non per questioni religiose, ma perché sua figlia sta male. La fede nasce da un grido autentico per qualcosa che ti sta a cuore ed è più importante della tua stessa vita. Diversa è la percezione dei discepoli: quella donna è un fastidio e implorano l’intervento di Gesù per togliersela dai piedi o forse perché mal sopportavano che il loro maestro, così famoso per i  suoi miracoli non ne facesse un altro che avrebbe confermato la sua popolarità. Cosa ti costa? A volte siamo anche noi così. Vorremmo il miracolo a prescindere dal nostro rapporto con il Signore. Il Signore invece va oltre e resiste alla nostre pressioni non perché l’intervento sia impossibile, ma perché la tua fede gli sta a cuore. Non solo le magie, ma il rapporto con lui, la voglia di giocarti, di dichiararti e, se occorre, di cambiare vita. A volte il miracolo è proprio questo: non se risolvi o meno un problema, ma se la tua vita cambia. In questi giorni ho incontrato una donna che lavora in una famiglia di Godego. Mi ha chiesto di ricevere il battesimo. Mi ha raccontato di essere andata in ospedale al Policlinico Gemelli di Roma, quando era in attesa del suo bambino. Una gravidanza a rischio. E il medico le ha detto: “Quello che clinicamente si poteva fare l’abbiamo fatto. Ma c’è un’altra cosa che voglio fare: dire una preghiera per lei e per suo figlio”. E la donna ha visto il medico uscire dall’ambulatorio ed entrare nella cappella dell’ospedale. In quel momento, diceva, era come se Dio fosse entrato nella mia vita. Verità non finzione. Accoglienza, non fastidio.

2.    La donna fa saltare i confini delle convenzioni. Gesù, incurante della donna che grida, dice: «Non sono stato mandato che per le pecore perdute della casa di Israele». Israele era il popolo dei figli, gli altri i pagani erano ritenuti cani. E Gesù dice proprio così: «Non bisogna prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». E qui la donna supera Gesù a destra: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Gesù è spiazzato. In realtà è proprio qui che voleva arrivare e si è giocato la faccia per far capire che lui è venuto proprio per questo! In Dio non esistono uomini e cani: ci sono solo dei figli che egli vuole raggiungere ed abbracciare. I bambini, gli uomini e le donne che siano italiani o stranieri, vicini o lontani, cristiani o meno, possono attingere tutti al cuore di Dio. Dio sogna un’umanità di figli, in qualsiasi latitudine. Lo devono capire i cristiani e lo devono capire anche gli altri che qualche volta in nome di un improbabile Dio seminano terrore, come è avvenuto a Barcellona nelle scorse ore. Fede è verità sul mistero di Dio.

3.    Infine Gesù dice alla donna: «Avvenga per te come desideri». La fede è fatta anche di desiderio. Ma che cosa desideri? Impara a portare nel mondo i desideri di Dio, investi nel suo modo di vedere le cose. Pensate non solo alle stragi di Barcellona, ma anche a quello che è successo nelle discoteche in questi giorni. Due brutali aggressioni, una delle quali mortali, dove la gente rimane a guardare, non solo disorientata dall’accaduto, ma anche stordita nella propria indifferenza perché lo spettacolo deve continuare. Anche questa è barbarie che contraddistingue non i terroristi o gli autori del gesto violento e mortale, ma anche una logica di divertimento che supera ogni livello di accettabilità. Per i gestori dei locali e molto spesso anche per i frequentatori. Ti sia fatto come desideri. Ma cosa desideri? Per te, per gli altri? La donna cananea ci dà appuntamento su altre strade. Di verità, di vita, di fraternità.

Omelia 23 luglio 2017


Sedicesima domenica del T. O.

Nonostante da anni ormai i giornali ci presentino le storie dei furbetti del cartellino e i provvedimenti nei loro confronti, sembra che questa specie sia lontana dall’estinzione e si ripresenti continuamente con nuove e sorprendenti esibizioni. Così in questi giorni c’è stato il processo di un tale, insegnante di diritto di ruolo in Lombardia, che ha accumulato ben ottocento giorni di assenza a motivo di una fastidiosa lombosciatalgia che gli impediva di salire in cattedra, ma non di fare l’avvocato in Calabria. Ci si chiede quale diritto insegnasse ai suoi studenti e, a questo punto, forse è meglio che non l’abbia insegnato. Ecco, quando capitano storie di questo tipo siamo disorientati e ci pare che la battaglia del bene, dell’onestà, della legalità sia controproducente.

Una sensazione simile devono averla avuta anche i discepoli di Gesù, dal momento che racconta loro la parabola dove una fastidiosa erbaccia sembra compromettere la crescita del buon grano. Qual è il messaggio che ne deriva?

1.    Mentre Gesù invita i suoi discepoli a riconoscere la presenza di una semina buona, non chiude gli occhi sul pericolo, sulla diffusione di un’infestante che sembra compromettere il raccolto. La presenza è attribuita a un nemico che persegue lucidamente un progetto oscuro: venne, seminò, se ne andò… I discepoli fanno i conti con i figli delle tenebre che agiscono astutamente e di nascosto, che cercano di contrastare l’energia del bene per perse-guire interessi, per ottenere vantaggi: poco importa se altri ne dovranno rimettere. Non puoi andare al funerale di un parente perché non ti puoi assentare dal posto di lavoro senza dare il preavviso di sette giorni: il contratto parla chiaro. Certo, devi sapere per tempo quando l’altro morirà! La produzione viene prima della pietà. Ma notate anche quel termine zizzania. In greco è al plurale: zizzanie. Per dire che sono tante, mutanti, capaci di confonderti, C'è la zizzania del pettegolezzo che cresce da una voce all’altra, c’è quella del sospetto che ama la penombra, c’è quella dell’egoismo che prosciuga il terreno. Rendersi conto di quello che succede. I discepoli di Gesù sono uomini e donne di speranza ma non sono degli ingenui.

2.    Ma c’è un altro invito che il Signore ci fa: alla pazienza. La zizzania dà fastidio e si vorrebbe toglierla velocemente dal campo: Vuoi che andiamo a raccoglierla? Ma qui si nasconde un’insidia. E quello che non ha distrutto il male lo potresti distruggere tu. Il male ti rende complice della sua azione; senza che te ne accorga ti contagia. Quando pretendi di dividere il mondo in buoni e cattivi, quando vediamo la zizzania fuori di noi e non quella che si annida nel nostro cuore, quando per fare le nostre presunte pulizie rischiamo di eliminare anche chi non ha responsabilità. Pensate ai pregiudizi. Uno straniero è un criminale e tutti gli immigrati diventano tali. Pensa a qualcuno che ti fa uno sgarbo e alla velocità delle ritorsioni. Cos’hai risolto? Quando recupererai quel rapporto? Gesù invita alla cautela: Che non succeda che raccogliendo la zizzania strappiate anche il grano buono! A volte il grano buono è quello della concordia, della riconciliazione, della possibilità di parlarsi ancora. Lasciare che il buon grano cresca insieme alla zizzania vuol dire operare un giudizio migliore, vuol dire comprendere le proprie responsabilità e non solo quelle dell’altro, vuol dire che si può imparare anche dalle fatiche: lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, non alla nostra presunzione.

3.    Mi pare che poi la parabola ci conduca a guardare al bene con inguaribile fiducia e a farsi suoi alleati. Invece di metterti a contrastare il male, coltiva germogli di bene, di novità, di cambiamento. Un germoglio lo abbiamo visto ieri sera, alla festa dei popoli dove ho avuto la sensazione che ci fosse anche finalmente un popolo godigese e una cultura dell’ospitalità che forse non è andata perduta. Alla fine nel suo granaio Dio raccoglierà questo bene e non le nostre lamentele o le requisitorie sul male. Prova a vedere se ci sono germogli di novità da alimentare.