domenica 27 maggio 2012

Omelia 27 maggio 2012

Pentecoste 2012

Ricordate, Auschwitz  la celebre canzone di Guccini? Il cantautore evoca la terribile esperienza di un bambino morto nel campo di sterminio, passato per il camino, morto con altri cento. E conclude dicendo: e adesso sono nel vento. Una vicenda analoga appartiene a Gesù: anche lui è passato per il camino della morte, nell’ora drammatica della croce. Ma tale esperienza non è riuscita a imprigionarlo e a sconfiggerlo. E adesso anch’egli è nel vento, immagine leggera e dinamica con la quale la chiesa degli inizi ha riconosciuto la nuova presenza del Signore. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. È un modo con cui si parla dello Spirito, dono nel quale Gesù nasconde e trasmette la sua presenza risorta. Adesso sono nel vento significa: adesso cercatemi nel dono dello Spirito mediante il quale rimarrò con voi per sempre, tutti i giorni fino alla fine del mondo. Nel Battesimo e nella Cresima abbiamo ricevuto questo dono che regala nuova ventilazione all’esistenza. Ma è un dono da liberare, perché se lo imprigioni la sua azione è mortificata, come il vento cessa di essere tale se lo chiudi in una stanza. Camminate secondo lo Spirito, ha affermate Paolo. Camminate, lasciatevi condurre dal suo soffi. Che significa? Come agisce lo Spirito nella nostra vita?

1.    Anzitutto lo Spirito è ricerca della verità. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, assicura Gesù, vi guiderà a tutta la verità. La verità della vita è Gesù, il suo vangelo. Ma è verità da cercare tutta, oltre a quello che io percepisco e indico. Quelle migliaia di ragazzi ai funerali della loro coetanea Melissa, brutalmente assassinata non sappiamo neppure da chi, che cosa cercavano oltre quella coltre di morte che appariva di fronte a loro? Cercavano verità, ma non solo quella legata all’identità di una mano folle e criminale. La verità dell’esistenza, di ciò che passa e di ciò che resta, di ciò che ci tiene in piedi nei terremoti geologici e in quelli esistenziali, di ciò che ci attende oltre ogni oltre. Che cosa stiamo indicando a questa generazione? Essa appare vittima ignara del nostro vuoto, della vendita truffaldina di illusioni barattate come libertà. E ai funerali di una coetanea affida il proprio smarrimento a un peluche. Il papa, intervenendo giovedì scorso con i vescovi italiani riuniti in assemblea ha detto: Il nostro «primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e ultimo». Affidabile, necessario, ultimo. Ecco la verità alla quale ci guida lo Spirito. Verità da cercare insieme, tra generazioni, perché all’economia della fede non capiti quello che sta avvenendo nell’economia reale e chi viene non si accolli le conseguenze delle spregiudicate operazioni altrui.

2.    Lo Spirito non si lascia imprigionare. È vento, ricordate, e quando lo chiudi in ambienti troppo angusti, cessa di soffiare e lascia il posto a un’atmosfera stantia. Gli ambienti stretti ce li ha ricordati Paolo; sono le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Quando sei qui dentro la tua vita ne esce appiattita. Da’ respiro! Lascia che soffi lo Spirito! Pensate all’invidia e alla gelosia. Si tratta di due potenti emozioni che nascono dalla rivalità nei confronti di qualcuno percepito come un fastidio perché ha qualcosa più di noi (invidia) o ci toglie qualcosa come la stima o l’affetto (gelosia). Non è solo il caso di un figlio nei confronti del fratello in relazione all’affetto dei genitori. Oggi capita esattamente il contrario: un genitore geloso dell’altro perché il figlio indirizza il proprio affetto prevalentemente in tale direzione. E questo può portare o chiusura e delusione, o rabbia e incriminazione. Se ci si mette anche una separazione coniugale il quadro peggiora. Lascia agire lo Spirito, lascia che il suo vento buono ridefinisca i rapporti: interroga il tuo modo di fare, i gesti e le parole; mettiti con verità di fronte alle tue attese e ai tuoi bisogni; verifica la tua disponibilità al cambiamento e se occorre a chiedere perdono. E allora lo Spirito fa nascere quei frutti che danno sapore all’esistenza: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza... Non lasciarti imprigionare.

3.    Ultima cosa lo Spirito è testimonianza aperta e coraggiosa. Gli apostoli se ne stavano chiusi e ad un certo punto escono e annunciano la risurrezione del Signore e tutti intendono tale evento nella propria lingua. Il vento dello Spirito funziona se ci riconosciamo con un po’ di audacia in più nella trasmissione della fede e nel coraggio di parlare in nome del vangelo. Non ti chiudere e non ti scoraggiare. In questi giorni al festival biblico di Vicenza c’è la testimonianza di Sr. Helen, la religiosa statunitense che da trent’anni accompagna i condannati a morte e che nel frattempo si batte con determinazione contro tale pena, tanto che negli ultimi cinque anni, cinque stati americani l’hanno abolita e altri quattro lo stanno facendo. Il vangelo al soffio dello Spirito cambia il mondo.

Ecco la Pentecoste. Gesù risorto oggi lo dice anche a noi. Adesso sono nel vento. Lascia che questa brezza ridesti la tua vita e lascia che ti conduca. Forse ci sarà qualche fuori programma, ma forse anche qualche motivo per vivere e per continuare a farlo con gioia.

sabato 19 maggio 2012

Omelia 20 maggio 2012

Ascensione del Signore

Pablo Neruda poeta cileno è una delle figure più importanti della letteratura latino-americana contemporanea. Negli anni cinquanta una sua poesia sembra ricordare il destino dell’uomo: Para subìr al cielo. Per salire al cielo. E il primo verso il poeta lo scrive in maniera ascensionale, dal basso verso l’alto. Che serve per salire al cielo, si chiede Neruda? E pazientemente indica il suo equipaggiamento: due ali, un violino, anzitutto. Ma poi il poeta sembra cercare una sorta di documento di viaggio che descrive così. Per salire al cielo servono
certificati di occhio lungo e lento,
iscrizioni sulle unghie del mandorlo,
titoli dell'erba nel mattino.
A quel destino di eternità fatto di cielo che Gesù ci ha dischiuso si giunge con lo stesso passaporto.

1.    Certificati di occhio lungo e lento. Gli occhi dell’ascensione sono proprio questi. Sono occhi orientati verso la terra, come gli angeli sembrano suggerire, ma occhi che non dimenticano quello che hanno visto e che a quella destinazione pazientemente sanno orientare il destino umano. Lascia brillare nei tuoi occhi il certificato dell’eterno. Mentre ci stiamo preparando al grande incontro delle famiglie che ci sarà a Milano dedicato al lavoro e alla festa, non possiamo non avvertire l’esigenza di uno sguardo lungo. L’economista e filosofo danese Amartya Sen, una delle figure maggiormente consultate in questo tempo di crisi, non ha risparmiato la critica nei confronti di Spagna, Grecia e Italia: «Voi – ha affermato-  avete inventato la democrazia e ora state abdicando a essa sotto la dittatura di finanza, mercati e spread». Democrazia è governare attraverso la discussione - ha aggiunto - e quindi non è soltanto il governo delle maggioranze, né delle quote di Pil come accade nelle società di capitali. Vi sono altri capitali da difendere, tra cui il capitale familiare. Custodire questa risorsa vuol dire prendersi cura dei più deboli, dare coesione al Paese, promuovere il senso della solidarietà e dell’impegno per gli altri. Ecco lo sguardo lungo e lento di Neruda. Ma non è solo del poeta: è lo sguardo del cristiano che intravede il ritorno del suo Signore, in quei segni che già ne anticipano la presenza.

2.    Iscrizioni sulle unghie del mandorlo. Il mandorlo è la prima pianta a fiorire e il poeta l’accosta all’immagine delle unghie quasi che quella pianta volesse afferrare qualcosa. Il cielo contro cui il mandorlo si staglia va afferrato. Noi non viviamo sulla terra da rassegnati, ma in termini desti e fermi, con qualche unghia in azione, perché la speranza non ci sia sottratta. Abbiamo assistito ieri al terribile attentato di Brindisi che ha colpito con vile ferocia dei ragazzi, la primavera del nostro paese. E questo dopo che il paese da nord a sud aveva detto no a mafia e criminalità. Qui ci è chiesto di tirar fuori le unghie, non per rispondere con la violenza alla violenza, ma per non arretrare. Unghie che ci tengono saldi nella persuasione che non può essere una logica mafiosa ad avere la meglio sull’uomo. Gesù invita i suoi discepoli a credere nel vangelo che è loro affidato. E se ci credi le cose cambiano: Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti… Non lasciarti catturare da altre logiche. Rimani aggrappato al vangelo, anche quando le tue unghie sembrano troppo deboli rispetto agli artigli di qualcuno.

3.    E infine un’espressione bellissima: i titoli dell’erba del mattino. Il cielo è aperto dai titoli della speranza. Non i titoli di cui qualcuno ama fregiarsi, non i titoli di borsa, non i titoli allarmistici dei giornali, ma i titoli dell’erba del mattino. Sono i titoli della semplicità racchiusa nelle pieghe del quotidiano. Uno dei film più guardati e più premiati di quest’anno è Quasi amici, la storia vera di un uomo ricco e gravemente disabile assistito da un povero che ha avuto più volte a che fare con la giustizia. L’incontro dei due uomini, ambedue provati dalla vita diventa generatore di valori e di una rigenerazione individuale e collettiva sulla base della solidarietà, dell’amore per la vita, della bellezza. Perché questo film sta avendo questo successo? Forse perché riparte dai titoli dell’erba del mattino e ci pone di fronte a una verità che non è quella che ci raccontano titoli più altisonanti. Qual è la verità? Quella della semplicità, della disponibilità all’altro, della fratellanza, del servizio, dell’umiltà di lasciarci ridisegnare dalla vita e dagli incontri. Che significa ascese dice Paolo, se non che prima discese? E anche il nostro cammino ascensionale percorre la stessa logica. Se vuoi salire fino al cielo, devi scendere fino a chi soffre e dare la mano al povero (M Teresa). Anche a quel povero che sei tu. Perché solo se sei povero hai bisogno del cielo.

Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Il cristiano vive su questa terra, ma ogni tanto lancia un’occhiata verso l’alto, per non essere catturato e per ricordare che c’è un’ascensione già iniziata. Quella di Gesù e quella nostra.

domenica 6 maggio 2012

Omelia 6 maggio 2012

Quinta domenica di Pasqua

Esce in questi giorni, edito da Garzanti, il libro Soldaten, una serie di agghiaccianti conversazioni di soldati tedeschi prigionieri in campi inglesi e americani, che non sapevano di essere intercettati. Dai lori discorsi emerge la pragmatica determinazione nel portare a compimento una logica folle che non rispondeva solo a degli ordini ricevuti ma anche ad una personale convinzione.
“Il tenente ci diceva, ammazzatene venti, così avremo un po’ di pace, alla minima loro sciocchezza via altri cinquanta. Ra-ta-ta-ta con le mitragliatrici, lui urlava, “crepate, maiali”, odiava gli italiani con rabbia”. Anche altrove: “In Caucaso, se uccidevano uno di noi, il tenente non aveva bisogno di impartire ordini. Pistole pronte, donne, bambini, tutto quel che vedevamo, via!”.
L’uomo può essere vittima di una follia nella quale perde se stesso. Una follia che parte dallo sbarramento delle strade di Dio proprio perché quel superuomo che il Terzo Reich aveva in mente era un uomo perfettamente autonomo, che di Dio non aveva bisogno perché era Dio a se stesso.
Comprendiamo la verità della parole di Gesù. Rimanete in me. Il tralcio non porta frutto se non rimane nella vite. Senza di me non potete far nulla.
Che cosa vuol dire mantenere tale contatto? Come si rimane uniti alla vite, perché il fuoco con ci bruci come seccume? La seconda lettura appartiene alla stessa scuola del quarto vangelo e forse ci può suggerire qualcosa di interessante.

1.    Fratelli amiamo non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Si rimane uniti a Gesù se si ama. Ma è interessante l’articolazione dell’amore che trova bilanciamento in quelle due prospettive che vengono indicate: fatti e verità. I fatti salvano l’amore dall’inflazione parolaia: l’amore è donare qualcosa di sé, è reale partecipazione alla vita dell’altro. La verità dice la coerenza dell’amore rispetto alla sua natura, alla sua identità compiuta. Oggi a livello culturale siamo deboli su questo secondo versante: nessuno mette in discussione l’amore ma siamo incerti su che cosa sia, sulla sua verità. Adozioni: sono un gesto d’amore. E lo possono fare tutti, anche i single, anche una coppia omosessuale. Che amore c’è in gioco? Ma pensate allo sguardo parcellizzato delle scienze mediche. È importante che un medico ci curi, ma l’efficacia della cura – che è un atto d’amore – non è slegata dalla verità dell’uomo tutto intero. Perché quella cura può diventare accanimento o intervento tecnico che dimentica l’importanza della relazione. Ecco l’amore che cerca la verità, un progetto, uno sguardo compiuto.

2.    Ma la ricerca dell’amore non ci risparmia dall’esperienza del limite e del fallimento. Volevamo aiutare una persona e le nostre forze si sono esaurite. Volevamo dar forma a una famiglia ma il progetto si è interrotto. Ebbene, rimanere uniti a Gesù come tralci alla vite, significa ricordare che se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. È un’indicazione che ci riconsegna a una prospettiva di fiducia e ci rimette in gioco. Dio è più grande. Dei tuoi fallimenti, delle tue autoanalisi, delle tue imputazioni, del rammarico o del rimorso in cui ti maceri. E conosce ogni cosa: quello che c’è dentro di te, ma anche quello che c’è fuori, quello che ti aspetta, quello su cui ancora puoi intervenire. In questi giorni noi ci misuriamo con questa comprensibile ma insensata logica dei suicidi a motivo della crisi. E i loro funerali accompagnati dagli applausi. Rispetto verso la persona, per quello che ha patito: questo è doveroso. Ma chi si toglie la vita non è un eroe e il suo gesto cristianamente dice una fuga e un’assenza di fiducia di chi è più grande di ogni tua condizione. Cosa diciamo a un ragazzo che sta crescendo: guarda, se ti va male, resta sempre aperta questa uscita di sicurezza? O c’è qualcuno che continua ancora a credere in te? Tu rimani attaccato alla vite, se ti ricordi che la vite è più grande del tralcio e che cresce anche quando una potatura ti fa pensare alla perdita di qualcosa di essenziale. Dio è più grande anche della crisi.

3.    E questo ci porta a una terza considerazione. Questo è il suo comandamento. Che crediamo nel suo amore. Rimaniamo uniti se ostinatamente crediamo in lui, nel suo modo di impostare la vita, nel suo amore che da lui scorre in noi come linfa dalla vite ai tralci. Mi ha fatto riflettere il numero di contatti che ha avuto in questi giorni il sito istituito dal ministero delle finanze per segnalare gli sprechi. Oltre 40 mila. In Italia siamo ormai ossessionati dalla crisi e non senza motivo. Ma il “suo” comandamento è un altro: che crediamo nel suo amore. Che continuiamo a pensare a una politica degna di questo nome, a una logica di servizio, a disegnare il tessuto delle nostre comunità con quell’amore che ha disegnato la nostra civiltà occidentale. Perché quando abbiamo finito di intercettare gli sprechi non ci troviamo in mezzo al deserto, ma in una casa abitabile. Una casa dove la vigna si diffonde e continua a portare frutti, per quell’umanità che la costituisce e per quell’umanità che raggiunge.



Omelia 29 aprile 2012

Quarta domenica di Pasqua

È deciso: in Germania sarà ristampata l’opera Mein Kampf di Adolf Hitler, con la quale colui che sarebbe diventato il Führer esponeva la sua visione della Germania, dell’Europa, della storia e dell’umanità. È l’affermazione della razza ariana e della nazione tedesca in un delirio di onnipotenza che giustifica ogni forza violenta dato che il parlamentare eletto dal popolo è un «verme», la fiducia nella democrazia è «idiota». L’universo è regolato da una legge: la vittoria del più forte sul più debole; è una legge morale, il più forte è migliore e il più debole è peggiore. Così tra uomo e uomo e tra razza e razza. Quel che stupisce è che il testo non è reticente: non si può dire “non era chiaro, non avevamo capito”. È l’ideologia della follia cui hanno aderito migliaia di persone con gli esiti drammatici che conosciamo. Io sono il buon pastore, afferma Gesù. Ma subito emerge un’altra figura: oscura, sinistra, quella del mercenario al quale le pecore non appartengono: vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. La storia ci riserva numerosi mercenari. Ma per fortuna c’è qualcun altro che veglia, che si prende cura e che di quella sua attenzione ci invita ad essere interpreti. Chi è il Buon Pastore e come diventarne segno?

1.    Il Buon Pastore conosce le sue pecore. È il verbo della vicinanza, dell’interesse, della partecipazione. Oggi si è fatta strada in Italia una posizione pericolosa, chiamata anti-politica che, muovendo dallo scontento e dall’indignazione cerca di propugnare una alternativa al sistema dei partiti ritenuti, non senza ragione, interpreti di una politica che anziché porsi al servizio del paese, di esso si serve. È legittima un’anti-politica? Dobbiamo fare forse un po’ d’attenzione perché se determinate situazioni di privilegio, di indebito arricchimento, di interesse privato nell’agire pubblico vanno stigmatizzate, questo non  deve avvenire a spese della politica che continua ad essere partecipazione, presenza, cura della polis come ricerca del bene comune. Fa bene al nostro Paese un segnale anti, quanto meno per esprimere distanza e riprovazione di certi modi di fare. Ma non per allontanarci, bensì per esserci, sapendo che il sistema partitico, per quanto degenere, è garanzia di un confronto e di una responsabilità che dalle piazze deve ritrovare tavoli di lavoro, attenta valutazione delle situazioni, risposte adeguate e non solo proclami. Giuseppe Toniolo, oggi beatificato, è l’immagine di un cristianesimo che ribadisce nella città degli uomini le esigenze dell’onesta, della giustizia, di un’economia alleata dell’etica alla ricerca del bene comune.

2.    Il Buon Pastore dà la vita per le proprie pecore. Ciò che fa la differenza col mercenario è proprio questo. Sei pastore se ti doni e non ti trattieni. Oggi è la giornata di preghiera per le vocazioni. Pensate a un dato che ci riguarda molto da vicino: il numero dei preti a Treviso. Due saranno ordinati quest’anno e due il prossimo. Un calo preoccupante che interroga l’educazione al dono di sé. In questi giorni sta uscendo un film giapponese di animazione molto atteso: Il castello nel cielo. La ricerca di un tesoro come in altri film, ma per conquistarlo c’è una pietra da custodire. Dice il regista: «Ho voluto raccontare una storia sulla dedizione e il dono di sé, per toccare il cuore dei bambini trafiggendo lo strato di ironia e di rinuncia che lo avvolge». Ironia e rinuncia. Mi sembrano due drammatiche situazioni che segnano la vita dei ragazzi precocemente smaliziati di fronte alla vita e sfuggevoli agli impegni. Le questioni importanti della vita non le indica l’ironia ma la poesia, la capacità di sognare. Ed esse si raggiungono se ci credi e ti impegni non se batti in ritirata. Come il Buon Pastore che dà la vita. E non è solo questione di consacrarsi al Signore e diventare preti. Ma diventare uomini.

3.    Un ultimo aspetto di quel Buon Pastore sta nel fatto che le pecore ne ascoltano la voce. Solo così il lupo non ha la meglio su di esse. Chi ascolti? Pensate alle recenti vicende calcistiche: non avevamo fatto neppure in tempo ad apprezzare la scelta di sospendere il campionato per la morte di un calciatore che, domenica scorsa, ancora una volta il calcio ha dato il peggio di sé. Una partita sequestrata da una tifoseria arrogante e violenta che intende imporre le proprie logiche non solo alla squadra ma anche al resto dei tifosi che magari volevano solo una domenica pomeriggio di divertimento. La voce del calcio può diventare così forte che ti fa perdere il senso di altre voci, ad iniziare da quella del buon senso e della legalità. Comprendiamo allora che non è solo un problema di classe politica ma di generale disponibilità ad ascoltare una voce che talvolta sovverte i criteri umani e ci suggerisce prospettive che devono tener in piedi la vita, la tua e quella degli altri, anche fuori di un campo sportivo. Chi ascolti? Le mie pecore ascoltano la mia voce, ribadisce il Buon Pastore e forse riaprire il suo vangelo, anche di questi tempi, può farci percepire un po’ di più la sua presenza e le coordinate verticali che tengono in piedi la vita.