sabato 25 gennaio 2014

Omelia 26 gennaio 2014


Terza domenica del Tempo ordinario 

Il trasloco è una delle realtà più difficili da gestire, in termini operativi e psicologici. A volte può essere una necessità, a volte una sfida. Eppure esso porta sempre con sé la possibilità di ricominciare. E anche Gesù ad un certo punto trasloca: da Nazaret si trasferisce a Cafarnao, in casa di Pietro, che diverrà il suo punto di riferimento negli spostamenti intorno alle città che costeggiano il Lago di Tiberiade. Certo, c’è una logistica funzionale che torna a vantaggio di Gesù, ma c’è un messaggio ulteriore che indica anche ai discepoli qual è il trasloco da cercare e da vivere. Messaggio che i discepoli non tarderanno a comprendere e che determinerà anche il loro trasloco nel momento in cui Gesù li chiamerà con sé. Come funziona questo trasloco, cosa ci suggerisce, come ridisegna le nostre condizioni abitative? Mi pare ci siano tre direttrici che rendono comprensibile il gesto di Gesù: storiche, teologiche e partecipative.   

1.    Anzitutto quelle storiche. Perché Gesù lascia Nazaret? Non poteva rimanere ancora in quel villaggio dove era cresciuto imparando un mestiere? Gesù non rifiuta le sue origini: è chiamato “nazareno”. Ma quell’ambiente tra le montagne era un borgo piuttosto remoto, per niente aperto alla novità, curioso, ma nello stesso tempo diffidente rispetto a ciò che variava le idee, l’assetto sociale, i modi di fare. I vangeli ce lo ricordano quando Gesù qualche tempo dopo ritorna a Nazaret e i suoi compaesani lo respingono. Gesù lascia Nazaret per il bisogno di un respiro più grande, il respiro di Dio. C’è trasloco vero nella vita quando non ci si lascia imprigionare da mentalità grette e si cercano gli orizzonti di Dio. Nei giorni scorsi ad esempio, in seguito ad un’ondata di proteste che si è scatenata su Twitter, la Apple ha rimosso dal proprio appstore  un videogioco che proponeva ai ragazzi la situazione di una bambina obesa, sulla quale bisognava intervenire con la liposuzione e il lifting per renderla felice. Ecco il messaggio gretto e devastante da cui traslocare per ritrovare il messaggio vero di Dio sull’uomo, l’intera sua bellezza, per i ragazzi e per gli adulti.  

2.    Le ragioni teologiche sono quelle che l’evangelista Matteo introduce, ricordando una pagina di  Isaia: Il popolo che camminava nelle tenebre… Ai tempi del profeta la Galilea era occupata dall’Assiria. Una delle dominazioni più crudeli e opprimenti. Per il profeta è come se questo territorio fosse prigioniero di una tenebra nella quale risuona una domanda: quanto resta della notte? Ebbene, a questa gente desolata, Isaia annuncia una grande luce. Le tenebre non sono per sempre. Ebbene, Matteo che conosce bene questa storia, quando vede Gesù a Cafarnao, non può che dire: Ecco la luce annunciata da Isaia, è Gesù! Il trasloco dunque indica che le tenebre non sono per sempre, c’è speranza nel mondo. Avete sentito il racconto di quel ragazzino pakistano che è morto impedendo ad un kamikaze di lasciarsi esplodere in una scuola? «Sua madre ha pianto – ha detto il padre – ma il suo gesto ha impedito a molte altre madri di piangere». A volte il kamikaze è anche qui da noi e dentro di noi. È una logica distruttiva che getta oscurità, veleno, morte. Lavori in un’azienda che produce carrozzelle per disabili e ti rendi conto che la logica del profitto viene prima della gente malata a cui è consegnato un prodotto difettoso e criminale per non perdere il guadagno. Chi vuoi essere? Un kamikaze o uno che costruisce futuro? Il trasloco che l’umanità attende è un trasloco di speranza, luce nella notte.  

3.    Infine il trasloco è retto da una logica partecipativa nella quale Gesù chiama altra gente con sé. Sono i primi discepoli, inizio di una nuova relazione che Gesù ha in mente non solo per i primi chiamati, ma per ogni uomo: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Letteralmente: Vi farò pescatori di vivi. Tu traslochi non quando ti isoli, ma quando imposti relazioni di vita. E le relazioni di vita sono quelle che non catturano. S. Paolo nella seconda lettura ci ricorda l’esistenza di una comunità divisa tra i primi evangelizzatori: Io sono di Paolo, io sono di Cefa, io sono di Apollo… A volte vediamo che queste catture sono anche a casa nostra: catture del figlio per isolare il coniuge, o i nonni, o la nuora; cattura del padre per difendere l’eredità dal fratello; cattura del coniuge per piegarlo alle proprie esigenze, alla propria idea di famiglia. C’è una nuova famiglia di figli e di fratelli che Gesù ci indica e qualche volta è salutare “traslocare”, non dalla propria casa, ma da quella prigione che ne sequestra l’identità.

Il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al vangelo. Gesù inizia la sua predicazione indicandoci un necessario trasferimento di prospettive. Così il suo regno si diffonde e così entriamo a farne parte.

domenica 19 gennaio 2014

Omelia 19 gennaio 2014


Seconda domenica del T.O.


Su L’Espresso dei giorni scorsi quattrodici personaggi scelti tra scienziati, scrittori, registi, musicisti, politici, astronauti hanno scritto una lettera ai loro figli per consegnare loro una pagina di vita. Vi si parla di tutto: la memoria storica, il ruolo del cinema, il razzismo, l'ambiente, la musica, la rete, l'economia, la giustizia, il lavoro, l'amore, il ribellismo, la globalizzazione, Napoli, l'omosessualità, la nostalgia, l'odio, il perdono. Ma che fatica trovare un riferimento a Dio! Certo, siamo su L’Espresso, che più laico non si può, ma sembra che nel futuro di un figlio per questa parola non ci sia posto.

La figura di Giovanni Battista ci aiuta a riflettere sulla testimonianza della fede, su un messaggio che interpella l’idea e le misure dell’esistenza e che contiene una promessa di vita intesa come buona. Io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio. Come funziona la testimonianza?

1.    Anzitutto essa si dà in vario modo. Riguarda la coerenza dei comportamenti. La vita di Giovanni Battista appartiene radicalmente a Dio e con tale radicalità Giovanni è un messaggio per Israele. La testimonianza si gioca inoltre nel momento rituale, in quel battesimo che Giovanni  praticava. Ma il vangelo ci propone anche un Giovanni che parla e che con un discorso esplicito indica Gesù: Ecco l’agnello di Dio. La testimonianza si regge su questo equilibrio complessivo: coerenza di vita, gesti espressivi, parole. Noi siamo sensibili alle testimonianze sostenute dai fatti, ne intuiamo il valore anche se non sempre ci scopriamo coerenti. Abbiamo poi un legame con gli appuntamenti sacramentali, con un battesimo che ancora viene celebrato. Ma con le parole facciamo fatica. Non solo perché non sappiamo cosa dire ma anche perché ci chiediamo se sia opportuno dire. Perché l’altro a volte non è sintonizzato e potrebbe non comprendere o perché quello che viviamo è troppo personale per poter essere condiviso. Sono ragioni che vanno considerate, ma non fino al punto da dimenticare le parole. Perché noi siamo fatti di parola e le nostre esperienze ci vengono consegnate, oltre che per il loro darsi, anche attraverso la comunicazione che ne consegue. Perché hai bisogno di parlare di quello che ti capita? Perché lo elabori, te ne appropri, comprendi. La testimonianza non è solo un regalo per l’altro. È un regalo per sé, per capire quello che si sta vivendo, quanto incida nella vita, il modo con cui avviene, che cosa ce ne possiamo fare.

2.    Ma, recuperata l’importanza delle parole, quali parole dobbiamo dire? Giovanni articola due piani di comunicazione. Si serve di un’immagine biblica e di un’esperienza personale. L’immagine è quella dell’agnello, figura fortemente evocativa che ricorda l’esodo e l’agnello condotto al macello del profeta Isaia. Quei riferimenti consentono di capire chi è Gesù in un progetto di salvezza che parte da lontano e che Dio stesso custodisce. Ma poi c’è l’esperienza personale: Io non lo conoscevo ma ho visto scendere e rimanere lo Spirito su di lui. Ecco le parole della testimonianza: devi sempre riceverle da qualcuno che viene prima di te e che è più grande di te, ma avvalorarle con la tua esperienza, perché tale esperienza le rende comprensibili. Se citi solo la bibbia rischi di fare come quelli che ti fermano per strada e sciorinano versetti; se citi solo l’esperienza rischi che dica di te ma non molto di Dio. La testimonianza è Dio incontrato con la vita, il Signore, i suoi progetti che cerco sempre più di approfondire, di interpretare. Ricordo la testimonianza di un ragazzo albanese che è giunto al Battesimo grazie alla testimonianza della madre. Il mondo albanese è legato da tradizioni vendicative difficilissime da estirpare. Ma questa donna cui uno del paese aveva ucciso il figlio, il giorno di Natale si è presentata in chiesa e al segno della pace è andata dalla madre dell’assassino, dicendo: Pace in terra agli uomini di buona volontà. La parola aveva incrociato la vita e la vita si apriva a una parola ancora più grande.  

3.    Questo episodio ci aiuta a capire un terzo elemento della testimonianza: è sempre espressione di una vita buona. Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Non solo i peccati, come diciamo a messa, ma il peccato, quella disposizione oscura che ci abita e ci porta a vivere male e a tradire la nostra umanità. Sei testimone quando affermi che non è questa la vita, che c’è un’altra umanità che hai conosciuto e che non ti stanchi di perseguire. Pensate alle polemiche e alla grancassa che rimbomba per il trasbordo delle armi chimiche di Assad nel porto di Gioia Tauro. Si sa che in questi casi si accendo gli animi localistici e gli interessi degli amministratori a cavalcare il malcontento popolare ma è impossibile non vedere in questa vicenda una mancanza di senso di responsabilità unita a una preminenza per l’interesse particolare e di corto respiro. Le armi chimiche di Assad non sono diverse da molte altre sostanze nocive che nei porti italiani vengono trattate in assoluta sicurezza. Certo, il quantitativo è diverso, ma non può essere un segno solidarietà internazionale da accompagnare con saggezza e prudenza per le ragioni della pace in una terra martoriata? Ecco il testimone. Con le ragioni di una vita buona, quella che Dio ha in mente.

sabato 11 gennaio 2014

Omelia domenica 12 gennaio 2014


Battesimo del Signore 2014

Una delle prime eresie con cui la chiesa dei primi secoli ha dovuto misurarsi è quella del docetismo. Dokéin significa apparire. Si faceva fatica a capire come Dio avesse potuto legarsi ad un corpo, patire e morire e, per questo, i docetisti sostenevano che non si trattava di incarnazione, ma di una apparizione, una sorta di illusione dietro la quale Dio se ne stava al sicuro nei cieli. A volte anche noi siamo prigionieri di questa idea, come se la presenza di Dio nel mondo fosse un vecchio film. Invece il Battesimo di Gesù viene a raccontarci una reale immersione nella nostra vicenda umana, solidale con la nostra condizione che Dio stesso assume e fa propria. Di che immersione si tratta?

1.    Giovanni Battista invitava Israele al Battesimo al guado di Bethabàra, a pochi chilometri dal punto in cui il Giordano finisce nel mar morto. In quello stesso guado in cui milleduecento anni prima Israele era entrato nella terra promessa, anche Giovanni invitava la gente ad andare sulla sponda orientale del fiume e di riattraversarlo verso occidente, come era avvenuto ai tempi di Mosè. Immergersi vuol dire riappropriarsi di una storia credente che rischia di essere dimenticata, vissuta come una sorta di mito antico. Perché Papa Francesco continuamente ci invita a ricordare la data del nostro Battesimo? Perché il rischio è proprio quello di perdere il contatto con la storia di fede che ci precede, di sentirci estranei. Invece il Battesimo ci ha aperto un guado di grazia che cambia i contorni della vita. Pensate alle resistenze che oggi accompagnano la decisione di battezzare un bambino: ci penserà lui quando sarà più grande, non è giusto condizionare la sua libertà! Mi pare che a tuo figlio proponi numerose altre esperienze e opportunità che accompagneranno la sua vita. Perché lo fai? Non per restringere la sua libertà, ma per sostenerla, indirizzarla verso una vita che ritieni buona. E perché la fede non potrebbe contenere una promessa di vita buona? La sistematica azione di alcuni insegnati che destrutturano ogni possibilità credente di un ragazzo lo fanno in nome della libertà o in nome di un’ideologia che li imprigiona più di quello stesso Dio che contestano? Si aprirono i cieli. Non rassegnarti a chi te li vuole chiudere: ritrova la profondità degli orizzonti.
 
2.    La seconda immersione riguarda un progetto di misericordia sul terreno del peccato. C’è un Dio ormai immerso con i peccatori, tanto che Giovanni reagisce a questa solidarietà che gli sembra a dir poco sconveniente: Io dovrei essere battezzato da te! Ma Gesù risponde: Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia. Il battesimo di Gesù nel segno dell’acqua e nella colomba richiama un’altra pagina della Bibbia: quella del diluvio. Dopo questo segno con cui le acque travolgono un’umanità che ha preso le distanze da Dio, Dio afferma che non maledirà più il suolo a causa dell’uomo. E la colomba che appare in quel momento è già è presagio della nuova pagina di misericordia che Dio sta inaugurando. Ebbene, lo Spirito che scende come colomba è segno di questa nuova “alluvione di vita” che si sta realizzando. Le miserie umane lavate dalla misericordia divina. Immergiti qua! Avete sentito quello che è capitato a Taranto in questi giorni? Una persona ha subito un furto del quale ha fatto regolare denuncia. Pochi giorni dopo si vede arrivare il parroco a casa perché il ladro ha confessato, anzi si è confessato e ha restituito la refurtiva. Storia più unica che rara, ma non fino al punto da farci dimenticare che con Dio le cose possono cambiare perché in lui si compie ormai ogni giustizia, anche quella che sembra sconsiderata, quella dell’amore e del perdono.
 
3.    Infine Gesù si immerge in un nuovo progetto di umanità. È quello che dichiara il Padre quando Gesù esce dall’acqua: «Questi è il Figlio mio l’amato. In lui ho posto il mio compiacimento». L’umanità nuova è quella che appartiene a Dio, aperta ai suoi progetti, alla sua volontà. A chi appartieni? In quali relazioni ti immergi? Vi è mai capitato di fare una passeggiata sulle mura? Si trovano molte persone con il cane. E questo è normale. Ma poi le persone si fermano e il cane diventa motivo di incontro: come si chiama il suo? E quanto ha? Come si fa con un bambino. E cosa ancor più sorprendente è che quando si cessa di parlare del cane si parla col cane. Ricordati dell’umanità cui appartieni che è fatta di figli e di fratelli. Che non trascura gli animali, ma sa collocarli al posto giusto rispetto ad un Dio che prima di affidarti il cane ti affida una moglie, un marito, dei figli, dei colleghi e anche il povero. Che qualche volta rischia di mangiare meno e peggio di quello che mangia il tuo cane. Questi è il figlio che amo. E queste parole risuonano anche per noi, quando ritroviamo questa umanità, di fronte a Dio e di fronte ad altri uomini e trattiamo come tali.

Come vuoi vivere, ci chiede oggi Gesù? Docetismo? Una simulazione, una parvenza di vita? Io non sono vissuto così, ma in un’esistenza piena. Fa’ in modo che il Battesimo che hai ricevuto continui ad alimentare questa vita e la ridisegni con i contorni di Dio.