domenica 8 novembre 2020

Omelia 8 novembre 2020

 

Trentaduesima domenica del T. O.

È interessante quello che succede in un motore di ricerca se digiti la parola luce. Ti arriva una videata di offerte convenienti da parte dei gestori dell’energia elettrica per risparmiare sulla bolletta. La luce è messa in relazione a un servizio, è monetizzata, è oggetto di confronti commerciali. Invece la luce è l’anelito dell’esistenza, la parabola delle nostre attese, della capacità di vedere, di riconoscere, di incontrare. Bene lo sanno le ragazze di cui ci parla il vangelo di oggi, che affrontano la notte con quella lampada in mano, pronte a scrutare l’orizzonte mentre qualcuno sta per arrivare.

Lo sposo. Nell’ambiente palestinese lo sposo andava a prendere la sposa e le damigelle, amiche della sposa, gli correvano incontro per accompagnarlo al luogo dell’appuntamento. Gesù recupera questa vicenda e ne fa un originale racconto con lo sposo che tarda e le ragazze che si addormentano. Siamo noi: noi in attesa con le lampade in mano, in questo tempo di oscurità e noi sopraffatti dalla stanchezza e dal sonno di chi a volte non regge gli impegni, l’incertezza, il susseguirsi di notizie che, se da un lato vorrebbero rassicurarci, dall’altro generano nuove paure. Il letto o il divano diventano una zona di rifugio dove a volte chiudi col mondo e con le tue responsabilità. Cosa vuole dirci il Signore? 

1.    Anzitutto è interessante la presenza di questa ragazze che annunciano e accompagnano l’incontro dello sposo e della sposa. Un invito ad attendere Dio, a favorire il suo incontro con gli uomini, ad anticipare le sue nozze regalando un frammento di luce mentre sta arrivando. Penso al percorso fidanzati che oggi inizia. È una luce sulle strade di Dio, su quel matrimonio che ha in mente lui. E perché anche tu te ne convinca, ti corrono incontro degli animatori, una comunità cristiana, forse il tuo stesso partner, magari per uscire dalle acque basse di una convivenza che sembra rassicurante ma che spesso impedisce il viaggio. Penso anche al cammino di fede di un ragazzo: la lampada è quella dei suoi genitori che lo accompagnano, che gli indicano le ragioni per cui lo hanno battezzato. Quel giorno non a caso hanno ricevuto una candela accesa: fiamma che sempre dovete alimentare. Penso anche alla tante occasioni in cui la vita ci affida la possibilità di portare qualcuno alle nozze di Dio, con una parola, un atteggiamento, un consiglio. Dio non agisce in maniera miracolistica: arriva presso gli uomini attraverso altri uomini che lo accompagnano e gli rischiarano la strada.

2.    Altro aspetto importante è la generale sonnolenza delle ragazze e quel grido che le sveglia. Si assopirono tutte e si addormentarono. Nella vita tutti siamo sopraffatti dalla stanchezza. Ed è spesso la stanchezza dei ritardi. Poiché lo sposo tardava Quali ritardi ci addormentano? Alcuni ritardi avvengono per colpa nostra, quando non prendiamo in mano la vita, le scelte, le responsabilità. Sei in ritardo nell’affrontare alcuni capitoli della relazione di coppia e il tuo matrimonio si addormenta, sei in ritardo con i tuoi figli e la tua autorevolezza si addormenta . Alcuni ritardi sono anche di questo nostro mondo, di chi ci governa, di chi è preoccupato più del bonus biciclette che dell’effettivo inserimento e sostegno dei ragazzi disabili a scuola, delle marginalità che questo tempo produce. Ebbene, questo sonno è interrotto da un grido: Ecco lo sposo. In questo tempo mentre qualcuno si addormenta, abbiamo bisogno anche di chi gridi, di chi faccia comprendere che arrivano non solo il DPCM ma le ragioni di Dio, le sue iniziative, il suo modo di intendere la vita. Quando un ragazzo si toglie la vita gettandosi da un cavalcavia, quando un altro annuncia in un post la fatica di vivere non si può continuare a dormire. È importante gridare un’esistenza diversa, la sapienza di chi si alza di buon mattino, con la luce chiara, una sapienza che non metta a tema solo le nostre ragioni, i nostri interessi, ma il bene comune e quello che Dio sogna per l’umanità.

3.    Infine questa parabola ci insegna la necessità di mettere da parte delle scorte luminose. Che hanno due caratteristiche. La prima è quella dei piccoli vasi. La seconda è quella che le puoi mettere via solo tu. Piccoli vasi, vuol dire che per rischiarare la vita non ti serve il faro di Alessandria, ma piccole riserve combustibili che porti con te. Credo siano i piccoli frammenti d’amore, di verità, di vita secondo il vangelo che alla fine ti permetteranno di riconoscere il Signore proprio per gli anticipi che lui stesso ti aveva dato. Come diceva d. Milani ai suoi ragazzi: Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. I piccoli vasi d’amore rendono visibile l’amore di Dio, perché alimentano la stessa fiamma. E questo è olio tuo e solo tuo, non lo puoi cedere ad altri. Non vi conosco non è una minaccia, ma l’amara constatazione di fronte a chi non ha fatto scorta d’amore, di verità, di giustizia, di tutto ciò che ti rende riconoscibile agli occhi di Dio. L'olio è la tua vita e come te la sei giocata, il bene che hai voluto, magari incerto o frammentato, ma che qualche vasetto lo ha riempito, permettendo allo sposo di riconoscerti e di accoglierti in casa.

 

 

 

venerdì 23 ottobre 2020

Omelia esequie Michele Baù

 

Michele Baù (esequie 23 ottobre 2020)

(Rm 5,5-11 / Lc 7,11-17)

Ci piacerebbe che Gesù oggi incrociasse anche questo nostro funerale, come si è avvicinato al corteo alle porte di Nain, a quella donna che accompagnava il proprio figlio morto. Ci piacerebbe che prendesse la mano di Michele e gli dicesse: Dai, alzati. Invece ci troviamo a misurarci con il nostro dolore, il nostro carico di inquietudine e tante domande che rimbalzano nel cuore della mamma di Michele, della sua famiglia, dei suoi amici e di tutti noi. In questa morte sentiamo che qualcosa non solo ci addolora, ma ci provoca e ci chiede conto di noi stessi e degli altri, di come viviamo la vita e di come custodiamo quella di chi ci è affidato. Perché non sempre andrà tutto bene, anche se lo scriviamo sui davanzali, non sempre ci siamo, non sempre siamo alleati del meglio. La morte di un ragazzo, di un figlio, di un amico è l’occasione per riprendere in mano i nostri giorni e le nostre scelte, per riagganciare la vita alle cose importanti, per affidare i nostri passi incerti a colui che ci libera dal male e dalla morte, anche quando la morte non è solo quella dell’altro ma quella che imprigiona il nostro cuore. Raggiungiamo quel villaggio dell’alta Galilea di nome Nain e lasciamo che Gesù si avvicini e ci suggerisca parole di speranza e di vita.

1.    Anzitutto c’è un figlio, un figlio unico. È così che ci guarda Dio ed così che dovremmo guardare a noi stessi e agli altri. Sei unico e sei straordinario. Michele era stato arricchito di tanti doni: un bel ragazzo, coinvolgente, sportivo, sensibile, capace di riflessione e di profondità. Poteva liberare una straordinaria bellezza e un po' l'ha fatto. Poi la vita è cambiata: è diventata faticosa, ribelle, segnata da incomprensioni, vuoto, situazioni che era meglio evitare. Un po’ il contesto in cui si è trovato a vivere, un po’ la sua fragilità, la malattia che col tempo si è impossessata di lui. Un po’ anche le proposte da cui si è lasciato catturare,  le scelte non sempre adeguate, i rimedi non sempre efficaci che gli sono stati offerti. Questo non è il processo di Michele. Non ne ha bisogno e non spetta a noi. Ma in questa circostanza possiamo chiederci se siamo custodi della nostra irripetibilità, del dono che ci appartiene, se come chiesa e come società guardiamo ad ogni ragazzo che viene al mondo, come ad un figlio unico, prezioso e mai replicabile. Guarda di non lasciarti clonare, attento a chi disperde la ricchezza che ti appartiene, sta in guardia a chi promette e non mantiene. Occhio ai venditori di fumo, non solo per modo di dire. Sei originale, non morire fotocopia (Carlo Acutis), men che meno brutta copia.

2.    Ma, mentre questo figlio viene portato al sepolcro, Gesù si accosta, pieno di compassione. Ecco penso che Gesù oggi guardi Michele così: pieno di compassione. E con la stessa compassione guardi a sua madre, a suo zio, a tutti noi. La compassione è il giudizio di Dio, l'unico giudizio. Noi quando guardiamo certe situazioni, forse anche quando abbiamo incontrato Michele e quelli che un po’ gli assomigliano, quando abbiamo incontrato la sua famiglia, non abbiamo avuto sempre compassione. Ci siamo lanciati nei giudizi, ci siamo spregiudicatamente schierati da un’altra parte, abbiamo evocato interventi drastici e punitivi. Così impari, così si fa! Ci siamo dimenticati di chi è Dio e ci siamo dimenticati di chi siamo anche noi. Perché ognuno di noi porta ferite con sé, ognuno porta fragilità, colpe, peccati. A volte solo meglio nascosti. A questa umanità sofferente Gesù dona la medicina della compassione, forse quella che ci ha portato in chiesa quest'oggi e quella con cui ci manda a guarire il mondo. Ceto, non essere superficiale, sta attento a quello che accade, accertati sulle responsabilità, chiama il male per nome, denuncia se occorre, ma ricorda che i grandi cambiamenti degli individui e della società non li producono giudizi e condanne, ma la misericordia, il perdono e la fiducia sull’uomo. Anche per quell’uomo che sei tu. Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Compassione e misericordia. Cristo è morto così.

3.    Infine Gesù si avvicina: Accostatosi, toccò la bara. Avvicinarsi e toccare, due verbi pieni di prossimità nella quale Dio si fa presente e genera vita. Forse Gesù oggi ci dice la stessa cosa: avvicinati, tocca! Porta un po’ della vita di Dio, di quello che lui sogna, di quello che segretamente suggerisce ai suoi figli. Portalo ai ragazzi, come Michele, perché non si arrendano mai, perché non siano sopraffatti dal male e non ne siano sedotti. Ma portalo anche come l’ha fatto Michele, perché, a dispetto della drammatica e sconsiderata sua scelta di togliersi la vita, lui cercava e difendeva la vita, ma una vita vera, sottratta ad ogni schiavitù e agli sconti. Basta leggere i suoi post su fb per riconoscervi il legame intenso con l’Africa, terra alla quale sapeva di appartenere e rispetto al cui sfruttamento non si rassegnava, per i migranti nelle cui tragedie si sentiva coinvolto, per i malati come lui nelle cui storie c’era a volte la latitanza di chi avrebbe dovuto aiutare e l’inefficacia delle soluzioni. "lo faccio perché ho il terrore di finire ancora legato ad un letto, lo faccio perché non mi va più di chiedere per qualunque cosa, lo faccio perché ho una dignità". Michele se ne va, se ne va in un modo che non avremmo voluto, ma se ne va lasciandoci un messaggio di verità e di vita, perché mettiamo mano, come Gesù, alle bare di questo nostro tempo e liberiamo speranza, autenticità, riscatto. «Giovinetto, dico a te, alzati!». Che Michele possa alzarsi alla vita di Dio e che possiamo alzarci anche noi a difenderla e a liberarla.

sabato 26 settembre 2020

Omelia 20 settembre 2020

 

Venticinquesima domenica del T.O.

È morto don Roberto Malgesini, un prete pieno di carità, ucciso da uno di quei poveri cui ogni mattina portava la colazione. Troppo buono, ripetevano in tanti. Ma forse, troppo è il nome di Dio e per i suoi discepoli troppo non può che essere la forma della loro vita. Ce lo dice anche la parabola di oggi con un padrone troppo buono che fa girare le scatole a quelli che lo vorrebbero troppo giusto. Un’altra parabola che sovverte la nostra idea di Dio, che ci dice che lui è oltre le nostre rappresentazioni, anche le nostre ponderate e religiose aspettative. I miei pensieri non sono i vostri pensieri. Vediamo come funziona questo Dio. L’azienda, l’ingaggio, la retribuzione.

1.    L’azienda: Dio ha una vigna. La vigna è qualcosa di bello, è l’appezzamento cui tieni di più. La vigna racconta una storia, custodisce progetti, raccoglie attese. Non è un campo di cetrioli. Con questa immagine Dio descrive la terra che ha in mente, quella per cui lui si spende e quella per la quale ti chiede di collaborare. Don Roberto credeva in questa terra: la terra della fraternità, della solidarietà, dell’inclusione. È una terra ben diversa da quella dei tre giovani che hanno ucciso Willy, che percepivano il reddito di cittadinanza frequentando hotel di lusso e correndo con macchine fuoriserie. Terra di violenza, di sopraffazione, di imbroglio, di ruberie. Cosa stai coltivando? In quale campo lavori? La violenza diffusa tra i ragazzi ci domanda attenzione sui modelli che stiamo loro proponendo. Non solo quelli delle furberie e della prevaricazione, ma anche quelli del nulla e dell’evasione, della vita il cui obiettivo è il video su Tik-Tok e i like che porti a casa. 

2.    L’ingaggio. Un altro aspetto importante di Dio e che lui non si stanca di chiamare. A tutte le ore. E non gli dispiacciono neanche i last minute. L’ingaggio è sempre possibile. Perché non è questione dell’azienda in cui entri: è questione di te, della tua vita. L’azienda sei tu e, pur di averti, Dio apre per cinque volte al giorno l’ufficio di collocamento. Sabato iniziano i corsi di preparazione al matrimonio. Vedili come un’occasione di ingaggio che Dio ti rivolge, ma non immediatamente per sposarti in chiesa, bensì per dare forza alla tua vita di coppia, a quella relazione che hai messo in piedi. Non è mai troppo tardi per parlarsi, per verificare alcune dinamiche. Altrimenti sei preoccupato della casa, del mutuo, del lavoro, del figlio che magari nel frattempo arriva. E non hai mai verificato il rapporto con il tuo compagno. Vivete insieme ma siete due galassie che non si incontrano più. Entra nella vigna, entra in una progettualità. Non consegnare all'ozio la tua relazione di coppia. Non è mai tardi per essere quello che puoi essere. In famiglia, a scuola, nel lavoro, nel volontariato, in parrocchia.

3.    Infine l’aspetto più delicato: la paga. Uguale per tutti. Qui è l’aspetto più sconcertante di Dio: non funziona in base ai meriti tuoi, ma in base ai meriti suoi, quelli dell’amore, libero dal calcolo, abbondante, sorprendente. Con te ha pattuito una ricompensa: l’hai avuta, perché ti dà fastidio che la prenda anche l’altro, uguale alla tua? Perché a volte ci prende l’invidia? L’invidia nasce dalla sensazione che l’altro sia stato più fortunato. Lui si è divertito, io ho lavorato. Io mi sono comportato bene, lui si ne ha fatte di cotte e di crude. Gli operai della prima ora brontolano perché loro hanno sopportato il peso della giornata e il caldo. L’unica cosa che registrano è la fatica in un lavoro che sembra più una schiavitù che un’opportunità. Qui è il problema. L’invidia nasce quando pensi che l’ozio sia meglio del lavoro, lo sbragamento meglio dell’impegno, il billionaire meglio della tua giornata di lavoro, l’avventura meglio di un progetto famiglia, il bar meglio del volontariato. La differenza non è in quello che otterrai, ma in quello che hai vissuto, nella passione che hai messo, nelle ore di lavoro in cui hai creduto di realizzare qualcosa di bello. Se qualcuno ci arriva dopo a scoprire questa realtà per Dio è una gioia, ma a te non toglie nulla di tutto il bene di cui sei stato artefice. Allora lascia da parte le rivendicazioni sindacali. Riscopri il pezzo di vigna che il Signore ti affida: se già stai lavorano vivi il tuo lavoro con gioia, se scopri di essere disoccupato, guarda che il Signore sta ancora passando e rinnova l’invito: Va’ anche tu nella mia vigna.

domenica 16 agosto 2020

Omelia 16 agosto 2020

Ventesima domenica del tempo ordinario

A volte capita. Butti dei semi nell'orto, in un terreno ben preparato e la crescita è stentata, sottodimensionata, incapace di dare gli ortaggi sperati. Viceversa un seme, finito per caso in un angolo del giardino, sviluppa una potenza straordinaria: cresce e produce i frutti più buoni di sempre. E ti stupisce! È il vangelo di oggi. La missione iniziale di Gesù è per le pecore perdute della casa di Israele: per loro è venuto. Vuole spargere il seme buono della sua parola e della sua azione per il popolo dell’Antica Alleanza, terreno che Dio ha dissodato da tempo. Ma, con sorpresa, una donna cananea, una straniera, dimostra di essere una terra più ospitale, una terra aperta all'iniziativa divina, capace di stupire Gesù e di provocare un cambiamento della sua stessa azione, come se Gesù volesse lasciarsi convertire da questa donna. Di che terra si tratta? È la terra della fede, che può diffondersi ovunque, anche dove non lo penseresti. Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri. Mentre domenica scorsa i discepoli venivano rimproverati per la loro mancanza di fede, una donna li supera per una fede grande. E da quell'istante sua figlia fu guarita. Qual è la fede grande che opera i miracoli?

1.    È una fede che fa posto agli altri, all'amore per loro, per la loro vita, per il loro futuro. Fa posto agli altri di fronte a Dio. Qui c’è una madre che non prega per sé, ma prega per una figlia molto tormentata da un demonio. Quante madri e padri hanno figli tormentati. A volte dalla malattia e dalla disabilità. Ma anche dal demonio del vuoto e dello sballo, della pigrizia e della mancanza di responsabilità, dell’ingratitudine e dell’assenza. Porta al Signore queste situazioni, anche se tuo figlio non lo sa, anche se ti deride, anche se non cambia niente. I miracoli avvengono quando vuoi bene, quando quel bene ti porta a sfidare l'impossibile, quando con quel bene ti presenti di fronte a Dio. Può Dio voler meno bene di un padre o una madre? Quando non puoi più parlare a Dio degli altri, parla degli altri a Dio: parlagli dei figli tormentati, ma anche dei tormenti dell'umanità perché Dio ha bisogno di gente appassionata dell’umano, che sappia portargli storie di fraternità, di solidarietà, di coinvolgimento. Quando presso Dio c’è un cuore che pulsa così, il miracolo è già in atto. Dio ha già concesso un pezzo del suo cuore.

2.    È una fede che resiste. Le risposte di Gesù appaiono fredde, disumane, inquietanti. Si va dal silenzio all'asciutta comunicazione di una missione: Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele. E quella donna che non demorde, che si avvicina sempre di più e gli sbarra la strada prostrandosi di fronte. Interessante vedere a questo punto l’atteggiamento dei discepoli che intervengono con Gesù: Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando. Perché dicono così? Perché quella donna fa loro pena? O perché è un fastidio? O perché mette in discussione la popolarità del loro maestro? Sembra che Gesù più che guarire la figlia della donna, debba guarire la fede dei discepoli. I discepoli vogliono sbarazzarsi del problema, vorrebbero un miracolo veloce e ad effetto, un Dio 118 che manda l’ambulanza in tempo utile. Ma Dio non è così. Qualche volta ti fa passare attraverso l’aridità per farti crescere o per far crescere qualcun altro. A volte ci sono dei figli che sfidano i genitori, degli amici che ci provocano proprio sulla resistenza della fede. Il coronavirus è l’ambiente dove queste perplessità si diffondono. Dov'è Dio di fronte a quello che sta succedendo? E il credente è messo sotto processo. Mai come in questo tempo, servono sentinelle, uomini e donne che ostinatamente si mettano di fronte al Signore, sbarrando non solo la strada a lui, ma anche a coloro che in maniera troppo sbrigativa vorrebbero trovare risposte o liquidare le domande. Perché su Dio ci possiamo sbagliare, convinti di essere già credenti, di esserlo più degli altri o di non avere bisogno di esserlo. Un rischio per chi va a messa, ma anche per chi non va. Vado a messa quando mi sento. Chi sente cosa? E Dio può sentire qualcosa anche lui? Piuttosto che andare di malavoglia, meglio non andare. Sei sicuro che Dio la pensi così? Un padre vede volentieri  i suoi figli, anche quando loro non ne hanno voglia. Oppure, come mi ha detto una ragazza l'altro giorno: Ma credi che siano meglio quelli che vengono a messa? Ma Dio, secondo te, è là che fa le graduatorie di chi è meglio o è peggio? No. Tutti figli amati per lui, attesi. Gesù non risponde subito a quella donna che lo supplica per costringere tutti a chiedersi: che Dio hai incontrato? Lo hai incontrato?

3.    Infine fede è la risposta audace con cui l'uomo sorprende il Signore. Come la Cananea che non si lascia intimorire dalle parole di Gesù e lo supera a destra. Non è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cagnolini... dice Gesù. E lei: Ma anche i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Gesù non può resistere di più. La donna lo ha spiazzato. Ti sia fatto come desideri. La fede che compie il miracolo nasce da risposte spiazzanti che dai a Dio. Che cosa può spiazzare il Signore? In questi giorni è uscito uno studio su alcuni religiosi claretiani che a Parigi, durante la seconda guerra, hanno falsificato i registri di battesimo per mettere in salvo una cinquantina di ebrei. Anche in questo caso Dio si sarà sentito spiazzato! Come lo spiazzano i gesti audaci del perdono, l'amore di chi non fugge e rimane accanto; lo spiazza la tua resistenza vigile, intelligente, umile anche quando una situazione ti sta massacrando, lo spiazza vedere una piccola apertura rispetto al lockdown della tua anima. Si ferma di fronte e dice: Davvero grande è la tua fede!  E che in questa fede il Signore ci faccia camminare, suggerendoci l'incontro vero con Dio e sentendo che ad esso è atteso ogni uomo. 


sabato 15 agosto 2020

Omelia 15 agosto 2020

 

Assunzione della B. V. Maria 2020

È stato inaugurato il nuovo ponte di Genova e Renzo Piano, il progettista, ha detto che è un ponte di luce. Dal ponte, chi viene dal nord vede la luce che arriva dal mare.

Ma oggi c’è un altro ponte di luce. È Maria che ci invita a ritrovare i riflessi del cielo, a riempire di speranza la vita. Non vivere di muri, ci dice la Vergine: cerca aperture, passaggi, orizzonti che ti aiutino a guadagnare la vita in ampiezza. Non soffocare. E attento anche alle aperture ambigue, ai passaggi insidiosi. Non tutti i varchi dischiudono vita. I resoconti della movida ne sono il segno. Non lasciarti catturare. Qual è il ponte da cercare e da percorrere? Il ponte di Dio attraversa tre esperienze particolari che la Vergine ci insegna ad affrontare.

1.    Il ponte di Dio attraversa la morte. È un’esperienza con la quale ci misuriamo a fatica, che tendiamo a rimuovere con imbarazzo e paura. Finché non ci si presenta nuovamente di fronte con tutta la sua provocazione e capacità di inquietarci. Maria assunta in cielo è un invito alla fiducia e alla speranza. Dio non ci perde, né perde i nostri cari e neppure ciò che di bello abbiamo vissuto con loro, lacrime, sorrisi, carezze, vicinanza, sostegno. Ce lo ricordava S. Paolo: Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. E dopo di lui risorgono quelli che gli appartengono. La prima a risorgere è Maria, capofila di una carovana recuperata dall'amore di Dio. Qualche giorno fa è morto Tilio Sabbadin e lui confidava ai suoi cari che non aveva paura della morte perché era convinto che sua madre gli sarebbe andata incontro. Credo sia proprio così. La morte è un parto, una nuova nascita: nuove braccia sono pronte ad accoglierci, quelle di Gesù, quelle della Vergine, quelle delle persone che ci hanno voluto bene e abitano già il mondo di Dio.

2.    Il ponte di Dio attraversa il potere del male. La prima lettura ci ha parlato di un enorme drago rosso che scaraventa a terra le stelle del cielo. Sette teste, dieci corna, sette diademi. Un drago forte, arrogante, regalmente ornato. Un drago che sembra avere la meglio sul mondo, su Dio, sui discepoli di Gesù Cristo, sulle logiche del vangelo. Ma Dio non si lascia intimorire. E in questo scenario di morte lui continua a generare vita. Mette al sicuro il Bambino nato da quella donna insidiata dalla bestia e mette al sicuro la donna stessa. In quella donna è riconoscibile Maria, ma è riconoscibile anche la comunità dei discepoli del Signore. Come se volesse dirci: non avere paura del male, non può prevalere. Per quanto altezzoso, borioso, mostruoso Dio è più forte. Sono le parole del magnificat, inno di speranza di fronte al proliferare del male. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha rovesciato i potenti dai troni. ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. Maria ci invita a passare attraverso il ponte della non rassegnazione. Che tristezza le vicende di quei politici che hanno cercato i contributi destinati alle misure anti Covid. Tristezza rispetto a chi di quei soldi davvero ha bisogno, perché un'attività imprenditoriale che manteneva una famiglia e qualche operaio si sta sfasciando.  È questo il drago rosso che oggi ci insidia: quello del così fan tutti, io non sarò scoperto, approfittiamo della situazione. Maria ci invita ad attraversare il ponte della correttezza, dell’onestà, della giustizia. Qui c’è il parto del mondo nuovo.

3.    Infine il ponte che Dio attraversa è quello delle persone che ti vogliono bene e ti aiutano a individuare il tuo bene. Come la Vergine che va a trovare la cugina Elisabetta. La sua assunzione comincia con questo viaggio verso la montagna. Cosa c’era nel cuore di Maria dopo l’Annunciazione? Stupore, incomprensione, incertezza. E quando arriva da Elisabetta, basta un saluto per scoprire una sintonia profonda, per sentirsi capita. Benedetta tu fra le donne, benedetto il figlio che porti in grembo! Molti ponti importanti della vita sono quelli che ci aprono gli altri e sono quelli che noi apriamo agli altri. Penso alle persone che stanno vicino a un famigliare disabile o anziano, mentre tutte le strutture assistenziali e associative chiudono o stabiliscono distanze. Sei un ponte su cui corre la luce di Dio. Quali ponti dobbiamo riaprire, quali ristrutturare? Un ponte di ascolto, di vicinanza, di perdono… Non sono i muri che salvano, ma le arcate. E un pilone forse lo sei anche tu. Come la Vergine che oggi è ponte verso il cielo, come quel cielo che attraverso di lei diventa più vicino.

domenica 9 agosto 2020

Omelia 9 agosto 2020

 

Diciannovesima domenica del T. O.

Com’è difficile approdare all’altra riva, specie se nella riva in cui ti trovi le cose sembrano andar bene. È quello che succede ai discepoli. Dopo la moltiplicazione dei pani e il successo ottenuto da Gesù non erano propensi ad andarsene. Tant’è che Gesù li deve obbligare. Subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva. Perché bisogna andarsene altrove? Perché Gesù non vuole gente da bagnasciuga, ma rematori. Non ha bisogno di raccogliere applausi bensì nuove disponibilità, nuove storie di vita, di profondità. Ognuno ha una riva che lo aspetta: della serenità interiore in un tempo in cui l'ansia ti imprigiona, di un perdono senza il quale viviamo male i giorni, di una nuova disponibilità verso qualcuno che ha bisogno di noi, di una scelta di vita dopo lunghe e inconcludenti tergiversazioni. Gesù costringe anche noi a partire e ci consegna la sua carta di navigazione.

1.    Anzitutto il fatto che mentre i suoi discepoli sono sulla barca lui non se ne sta al bar, ma sul monte a pregare, a lungo. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. È molto rassicurante questo aspetto. Noi preghiamo, ci affidiamo alle preghiere di qualcuno, ma l’aspetto determinante della preghiera è che Gesù prega per noi. Sempre. Porta al Padre la nostra vita, le nostre vicende, i nostri crucci interiori. E mentre attraversiamo il mare agitato, anzi, ancora prima che si alzino le onde, egli conosce quello che sta per capitare. Mai perdere la fiducia in un Dio. Bello il discorso di Renzo Piano per l’inaugurazione del Ponte di Genova: È stato il più bel cantiere che ho avuto in vita mia. È stato straordinario. Ma non credo che si debba parlare di miracolo: semplicemente è stato che il Paese ha mostrato una parte buona. Dio è così. Lavora ai suoi progetti anche nelle tragedie e aspetta che ciascuno di noi tiri fuori la sua parte buona.

2.  Se vuoi raggiungere l’altra riva non devi aver paura dei fantasmi. Perché capita proprio così: Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Quali fantasmi ti impediscono di raggiungere l’altra riva? Il fantasma della solitudine, il fantasma della povertà, il fantasma della sfiducia, il fantasma del rancore. I migranti arrivano col virus addosso. Quanti fantasmi! Poi scopriamo che col virus arrivano anche i nostri ragazzi che sono stati in discoteca in Croazia o a Ibiza. E allora gridiamo di meno. Il fantasma è un malessere che si alza dentro di noi e ingigantisce la paura, i sospetti, le ansie. Quand'è che il fantasma si dissolve? Quando senti la voce di Gesù. Parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Noi ci spaventiamo quando perdiamo il contatto con quella voce e allora sentiamo ululati, dentro e fuori di noi. Bisogna smetterla di seguire i fantasmi e ascoltare un po’ di più il Signore.

3.  Infine l’altra riva la raggiungi se impari a camminare sulle acque, come Pietro. «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». E Pietro inizia una nuova attraversata, segnata dalle difficoltà e dal rischio di essere sommerso, ma anche da una nuova consapevolezza che riguarda l’apostolo: quella della fede. Uomo di poca fede, perché hai dubitato? I cristiani sono chiamati a camminare sulle acque dell’impossibile, sfidando la mentalità corrente. Pensate al tentativo di modificare ancora una volta la legge sull'interruzione di gravidanza. Non basta l’introduzione della Pillola Ru486 che sembra trasformare una pratica abortiva all'assunzione di una specie di aspirina. Ora lo puoi fare anche a casa tua, non solo fino alla settima, ma fino alla nona settimana di gestazione. Un passo in avanti, dice il ministro Speranza. Avanti verso dove? Verso la libertà della donna che vivrà in solitudine questo momento? Verso il coinvolgimento improbabile del suo compagno: non c’entra anche lui? Verso l’assistenza affidata a un centralino nel caso di imprevisti? Allora sei consapevole che potrebbero verificarsi. Certo, molto più complicato camminare sulle acque inquiete di una gestazione imprevista, ma non ci sei solo tu. C’è la mano di Gesù che ti rialza. È la mano di chi può darti una mano ed è la mano del figlio che porti in grembo: una mano debole e forte, che ti salva mentre lo salvi. Camminare sulle acque, con l’audacia dell’impossibile e la fiducia di raggiungere una riva nuova, con lo stupore dei perduti ritrovati e di chi capisce che forse non è solo.  

Omelia 2 agosto 2020

Diciottesima domenica del T. O.

Saranno i giorni particolari che sto vivendo, ma mi colpisce parecchio la vicenda di Gesù che, dopo la morte di Giovanni Battista, sente il bisogno, molto umano, di allontanarsi, di starsene per conto suo. Avendo udito della morte di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. La morte di una persona cui sei legato domanda un tempo di sedimentazione, di rielaborazione del vissuto, per riorganizzare la vita, chi sei e chi vuoi essere, le cose importanti cui rivolgere l’attenzione. Serve per dire: voglio morire anch’io o voglio tornare a vivere? L’ultimo regalo che si fa agli altri che se ne vanno è quello di non sprecare la loro morte. E infatti Gesù ritorna. La solitudine dura poco perché la folla lo segue e lo raggiunge proprio dove pensava di starsene solo. E lui si commuove, forse perché vede non solo gente che ha bisogno di lui, ma anche la vita che continua, un compito che non è finito, un Padre che riapre i giochi. Ecco l’aspetto importante: l’assunzione di una nuova responsabilità. Vale anche per noi, quando la vita ci mette alla prova, quando ci pare che non ci siano sbocchi, quando ci interroghiamo sui compiti che ci appartengono.

E in questa ritrovata fiducia, Gesù ci indica alcune esigenze imprescindibili.

1.    Rifiutare l’allontanamento sbrigativo degli altri. Ad un certo punto è tardi e c’è parecchia gente intorno a Gesù. Come si fa a gestire tutte quelle persone? Ecco allora la soluzione dei discepoli: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ognuno per sé e Dio per tutti! I discepoli vedono i problemi, Gesù vede pecore senza pastore da raccogliere, da custodire. E si mette a guarire la gente. Chi ti affida il Signore? Chi devi ritrovare per evitare congedi troppo frettolosi? In questo tempo ci sono racconti un po’ tristi che provengono dall’ambiente ospedaliero e che a motivo Covid mettono in evidenza la difficoltà di essere accanto ai morenti. Perché i protocolli non consentono più di un accesso al giorno e per un tempo contingentato. Non sempre, non dappertutto. A volte ci sono episodi di grande umanità e comprensione da parte del personale sanitario che va oltre i protocolli. Ma non sempre è così e anche in questo tempo, in ospedale, si rischia di morire in solitudine. Forse, quando una persona se ne sta andando, si può garantire un ambiente riservato, per lei e per i famigliari. Perché anche quel momento è una terapia, per chi se ne va e per chi resta. Cercare, sentire compassione, non allontanare. L’uomo prima dei protocolli.

2.    Partire da quello che sei e da quello che hai. Voi stessi date loro da mangiare. Voi stessi. Il pronome rafforzato marca l’esigenza di esserci, di assumere responsabilità, di non fuggire. Voi stessi genitori, voi stessi animatori, voi stessi nonni, voi stessi preti. E non importa se hai in mano solo cinque pani d’orzo e due pesci. Il miracolo lo compie Gesù che cerca però la tua partecipazione, la tua corresponsabilità. Portatemeli qua. Dopo la genesi, Dio smette di creare dal nulla e preferisce generare vita grazie all’aiuto degli uomini. Poco o tanto non ha importanza, importante per lui è il tuo contributo, la tua consegna, la tua fiducia. Il miracolo è la sfida di cinque pani e due pesci alla fame del mondo. Pensate però a quello che sta capitando, alla difficoltà di unire l’iniziativa personale alla risoluzione dei problemi. Perché la pretesa è quella della garanzia totale e, se non è esaurita tutta la burocrazia, chiarite tutte le responsabilità non ci si muove. Neanche per una partita di calcio in oratorio. E non è un risultato della pandemia. È lo stile di chi fa della ricerca delle altrui responsabilità una professione e un sistema, per guadagnarci, per indebolire, per eliminare. Siamo sempre a rischio denuncia: chi te lo fa fare di tirare fuori i cinque pani? Ma un paese così implode. In questi giorni in Egitto è morto Mohamed Mashali, il "dottore dei poveri", un medico musulmano che visitava gli abitanti dei sobborghi più poveri di Tanta, città nel Delta del Nilo. Curava la gente, chiedendo pochi spiccioli solo a chi poteva affrontare la spesa. Lavorava dodici ore al giorno, visitando musulmani o cristiani, non importava, anche ora che era diventato anziano. È un problema socio-sanitario? Intanto prova a fare qualcosa tu. Voi stessi. Gesù insegna a tirare fuori le piccole disponibilità. E dove c’è autentica generosità lui moltiplica. E sorprende.

3.    Cerca quello che nutre davvero. Ad un certo punto il brano si concentra sui gesti di Gesù. Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Sono gesti che sanno di Eucaristia, come se Gesù anticipasse quello che avrebbe compiuto nell’ultima Cena. Allora tu riprendi quota nella vita, anche dopo la delusione e il disorientamento, se ti lasci nutrire da Gesù, dal suo Pane. Non solo se cerchi gli altri, ma se cerchi Gesù! Non solo se ti dai da fare per gli altri, ma se lasci che lui faccia qualcosa per te. Quel Pane avanza perché la chiesa non ne sia mai priva e perché ogni uomo trovi una riserva di cielo nell’esistenza di ogni giorno. Mentre distribuisci pane, ricordati di mangiare, verifica quello che mangi e un po’ di cibo vero chiedilo a Gesù.

Omelia 19 luglio 2020

 

Sedicesima domenica del T. O.

Maiti Girtanner era una giovane pianista ben presto coinvolta nella resistenza francese. In bicicletta portava messaggi e con un gruppo di amici falsificava documenti per mettere in salvo la gente dai nazisti. Finché viene scoperta e arrestata e condotta in un campo di tortura dove un giovane medico delle SS, Leo, le riserva le più atroci crudeltà. Voleva far impazzire la prigioniera procurandole progressive lesioni al midollo spinale. Il suo corpo spezzato non si riprenderà più dopo la tortura. ma lei, credente, inizia una nuova resistenza: quella di fronte al male:  "Ho sempre pensato che la sfortuna era più sul lato del carnefice che su quello della vittima". La guerra finisce, Maiti viene liberata e deve sopportare cure difficilissime non per guarire per riuscire per lo meno a sostenere il dolore. Maiti ingaggia una lotta personale per affidare il suo passato e il suo carnefice a Dio, senza mai sapere fino in fondo se lo abbia davvero perdonato. Finché nel 1984, dopo quarant’anni, il suo torturatore si ripresenta ed è lui a chiedere perdono. Attimi infiniti che Maiti descrive così: "Alla partenza, era in piedi alla testa del mio letto, un gesto irrefrenabile mi sollevò dal mio cuscino pur facendomi molto male, e l'ho abbracciato per lasciarlo nel cuore di Dio. E lui umilmente mi ha chiesto "Perdono". Era il bacio di pace che era venuto a cercare. Da quel momento sapevo di averlo perdonato".

Eccoci qua di fronte alla parabola reinterpretata del buon grano e della zizzania. Una parabola che cozza contro la nostra mentalità e la nostra tentazione di fare pulizia, di liberarci dagli infestanti. Cosa ci dice il Signore? Come si si muove da cristiani di fronte alla presenza del male?

1.    La prima cosa di cui prendere atto è che Dio nel campo dell’umanità semina il bene e solo il bene. Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. È importante recuperare questa consapevolezza perché nella nostra mentalità si è inserita una pericolosa equivalenza dualistica dove bene e male stanno sullo stesso piano, dove qualche volta attribuiamo a Dio anche la genesi e l’azione del male e dove il male ci sembra più forte di Dio. L’immagine del seminatore e del buon seme ci dicono che Dio semina solo bene, che il male non gli appartiene e che non ha altro desiderio che quel bene cresca. Nella nostra vita è un invito a ritrovare la fiducia nella semina buona, a non attribuire al male più della forza che porta con sé, a non lasciarci suggestionare dal male. Penso alle volte in cui vediamo la vita soggiogati dalla paura, dal pessimismo, dalla rassegnazione. Non dimenticare il seme buono: nel campo del tuo matrimonio, nell’educazione di un figlio, nel modo con cui guardi il mondo. Non cancellare con il male che vedi il bene che sta agli inizi.

2.    Prendere atto dell’esistenza di un avversario che in maniera subdola agisce nella vita degli uomini: un nemico ha fatto questo. Un nemico nascosto che si muove nell’ombra, mentre tutti dormivano. Gesù ci invita a non trascurare la potenza del nemico che sa fare il suo mestiere. Qualche volta sarebbe importante non dormire, fare attenzione a chi frequentiamo, a chi ci gira intorno, a chi vende oscurità. Fa riflettere la caccia ai clienti di una prostituta contagiata dal Covid a Modica. Ma ti viene da chiederti anche: che cosa ti contagia oltre al Covid? Ma a volte il nemico è raffinato, invisibile, che tu dormi o sia desto. Pensate a questa proposta di legge che per contrastare l’omotransfobia. Il decreto Zan. Sembra che l’Italia sia diventata improvvisamente un paese omofobico per cui anche le opinioni sulla sessualità vanno controllate. Pericoloso dire che una famiglia dovrebbe essere costituita da un uomo e una donna, da un padre e da una madre. Il nemico si traveste di diritto, di libertà, di progresso, mettendo al bando la necessaria riflessione auspicata anche dai vescovi italiani. È di questo che abbiamo bisogno in Italia in questo momento? O la denatalità con cui ci stiamo misurando non domanderebbe ben altre politiche famigliari? Non credo che dobbiamo fare crociate, ma neppure rinunciare al confronto. Perché crediamo alla semina buona.

3.    Ma in questa diffusione di infestanti  Gesù ci suggerisce un altro atteggiamento: la pazienza. Vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania? No. la sua risposta. Perché c’è il rischio di strappare anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme, fino alla mietitura. Che fatica resistere fino alla mietitura, ma è la logica di Dio che vede più in là, che dà modo a tutti i suoi figli a non venir sradicati in nome delle loro idee, anche se quelle idee sono malsane. Pensate alla Basilica di S. Sofia che torna ad essere una moschea. Si comprende benissimo che l’intento non è religioso ma politico e ti verrebbe da cancellare tutti i tentativi di dialogo col mondo islamico che questo papa ha incoraggiato. Lasciare che buon grano e zizzania crescano insieme. Anche quando gli altri non ci portano via una basilica, ma un diritto, un pezzo di terra, un saluto. Tu continua a incoraggiare la crescita del buon grano, anzitutto nel tuo cuore. I conti li farà il Signore, al suo ritorno, dandoti magari anche la gioia di restituirti quello che ti sembrava perduto. Anche il perdono che ti chiede chi ti ha torturato in un lager. Sorprese di Dio e del suo seme buono che non teme nulla, neanche la zizzania.

Omelia funerale papà Danilo

 

Funerale papà Danilo – 13 luglio 2020

Rm 8,31-35.37-39 Lc 12,35-40 

Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese, siate simili a coloro che aspettano.

Aspettare. Era un verbo con cui il papà aveva una certa consuetudine, anche se non era un tipo che amasse troppo le attese. Ogni volta che si doveva andar via, saliva in macchina almeno dieci minuti prima del previsto, costringendo la mamma, rea di essere sempre in ritardo, ad accelerare i suoi preparativi. Varda mi che presto che fao. Così quando lo accompagnavo a Montebelluna per la chemioterapia, lui era pronto già di buon mattino e non c’era verso di fargli capire che, a motivo Covid, in reparto bisognava andare all'orario stabilito. E se per strada succede qualcosa? E se c’è traffico? Così mi è parso strano che giovedì scorso non fosse già sulla porta ad aspettarmi. Pochi istanti, il tempo di renderci conto di quello che stava succedendo. Il papà era in attesa di Qualcun altro che era venuto a prenderselo. Il padrone era arrivato e, scombussolando tutte le nostre tempistiche, aveva già portato Danilo con sé. Era la morte che lui si augurava, per la quale pregava, cozzando qualche volta contro le nostre rimostranze famigliari. Perché la bella morte, obiettava il figlio prete, non è solo quella i cui si fa presto, ma anche quella cui ci si prepara.

E lui faceva capire che non trascurava tale esigenza. So ndato confessarme da don Paolo anca l’altro dì. In realtà, il male che gli era stato diagnosticato lo stava mettendo alla prova e lui, abituato a dire poco di sé, in qualche occasione aveva confidato al medico la sua inquietudine: Come va signor Giacometti? El pensiero ze sempre là. Aveva ben presente il travaglio di numerosi compagni di lavoro, che se ne erano andati per la stessa malattia polmonare e per questo era disposto a barattare con il Signore un po’ di anni perché gli fossero risparmiate le sofferenze. E sembra che il Signore lo abbia accontentato. Ecco, il papà con il Signore era di poche parole, ma evidentemente si capivano, in una relazione di fede semplice e quotidiana dove c’era posto per Dio e per gli altri, per la preghiera e l’operosità, per le responsabilità di una famiglia e per una famiglia più grande fatta di numerosi contatti, alcuni dei quali a volte ci sfuggivano. Ci sembra questa un’eredità preziosa che rende cristiana la vita e la morte e che ci fa credere che, al di là della velocità con cui il papà ci è stato tolto, lui, come raccomandava Gesù, non si sia lasciato scassinare la casa. Quale casa?

1.    Custodiva innanzitutto quella casa che eravamo noi, la sua famiglia, rallegrata dai nipotini. E custodiva la casa che con la mamma e con tanto sacrificio aveva costruito in Via S. Giorgio. Quanto costasse quella casa, io bambino lo vedevo nelle tute di lavoro che a lungo dovevano stare in ammollo, quando ancora non avevamo una lavatrice. E lo vedevo nelle sue mani sempre screpolate e callose, sulle quali quintali di Glysolid non sono riusciti ad avere la meglio. Un lavoratore. Il papà non aveva avuto lunghe frequentazioni scolastiche, ma una poesia gli era rimasta in mente, l’unica che spesso ripeteva a noi figli: Dice il Signore a chi batte alle porte del suo Regno: “Fammi vedere le mani; saprò io se ne sei degno” (Renzo Pezzani). E lui era proprio convinto che al Signore avrebbe fatto vedere le mani, lasciapassare indiscutibile per il paradiso, al quale non si accedeva con i discorsi, ma con la fede operosa e la vita spesa per gli altri. Della poesia il papà, forse per modestia, ricordava solo la prima strofa, ma cercando su internet in questi giorni ho recuperato anche le altre due. L’operaio fa vedere le sue mani dure di calli:/ han toccato tutta la vita terra, fuochi, metalli./ Sono vuote d’ogni ricchezza, nere, stanche, pesanti./ Dice il Signore: “Che bellezza! Così son le mani dei Santi!”. C’è un po’ di enfasi poetica, ma c’è anche l’invito a ricordare che mani pulite, per i cristiani, non sono sempre una virtù. La casa dell’operosità.

2.    Ma la casa che il papà non si è lasciato scassinare era anche più ampia di casa nostra. Nonostante la Fervet, insieme al pane quotidiano, gli avesse fatalmente minato la salute, attivando solo in tempi recenti le precauzioni contro l’amianto, di quell'azienda manteneva un ricordo grato, specialmente per le relazioni che aveva vissuto al suo interno. Non ne faceva mostra, ma custodiva con un segreto orgoglio una medaglia pesantissima, in ghisa, fatta dai suoi compagni di lavoro, quando se ne era andato in pensione. Niente di artistico, ma solo una scritta che per lui valeva come il Nobel: Al buon Danilo. A dire il vero, non era sempre così tranquillo: ogni tanto si accendeva, si alterava. Ma erano temporali primaverili che non lasciavano rancore né risentimento. Perché degli altri aveva bisogno. Lo vedevamo chiacchierare con chi passava per strada mentre curava l’orto, offrendo consigli, saluti, giovialità, insieme a zucchine e pomodori. Gli piacevano questa comunità della Pieve, i suoi preti, la sua gente e ricordava con nostalgia il passato sportivo come calciatore e allenatore, anche sul campo dietro a questa chiesa, cui si affacciava dalle finestre della sacrestia, quando da chierichetto le prediche erano troppo lunghe. Io ci vedevo una tessitura buona, avvolgente, fatta di amabilità, di disponibilità di cui oggi abbiamo bisogno e di cui tutti possiamo essere artefici. L’ultimo gesto che il papà ha fatto è stato quello di seminare radicchio, ma mi pare che abbia seminato qualcosa in più e che lui abbia ospitato nel suo campo anche i semi buoni del vangelo. Almeno qualcuno.

3.    C’è infine la terza casa che papà non si è lasciato scassinare. Quella della sua vita interiore, con il Signore. Non era esente da limiti e da debolezze, ma ci ha lasciato il ricordo buono della sua coerenza cristiana, della preghiera semplice, della messa domenicale che non ha mai perso, delle bestemmie che non ha mai detto. Non reggeva un rosario intero, ma gli piaceva dirne un pezzo con il Card. Comastri e ci teneva che, finita la chemioterapia, tornassimo dall'ospedale di Montebelluna non per la statale fatta all'andata, bensì per Fanzolo, dove, presso il Santuario del Caravaggio, chiuso anch'esso per il lockdown, si sostava in macchina e si recitava un’ave-maria. Mi venivano in mente ogni volta i Magi che, dopo aver visto il Bambino e la Madre, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Era la strada della fede che il Signore chiedeva al papà e a noi, quella che oggi ci fa credere che le preghiere non sono state fatte per niente, che il Signore vede più in là di quello che oggi ci sembra incomprensibile, che c’è un’altra realtà da accogliere e abitare. Chi ci separerà dall'amore di Dio in Cristo Gesù? Che questa domanda guidi le nostre domande, divenga rassicurazione buona sul presente e sul futuro, compassione e misericordia per il papà, consolazione e speranza per tutti noi.  


Dice il Signore a chi batte
alle porte del suo Regno:
“Fammi vedere le mani;
saprò io se ne sei degno”.
L’operaio fa vedere
le sue mani dure di calli:
han toccato tutta la vita
terra, fuochi, metalli.
Sono vuote d’ogni ricchezza,
nere, stanche, pesanti.
Dice il Signore: “Che bellezza!
Così son le mani dei Santi!”.

R. Pezzani – Le mani dell’operaio


domenica 10 maggio 2020

Omelia 10 maggio 2020


Quinta domenica di pasqua

I fatti capitati lungo i Navigli, a Milano, sono l’icona di questi giorni in cui qualcuno esce, incurante delle misure di sicurezza e in cui qualcuno cattura chi esce, con le proprie foto e con i propri post, in un misto di indignazione e forse di invidia. Perché il nostro sdegno non è mai del tutto puro e spesso porta con sé una inconscia voglia di rivincita, di fare altrettanto, quello che a noi è proibito. Siamo come i discepoli di lingua greca che mormorano contro quelli di lingua ebraica perché vedono dei privilegi inaccettabili nel modo di gestire la comunità. Non è detto che dal virus usciremo cambiati, non è detto che usciremo migliori. Intorno a noi percepiamo sentimenti che non sono sempre quelli della solidarietà che questo tempo ci ha regalato. Sentiamo che spesso montano la rabbia, la cattiveria, il risentimento, la preoccupazione che ci toglie la pace. E soprattutto la tentazione di fare confronti. Tra prima e dopo, tra noi e gli altri. A rimedio di questa agitazione Gesù suggerisce la fede. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Ecco l’invito importante rivolto ai discepoli: smettetela di guardarvi tra voi, di riempirvi di sospetti, di alimentare le paure. Vivete la vostra vita con me. Che non vi capiti di guardare i Navigli più di quanto non guardiate il vangelo! E per darci la persuasione che di lui ci possiamo fidare, Gesù riserva ai suoi amici un’altra delle sue grandi affermazioni. Io sono. Ogni volta che Gesù parla di sé in questo modo, sta evocando il nome santo di Dio, la sua presenza, la sua alleanza, come ha fatto con Mosè. Io sono colui che sono. Che vuol dire: ci sono, ti puoi fidare, ho ancora tante cose da dirti e da darti. E a queste parole di rassicurazione, Gesù aggiunge tre immagini. Io sono la via, la verità e la vita.

Ed ecco allora l’immagine di oggi. Van Gogh, Sentiero di notte in Provenza, 1890. Van Gogh, Sentiero di notte in Provenza. 1890 Museo Kröller-Müller, Otterlo, Paesi Bassi È l’anno di morte del pittore, quindi questo è uno degli ultimo lavori, quando l’artista si trovava a St. Remy, nella primavera di quell’anno.

Van Gogh non ha in mente il vangelo, tanto meno la pagina che abbiamo appena ascoltato, ma ci fa capire con la sua esperienza e la sua riflessione artistica, come il vangelo ci possa stare in mezzo, anche alle nostre inquietudini.

1.    Anzitutto osservate la strada. Su di essa si muovono due uomini a piedi e, più lontana, una coppia in calesse. La strada, come la vita ha varie velocità e intreccia i cammini degli uomini. Osservate poi i movimenti e i panorami: è una strada sinuosa, sterrata, fatta di cielo e di terra, di paesaggi, di un canneto, di una casa. Una casa che sembra dire: esci di casa e fa della strada la casa. E poi strada di cui non si vede l’origine, né la destinazione, non perché non siano importanti, ma perché non di meno lo è il preciso tratto che stai percorrendo. La fede che Gesù ti chiede è nell’abitare la strada con lui, qualunque sia il tratto di strada che la vita ti riserva. E poi di sentire che lui è strada per la tua vita. Io sono la via. Non perché ci sono i capitelli o le chiese, ma perché lui è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Dov’era Dio nella pandemia? Con tutte le risorse spirituali che abbiamo scatenato? Ci aspettavamo il miracolo. Ma il miracolo è stato nel non crederci diversi dagli altri uomini, il miracolo di chi ti vive accanto, il miracolo della solidarietà, della preghiera, di chi si prende cura di te perché scorge le tue difficoltà. Il miracolo della strada.

2.    Altro aspetto affascinante del dipinto è il cielo. Il blu cobalto che piace tanto a Van Gogh. E in questo cielo, da un lato la luna: una falce di luna crescente. Dall’altro una stella, anzi, due stelle, una più grande e una più piccola, che splendono quasi impazzite di luce. Gli astronomi pensano che quelle due stelle siano Venere e Mercurio, che brillano verso il 20 aprile nel cielo della Provenza. Da un lato luce riflessa, dall’altro quella sorgiva. La verità è attingere alla sorgente della luce. Chi fa la verità viene alla luce, assicura Gesù. E la verità è lui. Lasciati illuminare. Che vuol dire: sii meno perentorio nelle tue affermazioni, rifletti, abbi pazienza. Sta attento a quello che ascolti, verifica la fonte: non tutti sanno tutto. E poi prova a ricordare qualche versetto di vangelo e a collegarlo alla vita. In questo tempo alcuni genitori che aspettavano il battesimo dei loro figli e magari con l’idea di fare una bella festa, mi stanno dicendo: Don, la festa è il battesimo. Il resto quando si potrà. Mi pare sia proprio la sfida della verità. Brilla il Signore e brilla anche quel sacramento in cui si fa azione. Due stelle che illuminano la nostra vita di un figlio che cresce.

3.    E infine quel cipresso, albero che Van Gogh amava e che ritorna frequente nei dipinti. Alto solenne, è un’immagine di vita che va oltre la vita. Non a caso i cipressi sono l’albero dei cimiteri, quasi a indicare cammini ascensionali. Io sono la vita, dice Gesù. Ma, con Van Gogh, sembra interrogarci: che vita cerchi? Guarda in alto e recupera le misure più alte della vita, recupera il rispetto per ogni vita. Abbiamo capito che la morte vera è la solitudine e che qualche volta arriva anche prima di andarsene, quando sei fuori gioco, quando sei escluso, quando sei scarto. La liberazione di Silvia Romano ci mette di fronte a una bella pagina di vita: quella di questa ragazza, ma anche quella di coloro ai quali lei è andata a portare vita, con il suo volontariato. È in questa vita piena, audace, controcorrente che il Signore ci invita a credere e a operare, ovunque ci sia un appello per sottrarre l'uomo a mani nemiche della vita, ma anche dove la vita non si accontenti della terra e cerchi orizzonti più alti, fatti di cielo. 

Non rimanere nei Navigli, fermo all'apericena. Mettiti sulla strada di Dio, guarda oltre e in Gesù riconosci la via, la verità e la vita.

domenica 3 maggio 2020

Omelia 3 maggio 2020


Omelia Quarta domenica di Pasqua – 3 maggio 2020


Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Ladri e briganti erano personaggi ben conosciuti dal Caravaggio che, frequentando i bassifondi e le taverne della Roma del ‘600, incrociava varia e provocante umanità, che poi finisce nei suoi dipinti. Del resto, lo stesso Caravaggio era un personaggio piuttosto suscettibile, scontroso e veloce anche con le armi, dato che nel 1606 colpisce a morte un avversario durante una rissa. Come a dire: il bene e il male convivono dentro di noi e i quadri che dipingiamo, col pennello o con le parole, hanno sempre riscontro nel cuore di ciascuno. E l’immagine di questo mondo articolato e contrastante appare in un quadro del primo Caravaggio, dipinto tra il 1593-95 e conservato a Roma nei Musei Capitolini. La buona ventura. Caravaggio, La buona ventura - Roma Un soggetto che poi verrà riprodotto due-tre anni dopo, in un’altra versione, conservata al Louvre. Noi ci soffermiamo sulla prima, che forse esprime una maggiore immediatezza. 

Vediamo due personaggi, entrambi agli inizi della stagione adulta della vita. A sinistra una giovane donna, con il turbante, vestiti ampi, tipici dell’abbigliamento zigano. A destra un giovane uomo, giacca damascata, colletto e polsi ricamati, i guanti, un cappello piumato, una spada: è un nobile del ‘600, uno che pensa di essere sufficientemente sicuro per la posizione sociale, per i soldi che ha, per le armi che riesce a maneggiare. Osserviamo i volti e gli sguardi: gli occhi si incrociano, ognuno guarda in quelli dell’altro. 
Gli occhi del giovane, senza riuscirci, cercano di dominare una seduzione, da parte della donna e di quello che sta annunciando, come se volesse dire: sentiamo cosa mi racconti, non riuscirai a ingannarmi. In lui osserviamo curiosità, attrazione, una certa supponenza.  Lo sguardo della zingara, invece, sicuro di sé, prevale su quello del suo interlocutore: lo cattura con gli occhi, gli sorride e quasi lo ipnotizza. Ma il problema non è in quello che sta dicendo, ma in quello che sta facendo. Guardate le mani di questa donna: mani abituate ad un gioco sporco, come dichiarano le unghie sporche della mano sinistra. E infatti, con gesti di grande scaltrezza, di cui il giovane manco si rende conto, gli sta sottraendo l’anello d’oro che porta al dito. Una pennellata di giallo che si fa fatica a vedere, ma ben documentata dai restauri dell’opera nel 1985. Le dita si muovono abilmente: accarezzano, coprono, muovono e l'anello viene sfilato.

Ecco allora il senso delle parole di Gesù. Attento a chi si avvicina alla tua vita, al tuo recinto. Non sempre vuole il tuo bene: vuole i tuoi soldi, la tua attenzione, le tue convinzioni, la tua libertà. Oggi è la Giornata delle Vocazioni, la giornata per pensare in grande la vita, per farne un dono. Stai attento a chi ti seduce, a chi ti convince che l’esistenza riuscita sia quella dello youtuber o dell’influencer a indicare tendenze, a provare ristoranti, a mostrare balletti o inedite performances. Forse c’è qualcosa in più: da cercare e da custodire. 
Gesù presenta un’altra figura cui rivolgere la vita: quella del pastore. Il pastore che è lui e forse il pastore che possiamo diventare anche noi. Come si riconosce questa fisionomia?

1.    Il pastore entra dalla porta. Anzi è lui stesso la porta. Io sono la porta delle pecore. Stai attento alle porte che apri e alle porte che chiudi. Perché in esse si gioca l’accoglienza di Dio e di una vita vera. Mi ha colpito in questi giorni la notizia che in Piemonte è stata sgominata una banda per lo sfruttamento di lavoratori immigrati clandestini tra le viti del Monferrato. E a Prima pagina il 1 maggio, festa del lavoro, un insegnante di italiano per stranieri raccontava il caso di due ragazzi africani che vengono in Italia, a Forlì e iniziano a lavorare tanto da essere insostituibili nelle loro aziende. Stesso percorso per entrambi. Poi arrivano i decreti sicurezza. Un ragazzo ottiene la cittadinanza, l’altro no. Inspiegabilmente. E siccome non si può tornare a casa a motivo della pandemia, questo ragazzo si trova immediatamente clandestino, lavora in nero, paga l’affitto in nero. È condannato all’invisibilità e alla povertà. Ecco la porta che il pastore ci invita ad aprire. Dove non ci sono solo dei ragazzi che cercano vita: c’è lui alla porta, anche in questo nostro Paese che ha bisogno di una manodopera di cui non disponiamo. Fa’ entrare il pastore. 

2.    Il pastore chiama le pecore per nome ed esse ascoltano la sua voce. È quello che lo differenzia dal ladro e dal brigante. Un’immagine che ci suggerisce il desiderio della relazione. Gesù non vuole sudditi, ma discepoli, fratelli, capaci di ascoltare la sua voce e di conoscerlo mediante la voce. In questi giorni ci sono state varie polemiche sulla messa, sulla riapertura delle chiese. E ci siamo scatenati, da una parte e dall’altra. Da una parte i difensori della sicurezza che dicono che si può pregare anche in cucina. Dall’altro quelli che avvertono la mancanza dell’eucaristia e vorrebbero partecipare di persona all’appunta-mento domenicale. E abbiamo innescato una polemica senza renderci conto che anziché ascoltare il Signore, la sua voce, stavamo ascoltando noi stessi, le paure, le pretese, le rivendicazioni. Ascoltare il Signore. Che parla anche con la voce dei nostri ragazzi che oggi avrebbero fatto la loro prima comunione: Caro Gesù sappiamo che tu sei sempre con noi e anche nei momenti più tristi e bisognosi, sei pronto a sostenerci. Noi aspetteremo e quando sarà il momento riceveremo la prima comunione. Intanto ti preghiamo di guarire gli ammalati. Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. 

3.    Infine riconosci il pastore perché le sue pecore le conduce fuori e cammina davanti ad esse. Non è un Dio che arreda recinti ma apre orizzonti. Questo è un tempo per ripensarsi in uscita. Non è un invito a uscire di casa, come tanto vorremmo, ma a venir fuori in quella novità che il Signore ti chiede, anche quando sei a casa. Vieni fuori con la tua intraprendenza, con la tua generosità, con la tua voglia di giocarti, con i sì nei quali consegni il meglio di te. Non abbiamo bisogno di chi racconta la sua insulsa giornata di lockdown ai followers ma di gente capace di spendersi per gli altri, di camminare davanti agli altri sollevando il velo dell'indifferenza e della mediocrità. Come d. Giuseppe Berardelli, prete di Bergamo, che rinuncia al respiratore procuratogli dalla sua parrocchia, per darlo a un paziente più giovane, in difficoltà. Ecco un uomo che è uscito, che ha camminato avanti, indicando un di più di vita, speranza, di umanità. Dove cammini? La grande domanda non è "quando si potrà uscire di casa", ma "che ci vado a fare fuori di casa". Portare vita, suggerisce Gesù, vita in abbondanza.