sabato 29 giugno 2013

Omelia 30 giugno 2013

Tredicesima domenica del Tempo ordinario
L’infinito viaggiare. La prova di italiano della maturità di quest’anno proponeva agli studenti di riflettere su un testo dello scrittore triestino Claudio Magris. Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi.
Il viaggio come metafora della vita, come possibilità di ritrovare autenticamente se stessi, oltre le frontiere egemoniche che talora sbarrano la strada alla propria verità. Ecco perché ad un certo punto Gesù propone un viaggio ai suoi discepoli: per aiutarli a ritrovare il senso dell’esistenza, per uscire dalle stagnazioni in cui si perde di vista la ricchezza dell’incontro con gli altri e con Dio, per ritrovare l’appello dell’infinito quando vorremmo inscatolare i significati.
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Un cammino su cui non si transige: preparato, risoluto, rivolto ad una meta ben precisa. È il grande viaggio che dà forma all’esistenza cristiana per non correre il rischio di inscatolarla o di farla corrispondere a quello che Dio non ha in mente. Di che viaggio si tratta?
1.    È un viaggio di tolleranza. Quando i Samaritani rifiutano Gesù, Giacomo e Giovanni sono tentati dall’intransigenza: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Ma Gesù si volta e li rimprovera. Il viaggio è l’ostinata ricerca di un incontro anche quando si fa l’esperienza contraria. Scrive Magris nel medesimo testo: Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, […] si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo. La visita della ministra Kyenge a Giavera ci ha messi ancora una volta di fronte alla questione dell’integrazione. C’è sempre il rischio, in questi casi, di cedere a toni entusiastici o a quelli allarmistici aprendo la strada a fuorvianti e ideologici unilateralismi. Dobbiamo invece confrontarci con la situazione reale, con la presenza di persone che sono arrivati da altri contesti per le loro e le nostre necessità, con ragazzi e giovani di seconda generazione che talvolta non hanno mai visto il paese dei loro genitori. Che ne facciamo? Invochiamo ora il fuoco dal cielo che li distrugga? Ricordate quando a scuola, studiando il Risorgimento, si parlava di fare l’Italia e di fare gli italiani? Forse anche oggi ci troviamo di fronte a questa sfida e non possiamo raccoglierla se non percorriamo strade di accoglienza delle persone e della condivisione di un progetto con cui esse possono stare insieme.
2.    Un altro aspetto del viaggio è l’essenzialità. Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Finché leghi la vita a inutili zavorre non vai da nessuna parte. Il tentativo di papa Francesco di intervenire su una questione complessa come quella dello Ior ci dice tutta la ricerca da parte della chiesa di non appesantirsi, di mantenersi libera rispetto alla seduzione di costruirsi un rifugio terreno, la propria tana. Ma comprendiamo anche che queste penose vicende ecclesiali possono essere anche una cortina fumogena sulla nostra disponibilità a viaggiare e sulle nostre pesantezze. Le centinaia di ragazzi in coda che in questi giorni si sono presentati fin dalle prime ore del mattino in un noto negozio di Milano per assicurarsi un braccialetto che a sua volta darà diritto ad accedere ai saldi del negozio sono l’icona di un appesantimento dove a dettare le regole della vita è l’immagine e la firma senza le quali non hai diritto di cittadinanza. Sentite come sono provocanti le parole di Paolo: Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi. Non lasciatevi imporre il giogo della schiavitù. Ritrova l’essenzialità e ritrova la libertà.
3.    Infine il viaggio ridefinisce le relazioni. Signore, lascia che seppellisca mio padre… Lascia che mi congedi da quelli di casa…Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il Regno di Dio. Parole che non vogliono tradire gli affetti ma che ci presentano l’esigenza di viverli in maniera liberante, nella signoria di Dio. A volte noi stabiliamo relazioni che sono dei sequestri: catturiamo o ci lasciamo catturare, talora mascherando l’operazione con una tinteggiatura di legittimità e di bei sentimenti: La mamma è sempre la mamma: sì, ma ormai tuo figlio ha 50 anni e una sua famiglia. Questa persona ha bisogno di un sostegno: sì, ma intanto ti sta sottraendo a tuo marito e ai tuoi figli. Ambito delicatissimo, la stanza di una persona che è mancata: C’è ancora il suo vestito sopra il letto. Ma la relazione in Cristo risorto non ha niente da dirti?
Ecco il senso del viaggio: serve per andare oltre le frontiere tortuose dei nostri inferi, come dice Magris. Ma quelle frontiere non le varchi da solo. Lo fai solo se cammini con il Signore e ti lasci condurre da lui.

Omelia 23 giugno 2013

Dodicesima domenica del T. O.

Non sempre una domanda chiede una risposta. Spesso chiede di essere dispiegata, affinché ceda quello che ha di più essenziale e dischiuda i riferimenti che si aprono quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce. La risposta, infatti, è solo l'ultimissimo passo del domandare. E una risposta che congeda il domandare annienta se stessa.
Sono parole del filosofo tedesco Martin Heidegger, (Nietzsche, 1961). Parole che ci fanno capire l’essenza del cristianesimo che, pur proponendosi come verità rivelata, non esaurisce la domanda dell’uomo nei confronti di Dio. E la domanda che risuona nel vangelo di oggi ben ci aiuta a capire quello che stiamo dicendo. Chi è Gesù? Duemila anni di storia cristiana, i pronunciamenti dogmatici, le più ardue speculazioni teologiche, le rappresentazioni artistiche, le più devote esperienze spirituali, niente e nessuno esaurisce il mistero di Gesù Cristo. Ed ogni uomo, credente o meno, è posto di fronte all’inquietante quesito. Chi è Gesù? Cerchiamo dunque di rimanere anche noi nella forza provocante di questo interrogativo per appropriarci – come dice Heidegger – di quello che segretamente custodisce.
1.    L’interrogativo si dà in forma avversativa. Ma voi. Poco prima infatti Gesù aveva chiesto ragione del pensiero della gente, raccogliendo variegate opinioni, non del tutto incomprensibili nel contesto di allora. Gesù però cerca una risposta differente, non riconducibile al talk-show. È un ma che dice una distanza e un’esigenza di fare i conti con una storia pazientemente costruita, con una frequentazione nella quale i discepoli hanno conosciuto qualcuno e qualcosa in maniera differente dalle folle. Ecco la prima direttrice per conoscere Gesù, per abitare il suo mistero: raccogli la tua storia con lui, la frequentazione che ti appartiene e ti ha messo in contatto con la sua vita, la sua parola, i suoi gesti. La rapida successione delle esperienze e il vaglio culturale che ne decreta talvolta la loro inammissibilità ci porta a credere che si tratti di antiche suggestioni che devono lasciar spazio a più moderni criteri di giudizio, magari desunti dall’ultimo libro di Dan Brown. Ma voi, ragionate con la testa di chi?
2.    Interessante è anche il fatto che la domanda venga posta al plurale: voi. E Pietro si fa interprete di questo voi, con la sua affermazione: Il Cristo di Dio. Ciascuno di noi al Signore è chiamato a dare la propria personale risposta di fede. Nessuno può sostituirsi alla fede dell’altro. E tuttavia la domanda di Gesù trova la sua chiarezza unicamente se rimane aperta alla condivisione credente. Riesco a dire chi è Gesù se mi arricchisco della fede dell’altro. La fede della Chiesa, la fede del successore di Pietro, la fede delle persone che mi hanno voluto bene. Non sono le speculazioni che ci generano come credenti ma le relazioni, quelle che ostinatamente ci pongono tra le mani un’eredità custodita nell’insieme. Se ci si allontana dal voi ecclesiale non si trova Gesù Cristo, ma le idee su di lui che possono trasformarsi anche in ideologie. Pensate agli stessi vangeli. Ci sono state delle epoche storiche segnate dal razionalismo che hanno preteso di separare l’autentica vita di Gesù, le sue parole e i suoi gesti da quello che era ritenuto un rivestimento operato dai suoi discepoli. Alla fine di questa operazione di pulizia ci si è trovati con un Gesù irreale e inconsistente, meno credibile di quello che si voleva mettere in discussione. Perché? Perché i vangeli sono stati scritti nella fede della chiesa e solo la salvaguardia di questo voi ci consente di conoscere Gesù.
3.    Ma dopo che Pietro ha dato la sua risposta, la domanda di Gesù continua. I discepoli sono posti di fronte ad una serie di riferimenti che nuovamente li interrogano: Il figlio dell’uomo deve soffrire molto. Non basta affermare che Gesù è il Cristo, il Messia atteso: bisognerà riconoscerne l’identità nell’oscuro mistero della pasqua, quando le tenebre e la morte sembrano avere il sopravvento. La domanda su Gesù Cristo rimbalza allora in tutte quelle situazioni dove ci pare di registrare la sua assenza, dove c’è una croce simile alla sua, dove siamo chiamati ad affermare: dopo tre giorni risusciterà. Il cristianesimo è la persistente domanda rivolta a Dio riguardo le inquietudini umane, ma è anche la tenace attesa di una risposta che non tarda ad arrivare in chi come Gesù, prende ogni giorno la croce e lo segue.  

lunedì 17 giugno 2013

Omelia 16 giugno 2013

Undicesima domenica del T. O.

«Non c’è più religione!». Una frase che può dire la perdita di riferimenti importanti, ma anche un propizio cambiamento di orizzonti. La religione, infatti, è importante: essa dà struttura all’incontro con Dio e aiuta a riconoscerne il volto. Ma essa può diventare una gabbia se non consente a quello stesso Dio di manifestarsi, di prendersi le sue libertà, di condurre su terreni inattesi. Ecco, talvolta l’esperienza religiosa anche per noi funziona così: diviene una prigione dorata, rassicurante, dove non cogliamo più la novità di Dio. È quello che avviene in casa di Simone il fariseo.
Con molta probabilità siamo a Nain, dove Gesù aveva restituito il bambino a sua madre. Una scena che finiva con un abbraccio per dire che questo è il desiderio di Dio: di abbracciarti, di stringerti a sé. Ma questa logica è ancora estranea a quel fariseo che ha invitato a pranzo Gesù: lui conosce la religione dei puri e sa che non ci si deve contaminare, specialmente con una donna di dubbia moralità.
Gesù approfitta della situazione per denunciare una religione che ha perso se stessa e per indicare ai discepoli un triplice passaggio.

1.    Porta tutta la vita di fronte al Signore. Ci fa riflettere innanzitutto l’audacia di questa donna che osa varcare dei confini prestabiliti. È vero che ai tempi di Gesù, durante i banchetti, le porte rimanevano aperte per dar modo ai passanti di curiosare e di elogiare la prodigalità del padrone di casa. Ma una simile donna, ben conosciuta nella piccola Nain, non doveva neppure pensare di avvicinarsi. Costei invece, sembra intuire ormai nuovi confini, che non le impediscono, nonostante la sua poco onorevole attività, di trovare accoglienza presso il Signore. Ecco, il passaggio da compiere per uscire dalla religione fine a se stessa: porta al Signore tutta la tua vita, anche quelle vicende che ti sembrano poco onorevoli, quelle che in genere omettiamo o camuffiamo nella confessione. Entra con tutto te stesso a casa sua perché la sua salvezza ti raggiunga integralmente. A Gesù non interessano anime disincarnate ma, come professiamo nel credo: per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo. O vuoi che la sua salvezza ti raggiunga a metà?

2.    Supera il pregiudizio di essere migliore. Un secondo tratto della religione che Gesù ha in mente è la sospensione del giudizio e della condanna nei confronti degli altri. Simone il fariseo segretamente giudica la donna: Se costui sapesse che tipo di donna è questa… Quando si fa un’operazione di questo genere, nascono due problemi. Mettendo in evidenza o concentrando l’attenzione sui misfatti degli altri si finisce per ritenersi migliori di loro. E così si creano distanze, lacerazioni, luoghi comuni, capri espiatori: ci isoliamo in una solitudine pretenziosa e arroccata che ci fa perdere il contatto con la verità di quello che siamo. Il male appartiene a qualcun altro! Ma ciò che è più grave è che in questo modo ci priviamo dell’esperienza più bella che possiamo fare: quella della misericordia di Dio che incontra la miseria e non la presunzione. Salendo sullo sgabello, all’altezza della nostra autostima, perdiamo l’appuntamento con Dio che invece è sceso a terra, anzi sotto terra, pur di poterci raggiungere. Noi in alto e lui in basso: come lo possiamo incontrare e accogliere? Qual è il guadagno autentico della vita? Il guadagno aumenta in relazione al debito condonato. E più te ne rendi conto, più aumenta la riconoscenza e la gioia. Dio non sa che farsene delle tue perfezioni. Portagli la tua miseria perché su di essa agisca la sua misericordia. Scoprirai il cuore di Dio e forse anche gli altri li sentirai più vicini.

3.    Trova il linguaggio dell’amore e della festa. Ma la peccatrice del vangelo stabilisce un’altra distanza: introduce nel rapporto con Dio i gesti dell’affetto, della gratuità, della festa. Portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Carezze, baci e profumo sui piedi del Signore. Anche le donne nel giorno di pasqua stringeranno quei piedi. Sono i piedi che hanno percorso le strade degli uomini, piedi che hanno portato la bella notizia di Dio, il suo perdono, il suo abbraccio. E se Dio porta un abbraccio, vuole essere abbracciato! Che vuol dire? Vuol dire che la nostra religione diviene autentica quando riempie d’amore il nostro rapporto con Dio. Dio ci ha amato e quell’amore si trasforma nella possibilità di amare lui! Simone il fariseo perfezionista del religioso vive la religione delle osservanze, la donna la religione dell’amore. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece non ha cessato di baciarmi i piedi… Questo che cerca il Signore. Prova a mettere un po’ d’amore: nella tua preghiera, nella tua messa, nella tua confessione, nell’ascolto della Parola. Forse continueremo a fare i conti con le nostre infedeltà e le miserie che conosciamo, ma forse ci sarà anche per noi qualcuno che ci dirà: sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato.

Omelia 9 giugno 2013

Decima domenica del T. O.

La morte di quel quattordicenne che nei giorni scorsi se n’è andato nel sonno ci ha colpiti profondamente e ci porta a interrogare il vangelo che abbiamo appena ascoltato. In questa Nain quotidiana dove qualcuno ci lascia in maniera improvvisa e inspiegabile vorremo che il Signore fosse accanto a noi e ripetesse le sue parole di vita: «Ragazzo, dico a te, alzati!». E invece vediamo che le cose non vanno così e noi ci misuriamo con il dolore del distacco e la fatica di capire. Come vive il cristiano di fronte alla morte?

1.    La prima prospettiva ci porta a riconoscere la vicinanza di Dio. Il vangelo ci presenta l’incrocio di due cortei: quello di Gesù con i suoi discepoli e una grande folla e quello del funerale con la madre affranta e molta gente della città. Gesù cammina in mezzo alle vicende umane: non è un estraneo, né si estranea. E alla fine del racconto non c’è più distinzione: un corteo unico loda e benedice il Dio della vita. Il cristiano vive la morte con la stessa persuasione. Mentre essa ci inquieta con la sua macabra rappresentazione e ne condividiamo lo sconcerto umano, non dimentichiamo che abbiamo conosciuto un Dio che abita tale evento e da credenti ci chiama a rispondervi. A quale corteo ti stai accodando? La stagione culturale che stiamo vivendo ci sta mostrando tutta la fatica della morte e del morire. Se il Trionfo della morte, rappresentato in innumerevoli affreschi, voleva metter in guardia l’uomo medievale dal pericolo di sentirsi padrone della propria vita e aprirlo alla speranza eterna, oggi alla morte è accordato un nuovo trionfo: quello del nostro disincanto, quello di considerarla l’unica chance per le fatiche del vivere, quello di favorirne l’azione per cancellarne tutte le domande. Anche noi, vicino alla porta della città, ci ricordiamo che il vangelo che abbiamo ricevuto non segue un modello umano, né l’abbiamo ricevuto o imparato da uomini. Abbiamo ricevuto il vangelo della vita.

2.    Come funziona la vita di Dio? Essa comincia dalla compassione e continua con una serie di gesti e di parole. Gesù si avvicina, tocca la bara infrangendo la legge della purità che rendeva immondo chi avesse accostato un morto. C’è un contatto reale, anticipo di quel confronto con la morte che Gesù avrebbe stabilito con la propria morte. E quel verbo “alzati” [egheiro] sarà quello stesso che il Nuovo Testamento ripeterà per 144 volte per dire la risurrezione di Gesù. La morte non è cancellata dai crocevia umani, ma Gesù ti fa capire che è stata vinta, che non è più intoccabile. Negli abissi della morte Cristo ne ha distrutto il potere. E se la morte sta ancora sull’uscio della porta è perché in essa l’uomo partecipi della stessa battaglia. Perché trovi la verità del vivere e non si senta onnipotente. Perché ricordi che la vita è sempre dono e non conquista. Perché quel dono lo riceva da colui che glielo può dare. Dio che ci ha creato senza di noi, non ci salva senza di noi e niente più della morte ci aiuta a ricordarlo. Ecco perché Dio non la spazza via dalle nostre vicende umane: forse perché è l’ultima occasione che ci dà per essere noi stessi.

3.    Ma, dopo che Gesù ha riportato in vita quel bambino, compie un altro gesto. Lo restituì a sua madre. Perché continui ad averne cura, perché sia partecipe di una nuova cultura di risurrezione e di vita. Certo, anche a noi piacerebbe poter fare lo stesso gesto quando una madre perde un figlio. Ma in questo gesto di amore Gesù ci sta dicendo: ricordati che quello che distrugge il potere della morte è l’amore. Opera in questa direzione e vedrai che la morte ha i giorni contati. Pensate a quella donna inglese che nei giorni scorsi è intervenuta a Londra dopo l’omicidio del soldato britannico, parlando con l’assassino che ancora teneva in mano il coltello sanguinante, impedendo che la strage continuasse e mettendo a rischio la propria vita. Ha detto due frasi che hanno molto colpito l’opinione pubblica: «Ho visto un ragazzo sconvolto». «Meglio io che un bambino». Anche in questo caso è l’amore di una madre che viene attivato. Madre che non vede un fanatico omicida, ma un ragazzo disorientato. E madre che pensa ad altri bambini come se fossero suoi, tanto da prendere il loro posto. Ecco in che modo sconfiggiamo la morte anche se ci appare col machete in mano: vivendo gesti d’amore. Perché qui gesti né si pérdono, né ci pérdono.

Il cristianesimo non è buoni consigli. È annuncio di risurrezione e di vita nella pagina più terribile che possiamo trovare: quella della morte. Continueremo a misurarci con tale realtà ma con la consapevolezza che la danza macabra può finire quando inizia la danza dell’amore.