mercoledì 22 febbraio 2023

Omelia esequie Mirella Visentin

 

Funerale Mirella Visentin (22 feb. 2023)

(1Re 19, 9-13 / Gv 19, 17-18.25-30)

Esci e fermati alla presenza del Signore. Anche noi, come Elia, in questi due mesi abbiamo cercato la presenza del Signore. L’abbiamo pregato per Mirella, per la sua famiglia, per noi che a stento riuscivamo a capire e ancor meno a rassegnarci a quanto stava accadendo. Avremmo voluto che il Signore, come il vento, spazzasse via le nostre paure, l’incertezza del vivere, l’inquietudine di fronte alla provvisorietà dei giorni. Ma il Signore non era nel vento. Avremmo sopportato anche un terremoto se esso, facendo sobbalzare la terra, avesse inghiottito un male subdolo e insidioso, nascosto in misure infinitesimali, resistente a qualunque terapia. Ma il Signore non era nel terremoto. Avremmo voluto che la nostra preghiera fosse come fuoco, come quello delle tante candele che abbiamo acceso per Mirella, capace di ardere della rassicurazione che Dio ci ascolta. Ma il Signore non era nel fuoco. Dio ci dava appuntamento altrove, lontano dalla spettacolarità e dalle nostre comprensibili attese. Dio apriva una strada differente, affidando le sue risposte al sussurro di una brezza leggera. Quella brezza udendo la quale Elia si coprì il volto. Perché non hai bisogno di vedere quando sei avvolto dal mistero. E anche noi oggi, ci lasciamo raggiungere da questa brezza ricca di Dio che discretamente scombina le nostre pretese e ci suggerisce la presenza del cielo.

1.  Brezza è l’esistenza discreta e pacata di Mirella. Mai chiassosa, mai esagerata, sempre improntata a gentilezza e semplicità. Brezza come quella che lei respirava in campagna, curando un piccolo appezzamento familiare, un mondo senza artifici che le piaceva e portava con sé, recando anche nell’ambiente di lavoro, in ospedale, i tratti della schiettezza e dell’essenzialità. Il malato al centro delle sue prestazioni, la difesa di una medicina fatta di prossimità e non solo di competenza, una cardiologia capace di intercettare anche i battiti segreti del cuore, quelli che onde e tracciati non sempre riescono a catturare. Mirella nel suo lavoro c’era fino in fondo, senza risparmio, con verità, franchezza nel dire le cose, disponibile a dare una mano, a scambiare un turno, a farsi carico anche di ciò che poteva fare chi subentrava nell’orario di servizio dopo di lei. E sapeva rassicurare, incoraggiare, sostenere, fosse un paziente del suo reparto o qualcuno che andava a trovarla a casa per un consiglio o per condividere una preoccupazione. Brezza non sempre legata a diagnosi, che continuava in famiglia e nel volontariato, con tempo ricco di confidenza e di premura dato ai suoi nipoti e con la disponibilità ad esserci anche nella sagra della Crocetta, per dare una mano e per stare un po’ insieme. La brezza di un quotidiano ricco di semplicità evangelica e di altruismo.

2. Ma la brezza di Mirella era anche quella della sua fede tenace e operosa, accompagnata da preghiera e costante partecipazione alla messa. Mai mancata, fino allo scorso dicembre, perché quell’appuntamento condiviso con la mamma e la zia sosteneva la sua settimana. Lei era poi capace di gesti dal sapore antico come il pellegrinaggio che aveva fatto a piedi, fino alla Basilica del Santo lo scorso anno. Siccome erano subentrati alcuni problemi di salute, aveva percorso un primo tratto da Godego a Camposampiero. Poi era rientrata a casa e il giorno dopo aveva coperto Camposampiero-Padova. La fede è una brezza buona che ti accompagna, che dà senso ai tuoi giorni, che ti ricorda che nel cammino a volte articolato della vita non sei da solo e che qualcuno ha cura di te. A cosa serve una messa? A collegare la terra al cielo, a ritrovare lo sguardo di Dio, a ricordare che Gesù è risorto e non sarà la morte a prevalere su di noi.

3. La terza brezza è proprio questa. Quella che ha sospinto Mirella nei giorni difficilissimi della sua malattia. Era il 18 dicembre, quarta domenica d’avvento, come se anche l’attesa terrena fosse compiuta. Mirella era venuta alla prima messa, poi a casa aveva allestito le luminarie natalizie e preparato i regali. Ma il Natale che il Signore le preparava era un altro, nell’abbraccio con lui e nella condivisione della sua passione. Perché sono stati giorni non privi di sofferenza, di incertezza clinica, di terapie che non funzionavano. Mirella era del mestiere e sapeva bene quello che stava succedendo. Mai però un accenno di ribellione, di inquietudine, ma grande lucidità e compostezza tra due riferimenti che l’hanno accompagnata nel grande viaggio: il Signore e la sua famiglia, in particolare sua mamma Giulia che ogni giorno le è stata accanto con un bene infinito. Mirella, che già si era confrontata a diciott’anni con un tumore, diceva di aver vissuto due volte e che era il momento di andarsene. E la vicinanza della mamma era forse la garanzia di una nuova nascita che di lì a poco sarebbe avvenuta. Mamma, lasciami andare. Mamma ti voglio bene. Mirella ha chiesto e ricevuto l’unzione degli infermi e finché ha potuto ha fatto la comunione. E se ne è andata mentre la mamma le stringeva la mano perché il Signore c’è allo stesso modo, nella mano di un prete che ti unge di olio santo e nella mano di una madre che ti unge di tenerezza. E quando capita una cosa del genere capisci che la brezza di Dio può esserci anche nell’ultimo respiro della vita, perché esso è stranamente somigliante a quello di Gesù, quello con cui si consegna al Padre dei cieli a sua Madre e ai suoi discepoli sulla terra. Chinato il capo, consegnò lo spirito. La brezza di Elia  continua nella brezza dello Spirito, quello che fa nuove tutte le cose. Raccogliamo anche noi questa brezza buona. Sospinga Mirella all’incontro con il Signore risorto, sia una carezza affettuosa e piena di consolazione per i suoi cari, sia soffio di responsabilità per chi di Mirella ha conosciuto l’impegno e la dedizione, sia invito alla speranza per tutti noi.

sabato 4 febbraio 2023

Omelia per le esequie della Mamma

 

Esequie Mamma Gioconda Vielmo Omelia – 4 febbraio 2023

Rm 8, 28-30 - Gv 2,1-11 

 «Fate quello che lui vi dirà». Le parole di Maria ai servi del banchetto di Cana sono quelle che anche mamma ascoltava e suggeriva a noi figli in una vita mossa da un forte senso di Dio e dal desiderio di cercare sempre la sua volontà, il suo stile, le scelte più opportune, anche quando potevano costare un po’ di più. Era l’aria che aveva respirato in famiglia e in parrocchia a Godego, fin da piccola, in un ambiente ricco di fede che sapeva indicare le strade del bene, dell’onestà, della preghiera, del sacrificio, del timor di Dio.

La presenza di uno zio sacerdote, poi vescovo, che ogni tanto rientrava a casa, portava il senso del sacro, della vita di fronte al Signore; il legame e la frequente corrispondenza con la zia Gesualda, monaca di clausura, aiutavano una ragazza che cresceva, che si sarebbe fidanzata e avrebbe costruito una sua famiglia, a individuare le cose importanti, a fuggire quelle pericolose, soprattutto a sentirsi sempre in compagnia di Gesù e della Vergine Maria. E il Santuario di Monte Berico, meta di frequenti pellegrinaggi, di Avemarie e di candele accese, era il luogo cui tornare e da cui ripartire, fonte cui attingere non solo un sorso d’acqua ma il senso stesso dei giorni, ancora una volta nascosto in quelle parole: «Fate quello che lui vi dirà».

Che cosa ha detto il Signore alla mamma? Quali parole le ha suggerito?

1.    Le ha detto anzitutto parole di famiglia, quelle che l’hanno portata a condividere con il papà un progetto ricco di amore, fedeltà, di responsabilità. Le scriveva la zia suora nel Natale del 1960, quando la mamma era in Svizzera a lavorare: «Nel tuo fidanzamento sii sempre seria, gentile e buona, non apparentemente, ma concretamente. Ti raccomando, come al principio così sia la fine». E la mamma c’è stata, dal principio alla fine, con la concretezza di chi non amava a parole ma con i fatti, di chi timbrava il cartellino ma solo per passare dalla fabbrica al lavoro di casa, di chi non aveva paura dei sacrifici se diventavano opportunità per i figli. Poche spese fuori posto, per lei e per noi. La ricchezza andava cercata altrove: facendo il proprio dovere, custodendo il contatto con il Signore e mantenendo la concordia. Le gioie per la mamma erano queste, insieme a quella, di vederci tutti a tavola, fino agli ultimi giorni, in quelle nozze di Cana del quotidiano dove proprio le madri sono garanzia del vino buono custodito fino alla fine. Non tutto filava liscio, perché la vita a volte è faticosa, perché gli imprevisti non mancano, perché non sempre ci si capisce. E anche alla mamma a volte venivano i fumi; ma, senza che queste situazioni durassero a lungo, cercava e indicava sempre strade di pace, di comprensione in quella tessitura segreta del bene in cui le ragioni non prendono il posto della verità e la considerazione della propria fragilità aiuta a comprendere anche quella degli altri.

2.    Ma l’orizzonte familiare, così importante per la mamma, sconfinava in uno più ampio. Andata in pensione, “sistemati” noi figli, aveva trovato una famiglia più grande in una esperienza che le consegnava nuove opportunità e nuova felicità: quella del volontariato. Noi ci siamo resi conto fino ad un certo punto di questa realtà e in buona parte l’abbiamo scoperta solo in questi giorni, quando altre persone che condividevano il medesimo impegno ce l’hanno fatto capire. Ogni giovedì c’era la Caritas cittadina, la sistemazione e la distribuzione dei vestiti. Ogni tanto tornava contrariata con quelle domande che a volte la solidarietà ti pone tra aiuto che puoi dare e responsabilità che dovresti chiedere. Ma nel dubbio propendeva per il dono, allestendo anche a casa una piccola Caritas, tutta sua, dove arrivavano altri bisognosi e dove la mano sinistra non sapeva ciò che faceva la destra. Per una quindicina d’anni è andata anche all’Iris, Centro diurno che accoglie chi sperimenta l’infermità della mente. La mamma, portando la sua testimonianza in un convegno dell’Associazione, scriveva a riguardo: «Mi sento a pieno titolo inserita in questa realtà anche se quello che dono è ben poca cosa; quello che ricevo è molto di più. Quando arrivano gli ospiti è una gioia vederli, il loro sorriso si fa grande, ci baciano, ci prendono le mani, si sentono al sicuro, come in famiglia». Una bella pagina di carità, di compassione e di cura, acqua trasformata in vino, di cui non voglio dire niente di più perché la mamma rifuggiva dalle benemerenze terrene e portava la segreta persuasione che sarebbe stata questa famiglia allargata, così la chiamava, ad aprirle le porte del cielo.

3.    E infine le parole della croce. L’episodio di Cana risuona dell’ora di Gesù. Donna, non è ancora giunta la mia ora. E quell’ora ad un certo punto è arrivata, mettendo a soqquadro la nostra famiglia. Non bastava la malattia del papà, l’amianto respirato alla Fervet, che aveva compromesso la salute sua e di tanti colleghi di lavoro. Appena dopo la sua morte, nel luglio del 2020, anche alla mamma veniva diagnosticata la stessa patologia, per aver lavato i suoi indumenti di lavoro, rimanendone contaminata. Una malattia beffarda, insidiosa, malefica. Una pagina passata sottotraccia, di cui troppo poco si parla, che interroga la storia dell'industrializzazione castellana, la coscienza collettiva e lascia l’amarezza a chi, cercando di portare a casa il pane quotidiano, ha talora portato a casa un pane avvelenato. Ma questi sono oscuri pensieri miei. Alla mamma non appartenevano e se li ha fatti non ne è stata vittima, andando avanti giorno per giorno con fiducia, speranza, voglia di esserci ancora per noi figli, i nipoti, le persone care, facendo in modo che la paura di morire non le impedisse di vivere.

E non era la ricerca di una confort-zone, non ignorava la realtà che le apparteneva. Solo che lei la viveva con il Signore: nella preghiera, nella messa, nella comunione che la domenica sera le portavo a casa, nell’unzione degli infermi che ha voluto rinnovare anche nei giorni scorsi.

E forse da tale frequentazione derivava quell’affermazione che ha ripetuto a più di qualcuno, con sorprendente tranquillità: Mi so pronta. Era arrivata l’ora e lei lo sapeva. L’esile crocifisso africano, ricavato da un ramo di un albero, posto sulla testiera del letto sembrava riconoscibile anche un po’ più in basso, tra le membra di un corpo stremato cui, in questi ultimi giorni, potevamo dare solo un sorso d’acqua. Riempite d’acqua le giare. Era quello che il Signore chiedeva anche a noi perché potessimo credere ancora una volta che lui era capace di trasformazione, che anche la vita di una madre, di una sorella, di una nonna sarebbe stata riempita di risurrezione.

Una decina di giorni fa, mentre alzavo le persiane della camera, dicevo: «Mamma, hai visto, sono fioriti gli ellebori che ti piacciono tanto». E lei aveva chiosato: «So mi che no fiorisso altro». Ma poi, come se quell’affermazione fosse spiritualmente troppo spericolata di fronte al figlio sacerdote, aveva aggiunto: «No. Fiorisso da naltra parte». E con il dito indicava il cielo.

Diceva poco fa S. Paolo: Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo i suoi disegni. A volte è difficile intravedere i disegni di Dio: ci sembrano strani, oscuri. Ma tutto concorre al bene e con la mamma custodiamo la persuasione che valga la pena fidarsi del Signore e che le sue fioriture non siano finite. Da Cana ai nostri giorni, dal quotidiano che ci è dato all’eterno che ci sta innanzi.