Funerale Nicolò Guidolin (30 apr. 2021)
(Letture: Rm 8,31-35.37-39/ Gv 21, 1-25-30)
La canna da pesca appoggiata sulla bara di Nicolò sembra
riposare con lui, ricordargli e ricordarci quella passione che l’ha accompagnato fin da
bambino quando, al mare, un giorno, aveva conosciuto un pescatore dal quale era
rimasto affascinato. Da allora tante canne si sono alternate nella sua vita, testimoni dei timidi lanci nel Brenton e nel Muson e di quelli più
esperti nel Brenta, le cui rive Nicolò raggiungeva con i suoi
amici, anche in bicicletta, fino a Bassano e a Solagna, come si può fare solo
con l’entusiasmo e la spensieratezza dei sedici anni. I mezzi di trasporto poi
erano cambiati, ma la felicità era sempre la stessa: di chi arrivava, metteva
una tenda, sistemava l’attrezzatura, studiava il fiume, lanciava e rimaneva in
attesa.
La pesca. È metafora della vita. Basta sfogliare alcune pagine di Hemingway, per rendercene conto. Basta ascoltare De Andrè per ritrovarci accanto a quel pescatore, che "all’ombra dell’ultimo sole" ha insegnato a generazioni la calma, la tolleranza, la pazienza con se stessi e con gli altri. Forse è per lo stesso motivo che Gesù chiama con sé dei pescatori, perché fosse questa loro antica professione a raccontare qualcosa di Dio e degli uomini, di quello che scorre lungo il fiume della vita e di quello che puoi tirare a galla. E di questa storia, fatta di cielo e di terra, di acque placide o irrequiete, forse la lenza di Nicolò può dirci qualcosa di importante. E' lei oggi a fare l'omelia. Può raccontarci la pazienza, la determinazione e l’ulteriorità.
1. La pazienza
è una dote importante per il pescatore. Ti restituisce il senso vero della
vita: l’attesa, l’umiltà, la prudenza, il senso del limite. Quanta pazienza
serve ad un genitore mentre accompagna la crescita di un figlio? Consigli,
raccomandazioni e quel pensiero che ti martella da che lo metti al mondo:
dov’è, starà bene, ha mangiato, è rientrato? Magari mentre apri la porta della
camera per vedere se è a letto e tiri un respiro di sollievo. Di fronte alla morte di Nicolò, credo che molti abbiano pensato al pomeriggio di sabato scorso. Ma cosa gli è venuto
in mente? Ma quella moto, ma non poteva starsene a casa, ma non poteva andare
alla cresima di sua sorella? Sono i nostri ma,
ragionevoli forse di fronte a un ventenne, ma a volte poco meditati, poco
aderenti alla vita di un ragazzo che cresce, che rivendica spazi di autonomia,
che ti rassicura sulle sue intenzioni anche se sai bene che non sarà così. Mamma, dai, non è mai successo niente. E gli
dai credito, sospendi le tue riserve, augurandoti
che un passo dopo l’altro, un lancio dopo l’altro, possa appendere all’amo
della vita la responsabilità, la misura, l’accortezza. Gettate le reti dalla parte destra della barca e troverete.
L’educazione è continuare a investire nel grande mare dell’umanità, nel mare di
un figlio, di uno studente, di un ragazzo che frequenta la parrocchia o che ha
smesso di frequentarla, rivendicando però ugualmente la possibilità di sentirsi
a casa, solo perché una panchina davanti all’oratorio o una collinetta gli sono
famigliari. Quella lenza Nicolò ce la consegna per continuare a lanciare ai
ragazzi vita nella vita, simpatia, cordialità, fiducia. Con pazienza e
lungimiranza. Quella lenza Nicolò la consegna però anche ai suoi amici, perché anche
loro imparino ad essere pazienti e a riconoscere negli adulti e nelle loro
raccomandazioni non gli antagonisti, ma gli alleati della loro felicità.
2.
Ma ogni lenza lanciata in acqua può anche recare
sorpresa. Quella di uno strattone, di un galleggiante che si inabissa, quella
di una lotta che devi sostenere per agganciare e salpare la preda. Quanta
felicità nel volto di Nicolò quando questo avveniva! Forse perché non c’era
solo la fortuna ma anche la sua abilità, la determinazione, le ore di
discussione con gli amici sull’amo da scegliere, sull’esca da adoperare. Quella
lenza ci ricorda la perizia con cui si sta nella vita, con cui si pensa al domani,
con cui ci si prepara a dare qualcosa di sé. Dice la mamma di Nicolò che suo
figlio era un tipo piuttosto “sciallo”, per il quale, quello che si doveva fare
oggi, lo si poteva fare tranquillamente domani. Ma questo non valeva per tutto,
perché se non c’era verso di fargli spreparare la tavola, e lo sapevano bene le
sue sorelle, su altre cose Nicolò si appassionava. Volentieri dava una mano al
nonno nei campi e non vedeva l’ora di approdare nel mondo del lavoro che la
scuola, una scuola che sentiva sua,
gli aveva consentito di conoscere e di accostare. Con la soddisfazione di
sentirsi apprezzato già nei primi tirocini aziendali e con la certezza interiore che presto
sarebbe stato assunto. Comincia a prendere in mano la vita. E fallo con
serietà. Proprio come prendi la canna da pesca. Verifica in che acque stai lanciando,
perché non tutte sono pescose e non
tutte sono pulite. Occhio alle esche, perché qualcuno le usa anche con te, per
catturarti. Perché se anche tu fai una pesca no-kill, che Nicolò praticava, non è detto che
altri facciano lo stesso. E mettici l’energia necessaria perché la vita è fatta
di impegno, di lotta, di partecipazione. Le reti della vita le riempie il
Signore, come ha riempito quelle di Pietro e dei suoi amici, ma lo sforzo di
lanciarle è tuo, lo stile è il tuo, la fiducia è la tua. Quegli uomini sul
lago non sono rimasti prigionieri dell’inerzia, delle secche, della
rassegnazione. Hanno corso il rischio di vivere ancora. Prendi
in mano la tua vita e non lasciarti addormentare. Pescare, diceva Harry Middleton, scrittore sudamericano, non è fuggire la vita ma immergersi ancora
di più. Abilità, coraggio, vivere e
non vivacchiare.
3. Infine quella
canna sembra rivolgerci anche un invito a spaziare, ad andare oltre le
acque che già si conoscono. Perché
in ogni pescatore autentico c’è l’attaccamento ad alcuni luoghi preferiti ma
c’è anche il movimento, l’esplorazione, la ricerca dell’inatteso. Mi piacciono
Nicolò e i suoi amici che partono in bici, alle quattro di mattina, precedendo
l’alba. Mi piacciono mentre la luce inizia a danzare sulle brevi rapide del torrente
e illumina i loro volti, messaggera di una bellezza misteriosa che si affaccia
nel mondo, che vedi e non vedi.
Forse
è la stessa esperienza dei discepoli di Gesù, sul Lago di Galilea. Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i
discepoli non si erano accorti che era Gesù. Nicolò dopo la terza
superiore aveva chiuso la sua frequentazione ai gruppi, mettendo in stand-by
anche la questione di Dio. Pratico com’era, una volta aveva detto a sua madre: Mi Gesù no me ga mai dato un panin. Come
dire, se non ho modo di vedere, di toccare, di mangiare qualcosa di
sostanzioso, come posso credere? Messa? Anche no.
Dov’era
Gesù quando è morto Nicolò? Dio non sempre interviene come vorremmo. A volte
lascia che la vita ci raggiunga con i suoi imprevisti forse perché della vita
impariamo a prenderci cura, perché nel dolore sappiamo starci accanto gli
uni agli altri, perché iniziamo a volgere lo sguardo altrove, a riconoscere i
varchi dell’eterno. Come i pescatori del lago che ad un certo punto riconoscono
Gesù. È il Signore. E allora, dov’era Gesù quando è morto Nicolò? Era con lui. Era sulla
riva dell’infinito a preparare il pane, il famoso panino, mentre aspettava un
ragazzo che gli avrebbe portato il pesce, come se Dio ne avesse bisogno e di
quel dono volesse nutrire anche noi. Prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.
Mi
piace pensare che Nicolò, insieme a Gesù, ci inviti a scommettere non sulla delusione o sulla
ribellione indignata, ma sulla speranza, su un lancio di canna che, con
l’audacia dell’impossibile, continui a credere che i fiumi della terra hanno
una sorgente, che quanto di bello custodiscono i giorni non possa andare
perduto, che l’amore, l’amicizia, l’affetto che ci legano gli uni agli altri
siano più forti della morte.
Chi ci separerà dall’amore di Dio in
Cristo Gesù? Oggi
Nicolò ci pone di fronte a questa persuasione. E, insieme a Gesù, tra poco ci
sarà anche lui a spezzare il pane e a ripeterci: Venite a mangiare. Perché ci sentiamo nuovamente in sua compagnia e
perché non dimentichiamo di nutrirci di eternità.