Federico Pegoraro (29
nov. 2021)
(Lam 3,17-26 / Gv 12,
20-25)
Alle origini del sole
agli albori delle stelle
nasceva Gaia
una forza sovrumana, la natura.
Una melodia, la più pura.
Una foglia la nostra creatura, flebile al vento,
guidata da Eolo
con portento.
Una spira di vento.
Un terreno puro e duro.
Un filo d’erba verde
per chi non si perde
ma ci crede ancora.
Con questa poesia, la scorsa estate, Federico si è
guadagnato una menzione speciale al premio letterario “Onigo Mura Bastia”. Una poesia
che muove dalla formazione dell’universo, della terra, della natura. Una forza
sovrumana. E in questo flusso di energia cosmica, l’uomo, la nostra creatura,
appare come una foglia portata dal vento, che si posa sulla terra: un terreno
puro e duro. Tutto finito? No. Federico ci invita a osservare un filo d’erba
verde, presagio di una vita che continua, per chi non si perde, per chi ci
crede ancora.
1. La vita di Federico è così, foglia portata dal
vento, depositata sul terreno duro della giovinezza rapita, di una malattia in
buona parte sconosciuta, delle terapie dall’esito incerto, delle attese
infinite e di numerose conseguenti delusioni. Per lui e per la sua famiglia. Vengono
in mente le parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Libro delle
Lamentazioni.
Son
rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere.
Il ricordo della mia miseria e del mio vagare
è come assenzio e veleno.
Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima.
Ma
Federico non viveva accasciato. Non l’aveva fatto prima della malattia e non
l’ha fatto neanche durante.
Era
quel filo d’erba nel quale credeva e nel quale invitava a credere. Basta
scorrere le pagine di Sunshine, narrazione autobiografica che descrive l'iniziale lucido confronto con gli esordi del male, per rendersene conto. La voglia di esserci, di lottare, di
capire era più grande dei limiti che il male poneva, della fatica di motivare
agli amici quello che stava capitando, dell’incertezza che trapelava dal colloquio
con i medici, della necessità di riorganizzare la vita sulla base del possibile
e non del desiderabile. Ma ugualmente Sunshine, sole che splende, anche quando
nella camera dell’ospedale di quella luce ne filtrava troppo poca. Federico è
un invito ad amare la vita, ad accoglierla in ogni stagione, a ricercarla anche
nelle pagine dolorose che sembrerebbero smentirla e per le quali a volte
vorresti farla finita.
Ogni
malato ha qualcosa di importante da dirci, ogni malato è docente ordinario alla cattedra del dolore, ogni malato merita attenzione, rispetto, silenzio. E
ogni malato è una provocazione su come viviamo i nostri giorni, specialmente
quelli in cui perdiamo la proporzione delle nostre paturnie rispetto a chi sta male
davvero, ci lamentiamo del nulla o rimaniamo in ostaggio di un altro male, che forse potremmo curare: la presunzione, il rancore, il sospetto, la
chiusura del cuore. Val la pena di vivere così? Federico avrebbe qualcosa da
dirci? Forse sì, il filo d’erba verde. Da cui tutto può ripartire. Anche la
guarigione dal male che non credi di avere. Non calpestare mai le possibilità
che la vita ti offre, neanche quelle più flebili.
2.
Ma Federico non ha combattuto da solo. La breve parabola della sua vita è stata
accompagnata dalla straordinaria, diuturna vicinanza della sua famiglia. Tenace
e caparbio era lui nello studio, negli impegni, nei valori in cui credeva, ma
altrettanto ostinati erano i suoi nell’assicurare presenza, assistenza,
affetto, speranza. La mamma, il papà, i fratelli, qualche familiare. Una
fedeltà che commuove, perché un conto sono le situazioni che si risolvono in
fretta, un conto è lo stillicidio dei giorni che si ripetono uguali, talvolta
su una brandina accanto a chi ami, dove ogni respiro percepito diventa la
misura del tuo. Una volta ho chiesto a Gabriella come facesse a resistere così
a lungo, così determinata. «Non sopporto l’idea, mi disse, che Fede,
svegliandosi possa vedere un volto diverso dal nostro». Ma un volto diverso, a
dire il vero, c’era: era quello degli amici. Quelli consegnati già dalla scuola
materna, quelli dei giochi e delle scorribande, delle confidenze e delle
cavolate, quelli che allargano il mondo e lo rendono appassionante. Ma anche
quelli che non ti mollano, che sono disposti ad ascoltarti seguendo il tuo
sguardo sul vetro alfanumerico mentre componi una frase, quelli che sfidano i protocolli pur di stare
con te, anche nella pandemia. Forse il filo d’erba di Febo, così per gli amici, è anche il filo delle
relazioni. Esserci per qualcuno. Voler bene e lasciarsi voler bene. Perché
l’uomo è fatto così e perché, forse, è tutto qui il segreto della vita. Nati
grazie a qualcuno, solo se a qualcuno ci affidiamo e solo se qualcuno ci viene
affidato comprendiamo chi siamo. Stringi relazioni buone, non perdere nessuno.
Perché così non ti perdi neanche tu.
3. E Dio dove è andato a finire? C’è spazio per lui nel momento in cui tutto sembra smentirne la presenza e l’azione? Federico non ha mai fatto questo pensiero, non apparteneva né a lui né ai suoi. E non perché fossero indifferenti. Ma forse perché Dio dava loro un appuntamento diverso dai soliti. Quello del chicco di grano che muore. «Signore, chiedono alcuni greci a Filippo: Vogliamo vedere Gesù». E quando quella domanda arriva a Gesù, lui risponde: «Se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane da solo, se invece muore produce molto frutto». È stata la mamma di Federico a ricordarmi questa pagina. E allora mi viene da pensare che il filo d’erba verde non fosse il prato all’inglese, ma il germoglio di quella vita nuova che Gesù stava nuovamente generando, in Federico e in chi gli stava accanto. Vita nuova di chi rimaneva e non si scostava dalla croce, come Maria e il discepolo amato, accettando di abitare un lungo venerdì santo. Vita nuova di chi continuava a serbare la memoria delle cose belle vissute insieme, senza che il male riuscisse a cancellarle. Vita nuova di chi, mentre attendeva di abbracciare le membra di un figlio per l'ultima pietà, lasciava che il suo corpo ancora potesse restituire speranza ai giorni di qualcun altro.
E vita nuova per Federico, per quella strana possibilità che appartiene a Dio di prendere sul serio le nostre preghiere. Perché se un tempo, in macchina col papà, Federico recitava le preghiere andando a scuola, ora con la sua vita era diventato preghiera, quella che appartiene a tutti i crocifissi della storia e che lui, Gesù, crocifisso con loro, conosce bene. Una preghiera alla quale agganciamo anche la nostra, perché Dio ci aiuti a vedere dove non vediamo. Una preghiera che è anch’essa un filo d’erba verde, su un terreno duro e puro, per chi non si perde, per chi ci crede ancora.