sabato 19 ottobre 2013

Omelia 20 ottobre 2013

Ventinovesima domenica del T. O.

Federico Ozanam, il fondatore delle Conferenze di San Vincenzo, in preda ad una grossa crisi mistica, entra in una chiesa e, dopo qualche tempo, nell'oscurità riconosce A. M. Ampère, il grande fisico e matematico francese. Uscito di chiesa l'aspetta e gli pone una domanda: "Professore, è possibile essere così grande e pregare ancora?". E lui, uomo che aveva viaggiato ai confini dell'elettromagnetismo e dell'elettrodinamica, rispose: "Io sono grande solo quando prego". Ecco il senso della preghiera ed ecco perché Gesù incoraggi a pregare sempre, senza stancarsi. Perché solo così si mantiene la corretta misura della nostra umanità: da un lato ci ricordiamo che siamo piccoli e che non sono le nostre sorprendenti performances a decretare la riuscita della vita; dall’altro ci ricordiamo che siamo grandi, perché possediamo una sporgenza sull’assoluto che ci rende capaci di Dio, abitati dal suo stesso mistero. La Giornata missionaria mondiale ci aiuta a comprendere e a condividere questa persuasione e a scoprirne il sapore evangelico. La parabola della vedova e del giudice ci suggerisce il modo in cui Gesù intende la preghiera.

1.    Un primo aspetto è dato dalla ricerca della giustizia, termine che ritorna per ben quattro volte nel testo ascoltato. La giustizia è il modo con cui i rapporti umani vanno al di là dell’arbitrio e cercano una comprensione più grande. Che è quella che si dà un ordinamento civile, ma che è anche quella che appartiene a un ordine superiore. Dopo aver infatti usato per due volte il termine nella causa giudiziaria della donna, Gesù afferma: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Ecco: la preghiera ci consente di trovare sempre la giustizia più grande, il modo di vedere le cose di Dio. Perché anche i tribunali umani non sono l’ultima istanza. È un tema scottante per la scena politica del nostro paese, ma anche per i fatti capitati in questa settimana in relazione al caso Priebke. Da un lato quest’uomo che mai si è pentito di quello che ha fatto e che anche da morto sembra sfidare il mondo e i drammi della storia con l’avvallo di alcuni sconsiderati difensori, dall’altro le reazioni scomposte di chi ha finito per attribuire ulteriore forza mediatica a un congedo che doveva avvenire nel silenzio. Il caso Priebke ci rivela la longevità del male e l’esigenza di affrontarlo con una giustizia che nessun tribunale storico, per quanto necessario, riesce ad affermare. La preghiera ti consente di comprendere l’azione di Dio, per non dimenticare ma anche per non essere ulteriormente travolto dal male che si vorrebbe denunciare o combattere.

2.     Altro aspetto della preghiera è l’insistenza. La vedova è una delle categorie a rischio e molto probabilmente si rivolge al giudice per una causa di successione. Avendo perso il marito, lei non ha più nulla perché l’eredità viene incamerata dai parenti del defunto che non mancavano di fare regali ai giudici. La vedova non si rassegna, finché ad un certo punto il magistrato infastidito interviene. Conclude Gesù: se un funzionario corrotto riesce ad applicare la giustizia, non lo farà a maggior ragione Dio stesso? Non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? I suoi eletti sono là che gridano. Non perché Dio non capisca l’iniquità o i bisogni, ma perché la fede venga rafforzata. Infatti il vangelo si conclude con quella domanda inquietante: Il Figlio dell’Uomo, quando ritornerà troverà la fede sulla terra? La preghiera è il modo per ricordare che c’è qualcun altro che agisce e che, come dice altrove Gesù, senza di lui non possiamo far nulla. Mons. Franceschi, vescovo di Padova, molto provato dalla malattia, rileggeva così la sua vita: Pensavo fosse fede, ma era solo buona salute. La preghiera talvolta non modifica le situazioni drammatiche della vita, ma trasforma noi, riconsegnandoci alla nostra verità e alla verità di Dio che per primo ha affrontato la croce. Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. “Dio non esaudisce le nostre richieste ma le sue promesse” (Bonhoeffer) .

3.    Infine la preghiera è esperienza personale e condivisa. Se l’immagine della vedova suggerisce il primo aspetto, la vicenda di Mosè, le cui braccia sono sostenute da Aronne e Cur, ci dicono il legame con gli altri. Personalmente impara a darti tempi di preghiera e ad essere fedele. Ma condividi le opportunità perché la preghiera è una battaglia che si combatte insieme. Pensa alla battaglia che sostiene un ragazzo per diventare grande. Amalek talvolta è questa società vuota di Dio e paga del proprio niente. Amalek in altri casi è la sensazione di bastare a se stessi. Sostenere le braccia vuol dire insegnare a dubitare delle pretese di onnipotenza terrena, vuol indicare un riferimento su cui contare, vuol dire anche consegnare una speranza quando le speranze umane sono insufficienti. Ecco la Giornata Missionaria. Vuol dire aprire nel cuore di ogni uomo un varco di assoluto. E così si diventa grandi. Ma non solo di statura, proprio come diceva Ampère.
Pregare sempre, senza stancarsi. Non è un precetto ma un’opportunità. Di diventare uomini e di continuare ad esserlo.

sabato 7 settembre 2013

Omelia 8 settembre 2013

Ventritreesima domenica del T. O.

I quanti non sono solo un problema della fisica, ma anche il coefficiente che segna le nostre valutazioni, l’efficacia delle iniziative, le tendenze che prevalgono. Quanti ce n’erano alla manifestazione? Quanti sono i sostenitori di tale schieramento? Quanti cristiani vengono in chiesa? E ci ritroviamo a determinare i nostri assetti con la calcolatrice in mano. Il vangelo di oggi inizia con la descrizione di una folla numerosa che andava con Gesù, ma egli non sembra particolarmente entusiasta del dato quantitativo. Anzi, il verbo strepho/voltarsi che ritorna spesso nella descrizione degli atteggiamenti di Gesù, indica l’esigenza di guardare e di dirigersi altrove. Il cristianesimo non è dato dalla quantità di gente che vi aderisce ma dall’effettiva accoglienza del vangelo nella vita. E Gesù precisa le condizioni.

1.    Se uno non viene a me e non mi ama più di quanto ami… Il cristianesimo, anzitutto, non è statistica, non è regolamentazione, non è concetto intellettuale: è una questione d’amore. E se Gesù riordina gli amori terreni, non è per negarne il significato o l’importanza ma per garantirne le misure piene e la natura vera. Perché i tanti amori non devono perdere di vista l’amore, quello che insegna e dona lui. Qui c’è una questione nodale che riguarda la gestione familiare dell’amore, ma anche la sua comprensione sociale. Pensate ad esempio a come l’affetto possa diventare soffocante. Alla mostra del cinema di Berlino, l’Orso d’oro quest’anno è andato a un film (Il caso Kerenes) dove una madre con un amore viscerale verso il figlio ne teneva in scacco la vita. A volte l’amore può diventare prigione; non sempre dorata. Ma c’è una questione ben più seria che riguarda il riconoscimento dell’amore sul piano pubblico. Ci sono  molti amori che oggi rivendicano diritti di cittadinanza. Non ci sono motivi per negare il diritto all’amore se l’osservazione si limita a tale insorgenza del sentimento. Ma la garanzia dell’amore è nell’adeguare la tua idea e le emozioni che essa porta con sé ad un progetto più grande, perché l’amore è autentico quando accetta di crescere secondo misure assolute, quelle di Dio. Che è amore.

2.    Colui che non porta la croce dietro di me. Non è l’identificazione del cristianesimo con la sofferenza ma l’esigenza percorre la strada di Cristo, fidandosi di lui, anche quando occorre andare controcorrente. Croce vuol dire incrociare una strada differente da quella che il mondo in maniera troppo rapida vuole indicare nelle sue logiche. Ce ne ha dato prova la vicenda di Filemone al quale Paolo restituisce lo schiavo Onesimo perché lo riaccolga in casa dopo la fuga, ma non più come schiavo, bensì come fratello. Oggi ci troviamo nuovamente a un crocevia di questo tipo rispetto allo scenario di guerra in Medioriente. Mentre ti verrebbe da sganciare qualche “regalino” aereo a chi si è macchiato di orrendi crimini di guerra, papa Francesco ci invita alla preghiera per la pace. Non sappiamo ancora come andrà a finire, ma intanto “la croce ha incrociato” le nostre scorciatoie giustizialiste e ci ha fatto intravedere un’altra logica e un’altra umanità. Ecco chi è il discepolo. E l’adesione planetaria che c’è stata alla proposta del pontefice ci fa capire che i discepoli di Gesù sono più numerosi degli stessi cristiani. Ecco perché è pericolosa la logica dei “quanti”: perché puoi essere sorpreso per eccesso e non solo per difetto!

3.    La terza condizione, quella su cui ancora una volta insiste, è quella della rinuncia a tutti i beni. Se uno non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo. Il verbo apotassomai ha il significato di lasciare, dire addio come quando ci si congeda da qualcuno. Come gli affetti terreni possono sostituirsi a Dio, così anche i beni possono prendere il suo posto. E così non cammini più perché non ti distacchi. Gesù sa bene che i suoi discepoli avranno a che fare anche con l’uso dei beni, ma la questione è la libertà dalla loro egemonia. Su Voci d’Impresa, tempo fa c’era la testimonianza di un imprenditore sardo che ha rinunciato a portare la sua impresa altrove. Scatolette di tonno. E diceva: un operaio in Thailandia costa 30 centesimi al’ora, in Portogallo 5,40 €, in Italia 22. Ma io ho deciso di investire sui miei dipendenti. E la scelta gli ha dato ragione. Attento alla tirannia delle cose, dell’economia perché il vangelo è strada di libertà per te e per gli altri.

Le indicazioni di Gesù sono avvalorate però anche da due parabole: quella della torre e quella del re che va in guerra. Sono due immagini con cui egli ci sta dicendo: il cristianesimo che stai vivendo è solido? Sta in piedi? Può resistere agli attacchi con cui si misura? Da’ forza alla tua costruzione e sta attento alle regole che impieghi perché non ne va di qualche consiglio, ma della vita. Quella che ha vissuto lui e quella che apre a ciascuno di noi.

Omelia 1 settembre 2013

Ventiduesima domenica del T. O.

In questi giorni di Mostra del cinema, mentre registi e attori sfilano sul tappeto rosso, comprendiamo che quella passerella è più lunga della kermesse veneziana e raggiunge ogni luogo e ogni tempo. È la voglia di visibilità, di necessaria considerazione, di pubblico riconoscimento che spesso accompagna la vita degli uomini. Anche ai tempi di Gesù le cose non erano diverse: dopo la liturgia sinagogale un fariseo invita Gesù a pranzo. Era una consuetudine diffusa che dopo l’ascolto assembleare la discussione continuasse a casa e per questo si cercava di invitare il rabbino e le persone più ragguardevoli. Una rigida etichetta stabiliva i posti di ciascuno: persone importanti al centro, accanto il padrone di casa e poi tutti gli altri, in base al loro ruolo sociale. Un banchetto, inoltre, a porte aperte che consentiva di essere visto e accostato dai passanti e anche a qualche povero che non era interessato alla teologia ma a ricevere un pezzo di pane. Ecco la passerella umana, la voglia di apparire che può smentire la logica di Dio, la parola che hai appena ascoltato, il banchetto della fraternità al quale partecipi ogni domenica. Quando l’evangelista scrive questa pagina, infatti, non c’è più un fariseo che invita a pranzo, ma c’è la comunità che celebra l’Eucaristia, evento che dovrebbe suggerire una logica diversa da quella del mondo. Cosa ci fa capire Gesù?

1.    Quando sei invitato a nozze non scegliere il primo posto. Notiamo anzitutto l’uso del singolare: tu. Il rinnovamento che Gesù ha in mente comincia dal rovesciamento di prospettiva che ciascuno può personalmente sostenere e operare. Non interessa se tutti gli altri funzionano diversamente: tu comincia a cambiare il sistema. Perché Gesù sa benissimo che talvolta ci nascondiamo dietro facili alibi e i luoghi comuni, dove generalizziamo o pretendiamo che siano gli altri a cambiare: la situazione italiana e le colpe dei politici, la mia azienda e le colpe dell’imprenditoria, la chiesa e le colpe del Vaticano. Certo, ci sono delle responsabilità che appartengono ai vertici di un’istituzione, ma questo non esime ciascuno dal ricercare le proprie, a cambiare stile. Come sta facendo papa Francesco: il pontefice sembra ben consapevole che nella Chiesa c’è talvolta uno stile poco cristiano e che qualcuno ama i tappeti rossi. Ma il cambiamento inizia a farlo lui, con semplicità, andando a celebrare una messa e preparandosi sedendosi tra la gente in fondo alla chiesa. Non lamentarti del sistema. Incomincia a cambiarlo tu.

2.    Ma perché scegliere l’ultimo posto? Perché è la logica aperta alle sorprese maggiori. Se sei all’ultimo posto hai tutto da guadagnare, non corri il rischio che ci sia qualcuno che ti spiazza e ti costringa a retrocedere: puoi solo avanzare. Amico, vieni più avanti. In questi giorni ho incontrato una persona che per motivi professionali segue ragazzi e giovani che si stanno affermando nel mondo dello sport. Ed emerge la presenza di genitori che caricano i loro figli di una serie di messaggi in cui la ricerca dell’eccellenza non ammette deroghe, né esitazioni. Genitori che mentre il figlio undicenne tira di fioretto con un coetaneo gli urlano: “Ammazzalo”. Genitori che inveiscono contro il mister accusato non solo di non mettere in campo il loro figlio, ma anche di non essersi accorto delle sue doti spettacolari. È vero: nello sport, come nell’arte e in qualsiasi altra attività devi crederci e non fare le cose a metà. Ma quando la prestazione prende il sopravvento sulla persona ecco che cresce l’ansia, il confronto, la frustrazione. Lo sport è importante nella vita di un ragazzo, ma possiamo lasciargli la possibilità di essere un ragazzo, di fare le sue esperienze senza dover gestire l’esigenza di affermazione del padre o della madre? Chi si umilia sarà esaltato. Ritrova l’humus, il pianeta terra: persino Dio è disceso. Mantieni sempre i tratti della semplicità, dell’immediatezza, della cordialità. Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. A questo ci serve l’ultimo posto.

3.    Infine Gesù indica una strada per crescere nell’umiltà e nella verità: cambia giro. Si cambia logica se cambiano le frequentazioni che ti imprigionano, quelle che sai già come va a finire. Io ti invito, tu mi inviti, stessi discorsi, stesse dinamiche. Tu quello di sempre. Al contrario, quando dai un pranzo o una cena invita poveri, storpi, ciechi e zoppi. Fatti una parentela nuova che ti riveli qualcos’altro di te, qualcos’altro per cui puoi essere apprezzato e accolto, anche se non cammini su un tappeto rosso. I poveri ci offrono la straordinaria occasione per ritrovare la parte migliore di noi: quella che ha a che fare con l’amore e quella che ha a che fare col futuro. Perché ci impediscono di chiuderci nelle relazioni in partita doppia e ci costringono a pensare a un banchetto un po’ più grande dalla grigliata con gli amici. Occhio al giro che frequenti perché c’è il rischio si sbagliare appuntamento. Sovverti le logiche troppo rigide del fariseo e lascia che Dio ti possa stupire con la sua novità per quello che gli altri ti possono suggerire e per quello che tu puoi essere in grado di fare.

sabato 10 agosto 2013

Omelia 11 agosto 2013

Diciannovesima domenica del T.O.

Ricordate il ricco di domenica scorsa? Aveva messo i suoi raccolti nei granai, ne aveva costruito di più grandi e non si era reso conto che tutta la sua concitata e ossessiva progettualità gli faceva perdere il contato con i confini dell’esistenza: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». E Gesù aveva concluso dicendo: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». E oggi Gesù riprende l’argomento facendoci capire che significhi arricchire presso Dio.

1.    Vendete ciò che avete e datelo in elemosina. Le prime parole di Gesù indicano la corretta modalità dell’investimento cristiano. Messa giù così la frase non si presta a molte interpretazioni: lìberati della ricchezza accumulata e distribuisci ai poveri. E nella vita di numerosi santi è avvenuto proprio così. Ma se questa fosse l’unica declinazione della vita cristiana non si spiegherebbero le parole che seguono che indicano invece un atteggiamento attento e responsabile di chi mantiene salda l’amministrazione della vita, come il servo fidato. Vendere ciò che si possiede e darlo in elemosina vuol dire non dimenticare che la vita degna di questo nome è quella spesa per l’altro, una vita che assomiglia a quella di Dio. È una questione fisiologica: fatti a immagine e somiglianza di Dio noi diventiamo ciò che siamo unicamente nell’amore. Ecco perché l’elemosina è importante: ci consegna qualcuno da amare. Qualunque sia il tuo lavoro, la tua vocazione, l’interesse che muove la tua vita, fa’ in modo che ci sia qualcuno cui legare il cuore, che ti ricordi questa verità. Che non ti capiti di essere attaccato alle cose più di quanto tu non sia attaccato agli uomini, perché a quel punto hai perso te stesso.

2.    Altra raccomandazione di Gesù è quella della vigilanza. Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro non si lascerebbe scassinare la casa. Non è Dio il ladro: non si sta parlando di una minaccia da parte sua. Sono le cose con le loro illusioni, con le loro vacue promesse di felicità. Rispetto a queste intrusioni devi fare attenzione, perché entrano in maniera garbata, apparentemente innocua, addirittura travestite di opportunità. Ma una volta entrate esercitano una tirannia di cui è difficilissimo liberarsi: la dipendenza continua (non me ne posso separare), l’aggiornamento all’ultimo modello (che non mi manchino delle opportunità), la propagazione per emulazione e desiderio di equiparazione (se ce l’ha lui…). E sei talmente preso in ostaggio che perdi di vista le attese più grandi della vita. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo.

3.    Ultimo aspetto è la responsabilità: Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente? Gesù ci fa capire che c’è anche uno spazio di azione, di invenzione, di libertà. È come un padrone che se ne è andato per le nozze. Dio non sta col fiato sul collo a controllare dei dipendenti. È una logica di fiducia quella che lo muove e lascia ai suoi figli la possibilità di intervenire con senso di responsabilità. Ecco perché l’interpretazione letterale del vendere tutto non è l’unica strada cristiana. Perché al Padre è piaciuto darci il suo Regno e dunque spazi di sperimentazione, di autonomia, di creatività, senza che questo divenga arbitraria gestione. Dio cerca l’amministratore fidato e prudente. Fidato in greco corrisponde a pistós come pistis è la fede. Fede - dice l’autore della lettera agli Ebrei - è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Prudente invece corrisponde al greco phrónimos, termine che troviamo nei vangeli in riferimento all’uomo saggio che ha costruito la casa sulla roccia. Ecco l’amministratore che Dio cerca: un uomo che sappia vedere oltre e un uomo che cerchi la stabilità delle cose. Quando operi così realizzi la città dalle salde fondamenta il cui architetto è Dio stesso. E questa città non crolla. Pensate a una responsabilità politica o amministrativa così: vuol dire che devi guardare sempre un po’ più in là del tuo naso e devi chiederti se quello che stai costruendo è roccia o prefabbricato.

Ecco dunque lo sguardo di Dio. Siamo partiti dalla ricchezza, dai suoi pericoli, ma vediamo che Dio ha in mente qualcosa in più del portafoglio o del conto in banca della gente. Ha in mente una città che sia anticipo della sua in cui ogni uomo, secondo le responsabilità che gli sono affidate, se ne senta artefice e se ne senta partecipe. Questo tesoro non si consuma e non c’è un ladro che lo rubi.

domenica 4 agosto 2013

Omelia 4 agosto 2013

Diciottesima domenica del T. O.

Un'eredità, un funerale e una coltellata davanti alla salma di un'anziana vedova appena morta. E un'intera famiglia divisa tra ospedale e caserma dei carabinieri. Il fatto è avvenuto a Tivoli, vicino a Roma a fine giugno, per una questione di eredità. Una delle vicende che mina alle radici i rapporti fraterni e familiari è quella della successione. Problemi di oggi e problemi di sempre, dato che anche Gesù viene interpellato per una situazione analoga. Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità. Secondo la normativa vigente al fratello maggiore spettava la parte prevalente del patrimonio per custodire il nome della famiglia. Qui molto probabilmente c’è un fratello minore che vuole affermare i suoi diritti. E il tono perentorio di questo giovane non lascia intendere alcuna possibilità di deroga. Di’ a  mio fratello che divida. È riconosciuta la fraternità ma limitatamente ai vincoli di legge, alle divisioni. È quello con cui anche oggi ci misuriamo: genitori che vorrebbero che le cose andassero in un certo modo, che fosse custodito un certo senso familiare, che fossero garantiti figli più deboli e invece si assiste alla rivendicazione meticolosa e feroce del diritto individuale. Gesù reagisce a questo modo di fare: Chi mi ha costituito giudice e mediatore? Gesù non si presta come facevano i rabbini del tempo a dirimere la questione da un punto di vista giuridico ma porta i suoi interlocutori ad una comprensione più ampia. Perché? Perché non è detto che la giustizia sia sempre la cosa più giusta, né che una possibile sentenza risolva le tensioni. Anzi, sappiamo bene che quando le cause di successione giungono in tribunale non ci si parla e ci si odia per il resto della vita. Si voleva dividere il patrimonio e si è divisa la famiglia.
Gesù va alla causa di questa situazione mettendo in evidenza il problema di fondo, l’inganno della ricchezza: anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede. Tenetevi lontani da ogni cupidigia. E la parabola chiarisce il senso di quanto sta dicendo.

1.    Il racconto ci presenta anzitutto un uomo ricco cui gli affari vanno bene. A ricchezza si aggiunge ricchezza. Buona cosa la prosperità economica. Ma ecco il primo inganno: egli ragionava tra sé. Tra sé. La ricchezza ti chiude agli altri, ai loro appelli, ai loro consigli, al loro affetto e rimani prigioniero di te stesso. Ragioni solo in prima persona singolare. Farò, demolirò, costruirò, raccoglierò, dirò… E gli altri dove sono? A volte un impero finanziario può trasformarsi in un impero di solitudine. A volte perché chi ti cerca non cerca te, ma i tuoi soldi. A volte perche tu hai questa impressione: smetti di cercare, di voler bene, di lasciarti raggiungere e interpellare complice il sospetto che l’altro agisca sempre per interesse e sia una minaccia da controllare e da allontanare. Ritrova la ricchezza dell’altro, unica possibilità perché anche la vera ricchezza della vita sia rivelata.

2.    Secondo inganno è l’articolazione della riflessione al futuro. Non solo per le cose da fare, ma anche per le gioie che ne potrebbero derivare: Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Chissà se arriverà mai questo “poi” in mezzo a tanta frenesia imprenditoriale! Per questo Dante raffigura gli avari con un masso da spingere in una perenne salita! Perché, anche ammesso che quel “poi” si potesse realizzare tra festini e godimenti, esso non riesce mai a colmare le prospettive assolute della vita: “molti beni” ma non il “bene”, per “molti anni” ma non l’eterno. Ecco l’inganno sul futuro: non ne hai calcolato la misura ulteriore e non ti sei reso conto che i giorni sono appesi a un filo: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». Vanità delle vanità dice Qoelet. Quella parola [hebel] in ebraico indica la nebbiolina del mattino velocemente dissolta dal sole. Attenzione a non affidare al vuoto la tua vita, a scambiare vacue promesse con la felicità che cerchi. Quello che hai preparato di chi sarà? E tu di chi sarai?

3.    Gesù conclude la parabola dicendo: Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Il terzo inganno è nella mancata diversificazione degli investimenti. Hai investito unicamente sui mercati terreni, ti sei dimenticato della borsa del regno dei cieli! Il ricco era impegnato a costruire granai e ha dimenticato di costruire la dimora eterna, quella che solo l’amore può edificare, perché è l’unica realtà che supera la barriera della morte. Il fallimento di quest’uomo non è avvenuto per le sue ricchezze, ma perché esse hanno preso il posto degli altri e l’amore si è trasformato in bramosia. 
Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità.
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. La nostra vita è tra terra e cielo e solo se non perdiamo di vista l’orizzonte ultimo l’esistenza sta in piedi. Anzi essa diventa un’esistenza di cielo e l’eredità non una lite tra fratelli, ma la condivisione di un comune destino.

sabato 3 agosto 2013

Omelia 21 luglio 2013

Sedicesima domenica del T. O.

Ogni esperienza religiosa, mediante i luoghi cari alle sue origini, trova la comprensione della propria identità. La Mecca, città natale di Maometto, il luogo del grande pellegrinaggio di ogni musulmano dice un’esperienza di esclusività: non puoi accedere ad Allah se non professando l’Islam. Varanasi, città sacra indù, è invece l’unico posto della terra in cui gli dei permettono agli uomini di sfuggire al all'eterno ciclo di morte e rinascita e sulle rive del Gange che attraversa la città i riti mattutini di abluzione sanciscono questo privilegio.
Immaginate i cristiani che hanno iniziato a raccontare la vicenda della loro fede a partire dai luoghi frequentati da Gesù. Nessuna sacralità, nessuna esclusività, ma un Dio ospite e pellegrino che percorreva le strade degli uomini e che viveva della loro amicizia, come a Betania, in casa di Lazzaro, Marta e Maria. “Per incontrarmi – dice Dio - non ti serve un fiume, né un viaggio faticoso: mi basta che mi apri le porte della tua casa e mi dedichi un po’ del tuo tempo per stare con me”.
Ecco, il punto è proprio questo: stare con il Signore. Questo verbo ci inquieta, tanto da sostituirlo con altri più rassicuranti, anche se più onerosi: fare, servire, professare, tributare, produrre. È la sindrome di Marta, tutta presa dai molti servizi, esatto contrario di sua sorella che, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Come ospitare dunque Gesù a casa nostra? Quando Betania comincia a rinnovare il nostro rapporto con Dio? 

1.    Betania è anzitutto il superamento dei preconcetti. Che una donna potesse mettersi in ascolto di un rabbi di Israele era, al tempo di Gesù, un atteggiamento inconcepibile e sconveniente. Meglio bruciare la Bibbia che metterla in mano a una donna, dicevano i rabbini del tempo. E invece l’evangelista, oltre a non dirci nulla della presenza di Lazzaro, precisa che una donna di nome Marta lo ospita in casa e sua sorella di nome Maria è seduta in ascolto ai piedi del maestro, proprio come avveniva nelle scuole rabbiniche riservate unicamente ai maschi. A volte anche noi leghiamo la presenza e la rivelazione di Dio ad alcune circostanze o persone ritenute idonee ad accoglierne la manifestazione. Invece Dio scavalca questi preconcetti e chiede di essere ospitato nel quotidiano come amicizia che accompagna e condivide la vita, come presenza che sorprende, com’è capitato ad Abramo nell’ora più calda del giorno, quando sembra impossibile che qualcuno si prenda la briga di visitare qualcun altro. Pensate a quando non vogliamo andare a messa perché siamo stanchi o infastiditi e ci pare di andare per niente. Per Dio non è mai “per niente”. È “per te” e per esserti accanto anche quando ti sembra impossibile: a che servono altrimenti gli amici?

2.    Ma incontrare Gesù non vuol dire solo aprirgli la porta. Vuol dire anche stare con lui, perché c’è sempre in agguato il rischio di essere presi dal turbinio delle cose da fare. È il rischio di Marta. Mentre Maria è seduta ai piedi di Gesù nell’atteggiamento della disponibilità e dell’ascolto, Marta è presa dai molti servizi. Notate che il termine è diakonia, parola importante nella chiesa, da cui derivano una serie di responsabilità. Ma ci può essere un servizio che perde il suo orientamento e diventa un girare a vuoto. Facciamo tante cose per Dio ma abbiamo smesso di ascoltarlo. Non solo nella chiesa e nella pastorale delle nostre parrocchie, ma anche nella diakonia familiare. Quante cose ad esempio si fanno per i figli, ma a un figlio che ci vede dribblare il nostro quotidiano e a un figlio che presto ci imiterà e ci supererà in tale follia, stiamo facendo un servizio? Se far nascere non è solo dare alla luce, ma dare una luce, quale luce stiamo consegnando a un ragazzo che cresce? Marta, Marta tu ti affanni e ti agiti per molte cose. Di una sola c’è bisogno. Mettiti in ascolto di Dio, lascia che metta un po’ di ordine nella tua agitazione.

3.    Ma come trovare ordine? Dall’ascolto bisogna passare ad una seconda operazione: scegliere la parte buona, come Maria. Non basta ascoltare, bisogna decidersi, porre dei segni in controtendenza che dicano la novità che Dio ha portato alla tua vita. Se Gesù non ci scomoda dalle nostre posizioni, che ce ne facciamo di tale amicizia? Grandi polemiche in questi giorni perché la Rai non trasmetterà Miss Italia e soprattutto per le parole della Boldrini che se ne compiace. A parte che la logica di Miss Italia è ormai ben più che il noto concorso, ma con tutto ciò che sta succedendo nel mondo, qual è la parte buona che vogliamo ricercare e indicare? Tre misure anatomiche o la certezza di essere grandi per la coscienza di essere vere? Maria ha scelto la parte buona e per questo non le viene tolta. Non tutto rimane e se non ti leghi a ciò che è solido, rischi di passare velocemente anche tu e di esserne travolto. Marta e Maria sono compagne di viaggio. Ci dicono di non rinunciare alla vita, ma anche di non dimenticare di caricarla di senso e di aprirla all’assoluto di un Dio amico degli uomini.

martedì 23 luglio 2013

Omelia 14 luglio 2013

Quindicesima domenica del Tempo ordinario

La visita e le parole del papa a Lampedusa hanno impresso una straordinaria attualità alla parabola del buon samaritano. C’è un uomo che ci interpella alle periferie del mondo e tale invocazione non decide solo della sua sorte, ma anche della nostra. Che uomini vogliamo essere? Uomini mossi dalla compassione, capaci di rivedere le loro scelte e di giocarci nella direzione dell’altro o uomini globalizzati dall’indifferenza, incapaci di rispondere alla grande domanda mediante la quale Dio ci chiede conto del fratello?
Alcune polemiche e recriminazioni che hanno fatto eco all’intervento del pontefice ci fanno capire che il sacerdote e il levita sono ancora tra noi: non solo i cristiani che ipocritamente presumono che la loro fede non li coinvolga nella storia, ma anche coloro che vorrebbero che i cristiani si comportassero così. Certo, un conto è la predicazione, un conto è la politica, ma non fino al punto da ritenere che la parola del vangelo non abbia qualcosa da suggerire anche alla politica e alle sue scelte.
Il papa ci ha fatto capire ancora una volta l’esigenza di percorrere le strade degli uomini e di farlo da credenti, sapendo che la direttrice Gerusalemme-Gerico, può intersecare anche le rotte del Mediterraneo.
Rechiamoci, dunque, lungo questa strada evangelica e raccogliamone gli appelli divini.

1.    Il racconto di Gesù inizia con la presentazione del soggetto protagonista della vicenda. Un uomo. Niente aggettivi. Bianco, nero, buono, cattivo, regolare, clandestino... Dio ha creato gli uomini, noi le classificazioni. C’è un duplice messaggio: Dio vuole che tu guardi ogni persona che ti vive accanto come uomo, il resto viene dopo. Prima l’uomo e poi il profugo, prima l’uomo e dopo il gay, prima l’uomo poi il criminale che pensi di riconoscere. Perché se vedi l’uomo salvi anche la tua umanità. Il racconto comincia con l’uomo perché Dio vuole che ciascuno continui ad essere tale e non perda il proprio posto nella creazione, credendo di essere Dio e finendo per fare il dittatore e il tiranno. Come fai a dire: Sono contento se affonda un barcone? (Boso) Possiamo capire che in quella barca vi siano talora uomini senza scrupoli che giocano sulla pelle degli altri. Ma i tuoi auspici sono tanto diversi? Non stai giocando anche tu sulla pelle degli altri? Nel discorso del papa è risuonata la prima grande domanda biblica: Adamo, dove sei? Adam in ebraico vuol dire “uomo”. Ed è questa la direttrice buona sulla quale si diffondono le rotte di Dio. Non dimenticarti degli uomini e non dimenticarti di essere tale.

2.     Ma cercare e difendere l’uomo, vuol dire anche custodirlo con una serie di interventi ben precisi. Nel racconto di Gesù, il samaritano è identificato con dieci verbi che costituiscono il nuovo decalogo cristiano, come sei i dieci comandamenti si specchiassero in una nuova legge non scritta più su tavole di pietra, ma nei cuori degli uomini. Ci sono verbi che indicano atteggiamenti e sentimenti, comportamenti e ragionamenti. Avvicinarsi, provare compassione, medicare, pensare al futuro decorso. A custodia dell’uomo occorre una visione complessiva della realtà umana. I sentimenti da soli potrebbero diventare slogan, le azioni potrebbero essere utili al momento ma prive di progettualità, le considerazioni potrebbero fermarsi a ricercare le cause dei problemi. Custodisci l’uomo con tutto ciò che appartiene all’uomo, senza dimenticare alcunché. In questi giorni è uscito un decreto che toglie dal codice civile e dal diritto di famiglia qualsiasi aggettivazione legata ai figli. Figli e basta, in base al principio che le scelte di vita dei genitori non possono e non devono avere conseguenze su di loro, né in termini affettivi, né patrimoniali. Il decreto però non è privo di una certa ambiguità, almeno nei messaggi, e rischia di far intendere che tutte le soluzioni familiari abbiano uguale valore, che i diritti dei figli legittimino anche il diritto di determinare a proprio piacimento il concetto stesso di famiglia. Ecco: prendersi cura, dell’altro, come nel caso di un bambino domanda anche un’azione intelligente nei suoi confronti, che custodisce integralmente la sua crescita, il suo equilibrio, la sua umanità.

3.     Infine c’è quella svolta sorprendente che Gesù pone nell’ultima domanda. Il dottore della legge aveva chiesto: Chi è il mio prossimo? Ma Gesù domanda: Chi ti sembra il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti? Non si tratta di trovare il prossimo, ma di farsi prossimo. Così si diventa uomini. Perché la prossimità è condizione necessaria all’esistenza e quando vi rinunci non vivi più. La parabola del buon samaritano Gesù non ce la dà per sistemare tutti i derelitti della terra. Ce la dà per sistemare anzitutto la nostra terra derelitta, per renderci convinti che, creati a immagine e somiglianza di Dio, troviamo noi stessi se assomigliamo un po’ di più a lui e viviamo dei suoi sentimenti.

sabato 29 giugno 2013

Omelia 30 giugno 2013

Tredicesima domenica del Tempo ordinario
L’infinito viaggiare. La prova di italiano della maturità di quest’anno proponeva agli studenti di riflettere su un testo dello scrittore triestino Claudio Magris. Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi.
Il viaggio come metafora della vita, come possibilità di ritrovare autenticamente se stessi, oltre le frontiere egemoniche che talora sbarrano la strada alla propria verità. Ecco perché ad un certo punto Gesù propone un viaggio ai suoi discepoli: per aiutarli a ritrovare il senso dell’esistenza, per uscire dalle stagnazioni in cui si perde di vista la ricchezza dell’incontro con gli altri e con Dio, per ritrovare l’appello dell’infinito quando vorremmo inscatolare i significati.
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Un cammino su cui non si transige: preparato, risoluto, rivolto ad una meta ben precisa. È il grande viaggio che dà forma all’esistenza cristiana per non correre il rischio di inscatolarla o di farla corrispondere a quello che Dio non ha in mente. Di che viaggio si tratta?
1.    È un viaggio di tolleranza. Quando i Samaritani rifiutano Gesù, Giacomo e Giovanni sono tentati dall’intransigenza: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Ma Gesù si volta e li rimprovera. Il viaggio è l’ostinata ricerca di un incontro anche quando si fa l’esperienza contraria. Scrive Magris nel medesimo testo: Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, […] si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo. La visita della ministra Kyenge a Giavera ci ha messi ancora una volta di fronte alla questione dell’integrazione. C’è sempre il rischio, in questi casi, di cedere a toni entusiastici o a quelli allarmistici aprendo la strada a fuorvianti e ideologici unilateralismi. Dobbiamo invece confrontarci con la situazione reale, con la presenza di persone che sono arrivati da altri contesti per le loro e le nostre necessità, con ragazzi e giovani di seconda generazione che talvolta non hanno mai visto il paese dei loro genitori. Che ne facciamo? Invochiamo ora il fuoco dal cielo che li distrugga? Ricordate quando a scuola, studiando il Risorgimento, si parlava di fare l’Italia e di fare gli italiani? Forse anche oggi ci troviamo di fronte a questa sfida e non possiamo raccoglierla se non percorriamo strade di accoglienza delle persone e della condivisione di un progetto con cui esse possono stare insieme.
2.    Un altro aspetto del viaggio è l’essenzialità. Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Finché leghi la vita a inutili zavorre non vai da nessuna parte. Il tentativo di papa Francesco di intervenire su una questione complessa come quella dello Ior ci dice tutta la ricerca da parte della chiesa di non appesantirsi, di mantenersi libera rispetto alla seduzione di costruirsi un rifugio terreno, la propria tana. Ma comprendiamo anche che queste penose vicende ecclesiali possono essere anche una cortina fumogena sulla nostra disponibilità a viaggiare e sulle nostre pesantezze. Le centinaia di ragazzi in coda che in questi giorni si sono presentati fin dalle prime ore del mattino in un noto negozio di Milano per assicurarsi un braccialetto che a sua volta darà diritto ad accedere ai saldi del negozio sono l’icona di un appesantimento dove a dettare le regole della vita è l’immagine e la firma senza le quali non hai diritto di cittadinanza. Sentite come sono provocanti le parole di Paolo: Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi. Non lasciatevi imporre il giogo della schiavitù. Ritrova l’essenzialità e ritrova la libertà.
3.    Infine il viaggio ridefinisce le relazioni. Signore, lascia che seppellisca mio padre… Lascia che mi congedi da quelli di casa…Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il Regno di Dio. Parole che non vogliono tradire gli affetti ma che ci presentano l’esigenza di viverli in maniera liberante, nella signoria di Dio. A volte noi stabiliamo relazioni che sono dei sequestri: catturiamo o ci lasciamo catturare, talora mascherando l’operazione con una tinteggiatura di legittimità e di bei sentimenti: La mamma è sempre la mamma: sì, ma ormai tuo figlio ha 50 anni e una sua famiglia. Questa persona ha bisogno di un sostegno: sì, ma intanto ti sta sottraendo a tuo marito e ai tuoi figli. Ambito delicatissimo, la stanza di una persona che è mancata: C’è ancora il suo vestito sopra il letto. Ma la relazione in Cristo risorto non ha niente da dirti?
Ecco il senso del viaggio: serve per andare oltre le frontiere tortuose dei nostri inferi, come dice Magris. Ma quelle frontiere non le varchi da solo. Lo fai solo se cammini con il Signore e ti lasci condurre da lui.

Omelia 23 giugno 2013

Dodicesima domenica del T. O.

Non sempre una domanda chiede una risposta. Spesso chiede di essere dispiegata, affinché ceda quello che ha di più essenziale e dischiuda i riferimenti che si aprono quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce. La risposta, infatti, è solo l'ultimissimo passo del domandare. E una risposta che congeda il domandare annienta se stessa.
Sono parole del filosofo tedesco Martin Heidegger, (Nietzsche, 1961). Parole che ci fanno capire l’essenza del cristianesimo che, pur proponendosi come verità rivelata, non esaurisce la domanda dell’uomo nei confronti di Dio. E la domanda che risuona nel vangelo di oggi ben ci aiuta a capire quello che stiamo dicendo. Chi è Gesù? Duemila anni di storia cristiana, i pronunciamenti dogmatici, le più ardue speculazioni teologiche, le rappresentazioni artistiche, le più devote esperienze spirituali, niente e nessuno esaurisce il mistero di Gesù Cristo. Ed ogni uomo, credente o meno, è posto di fronte all’inquietante quesito. Chi è Gesù? Cerchiamo dunque di rimanere anche noi nella forza provocante di questo interrogativo per appropriarci – come dice Heidegger – di quello che segretamente custodisce.
1.    L’interrogativo si dà in forma avversativa. Ma voi. Poco prima infatti Gesù aveva chiesto ragione del pensiero della gente, raccogliendo variegate opinioni, non del tutto incomprensibili nel contesto di allora. Gesù però cerca una risposta differente, non riconducibile al talk-show. È un ma che dice una distanza e un’esigenza di fare i conti con una storia pazientemente costruita, con una frequentazione nella quale i discepoli hanno conosciuto qualcuno e qualcosa in maniera differente dalle folle. Ecco la prima direttrice per conoscere Gesù, per abitare il suo mistero: raccogli la tua storia con lui, la frequentazione che ti appartiene e ti ha messo in contatto con la sua vita, la sua parola, i suoi gesti. La rapida successione delle esperienze e il vaglio culturale che ne decreta talvolta la loro inammissibilità ci porta a credere che si tratti di antiche suggestioni che devono lasciar spazio a più moderni criteri di giudizio, magari desunti dall’ultimo libro di Dan Brown. Ma voi, ragionate con la testa di chi?
2.    Interessante è anche il fatto che la domanda venga posta al plurale: voi. E Pietro si fa interprete di questo voi, con la sua affermazione: Il Cristo di Dio. Ciascuno di noi al Signore è chiamato a dare la propria personale risposta di fede. Nessuno può sostituirsi alla fede dell’altro. E tuttavia la domanda di Gesù trova la sua chiarezza unicamente se rimane aperta alla condivisione credente. Riesco a dire chi è Gesù se mi arricchisco della fede dell’altro. La fede della Chiesa, la fede del successore di Pietro, la fede delle persone che mi hanno voluto bene. Non sono le speculazioni che ci generano come credenti ma le relazioni, quelle che ostinatamente ci pongono tra le mani un’eredità custodita nell’insieme. Se ci si allontana dal voi ecclesiale non si trova Gesù Cristo, ma le idee su di lui che possono trasformarsi anche in ideologie. Pensate agli stessi vangeli. Ci sono state delle epoche storiche segnate dal razionalismo che hanno preteso di separare l’autentica vita di Gesù, le sue parole e i suoi gesti da quello che era ritenuto un rivestimento operato dai suoi discepoli. Alla fine di questa operazione di pulizia ci si è trovati con un Gesù irreale e inconsistente, meno credibile di quello che si voleva mettere in discussione. Perché? Perché i vangeli sono stati scritti nella fede della chiesa e solo la salvaguardia di questo voi ci consente di conoscere Gesù.
3.    Ma dopo che Pietro ha dato la sua risposta, la domanda di Gesù continua. I discepoli sono posti di fronte ad una serie di riferimenti che nuovamente li interrogano: Il figlio dell’uomo deve soffrire molto. Non basta affermare che Gesù è il Cristo, il Messia atteso: bisognerà riconoscerne l’identità nell’oscuro mistero della pasqua, quando le tenebre e la morte sembrano avere il sopravvento. La domanda su Gesù Cristo rimbalza allora in tutte quelle situazioni dove ci pare di registrare la sua assenza, dove c’è una croce simile alla sua, dove siamo chiamati ad affermare: dopo tre giorni risusciterà. Il cristianesimo è la persistente domanda rivolta a Dio riguardo le inquietudini umane, ma è anche la tenace attesa di una risposta che non tarda ad arrivare in chi come Gesù, prende ogni giorno la croce e lo segue.  

lunedì 17 giugno 2013

Omelia 16 giugno 2013

Undicesima domenica del T. O.

«Non c’è più religione!». Una frase che può dire la perdita di riferimenti importanti, ma anche un propizio cambiamento di orizzonti. La religione, infatti, è importante: essa dà struttura all’incontro con Dio e aiuta a riconoscerne il volto. Ma essa può diventare una gabbia se non consente a quello stesso Dio di manifestarsi, di prendersi le sue libertà, di condurre su terreni inattesi. Ecco, talvolta l’esperienza religiosa anche per noi funziona così: diviene una prigione dorata, rassicurante, dove non cogliamo più la novità di Dio. È quello che avviene in casa di Simone il fariseo.
Con molta probabilità siamo a Nain, dove Gesù aveva restituito il bambino a sua madre. Una scena che finiva con un abbraccio per dire che questo è il desiderio di Dio: di abbracciarti, di stringerti a sé. Ma questa logica è ancora estranea a quel fariseo che ha invitato a pranzo Gesù: lui conosce la religione dei puri e sa che non ci si deve contaminare, specialmente con una donna di dubbia moralità.
Gesù approfitta della situazione per denunciare una religione che ha perso se stessa e per indicare ai discepoli un triplice passaggio.

1.    Porta tutta la vita di fronte al Signore. Ci fa riflettere innanzitutto l’audacia di questa donna che osa varcare dei confini prestabiliti. È vero che ai tempi di Gesù, durante i banchetti, le porte rimanevano aperte per dar modo ai passanti di curiosare e di elogiare la prodigalità del padrone di casa. Ma una simile donna, ben conosciuta nella piccola Nain, non doveva neppure pensare di avvicinarsi. Costei invece, sembra intuire ormai nuovi confini, che non le impediscono, nonostante la sua poco onorevole attività, di trovare accoglienza presso il Signore. Ecco, il passaggio da compiere per uscire dalla religione fine a se stessa: porta al Signore tutta la tua vita, anche quelle vicende che ti sembrano poco onorevoli, quelle che in genere omettiamo o camuffiamo nella confessione. Entra con tutto te stesso a casa sua perché la sua salvezza ti raggiunga integralmente. A Gesù non interessano anime disincarnate ma, come professiamo nel credo: per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo. O vuoi che la sua salvezza ti raggiunga a metà?

2.    Supera il pregiudizio di essere migliore. Un secondo tratto della religione che Gesù ha in mente è la sospensione del giudizio e della condanna nei confronti degli altri. Simone il fariseo segretamente giudica la donna: Se costui sapesse che tipo di donna è questa… Quando si fa un’operazione di questo genere, nascono due problemi. Mettendo in evidenza o concentrando l’attenzione sui misfatti degli altri si finisce per ritenersi migliori di loro. E così si creano distanze, lacerazioni, luoghi comuni, capri espiatori: ci isoliamo in una solitudine pretenziosa e arroccata che ci fa perdere il contatto con la verità di quello che siamo. Il male appartiene a qualcun altro! Ma ciò che è più grave è che in questo modo ci priviamo dell’esperienza più bella che possiamo fare: quella della misericordia di Dio che incontra la miseria e non la presunzione. Salendo sullo sgabello, all’altezza della nostra autostima, perdiamo l’appuntamento con Dio che invece è sceso a terra, anzi sotto terra, pur di poterci raggiungere. Noi in alto e lui in basso: come lo possiamo incontrare e accogliere? Qual è il guadagno autentico della vita? Il guadagno aumenta in relazione al debito condonato. E più te ne rendi conto, più aumenta la riconoscenza e la gioia. Dio non sa che farsene delle tue perfezioni. Portagli la tua miseria perché su di essa agisca la sua misericordia. Scoprirai il cuore di Dio e forse anche gli altri li sentirai più vicini.

3.    Trova il linguaggio dell’amore e della festa. Ma la peccatrice del vangelo stabilisce un’altra distanza: introduce nel rapporto con Dio i gesti dell’affetto, della gratuità, della festa. Portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Carezze, baci e profumo sui piedi del Signore. Anche le donne nel giorno di pasqua stringeranno quei piedi. Sono i piedi che hanno percorso le strade degli uomini, piedi che hanno portato la bella notizia di Dio, il suo perdono, il suo abbraccio. E se Dio porta un abbraccio, vuole essere abbracciato! Che vuol dire? Vuol dire che la nostra religione diviene autentica quando riempie d’amore il nostro rapporto con Dio. Dio ci ha amato e quell’amore si trasforma nella possibilità di amare lui! Simone il fariseo perfezionista del religioso vive la religione delle osservanze, la donna la religione dell’amore. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece non ha cessato di baciarmi i piedi… Questo che cerca il Signore. Prova a mettere un po’ d’amore: nella tua preghiera, nella tua messa, nella tua confessione, nell’ascolto della Parola. Forse continueremo a fare i conti con le nostre infedeltà e le miserie che conosciamo, ma forse ci sarà anche per noi qualcuno che ci dirà: sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato.

Omelia 9 giugno 2013

Decima domenica del T. O.

La morte di quel quattordicenne che nei giorni scorsi se n’è andato nel sonno ci ha colpiti profondamente e ci porta a interrogare il vangelo che abbiamo appena ascoltato. In questa Nain quotidiana dove qualcuno ci lascia in maniera improvvisa e inspiegabile vorremo che il Signore fosse accanto a noi e ripetesse le sue parole di vita: «Ragazzo, dico a te, alzati!». E invece vediamo che le cose non vanno così e noi ci misuriamo con il dolore del distacco e la fatica di capire. Come vive il cristiano di fronte alla morte?

1.    La prima prospettiva ci porta a riconoscere la vicinanza di Dio. Il vangelo ci presenta l’incrocio di due cortei: quello di Gesù con i suoi discepoli e una grande folla e quello del funerale con la madre affranta e molta gente della città. Gesù cammina in mezzo alle vicende umane: non è un estraneo, né si estranea. E alla fine del racconto non c’è più distinzione: un corteo unico loda e benedice il Dio della vita. Il cristiano vive la morte con la stessa persuasione. Mentre essa ci inquieta con la sua macabra rappresentazione e ne condividiamo lo sconcerto umano, non dimentichiamo che abbiamo conosciuto un Dio che abita tale evento e da credenti ci chiama a rispondervi. A quale corteo ti stai accodando? La stagione culturale che stiamo vivendo ci sta mostrando tutta la fatica della morte e del morire. Se il Trionfo della morte, rappresentato in innumerevoli affreschi, voleva metter in guardia l’uomo medievale dal pericolo di sentirsi padrone della propria vita e aprirlo alla speranza eterna, oggi alla morte è accordato un nuovo trionfo: quello del nostro disincanto, quello di considerarla l’unica chance per le fatiche del vivere, quello di favorirne l’azione per cancellarne tutte le domande. Anche noi, vicino alla porta della città, ci ricordiamo che il vangelo che abbiamo ricevuto non segue un modello umano, né l’abbiamo ricevuto o imparato da uomini. Abbiamo ricevuto il vangelo della vita.

2.    Come funziona la vita di Dio? Essa comincia dalla compassione e continua con una serie di gesti e di parole. Gesù si avvicina, tocca la bara infrangendo la legge della purità che rendeva immondo chi avesse accostato un morto. C’è un contatto reale, anticipo di quel confronto con la morte che Gesù avrebbe stabilito con la propria morte. E quel verbo “alzati” [egheiro] sarà quello stesso che il Nuovo Testamento ripeterà per 144 volte per dire la risurrezione di Gesù. La morte non è cancellata dai crocevia umani, ma Gesù ti fa capire che è stata vinta, che non è più intoccabile. Negli abissi della morte Cristo ne ha distrutto il potere. E se la morte sta ancora sull’uscio della porta è perché in essa l’uomo partecipi della stessa battaglia. Perché trovi la verità del vivere e non si senta onnipotente. Perché ricordi che la vita è sempre dono e non conquista. Perché quel dono lo riceva da colui che glielo può dare. Dio che ci ha creato senza di noi, non ci salva senza di noi e niente più della morte ci aiuta a ricordarlo. Ecco perché Dio non la spazza via dalle nostre vicende umane: forse perché è l’ultima occasione che ci dà per essere noi stessi.

3.    Ma, dopo che Gesù ha riportato in vita quel bambino, compie un altro gesto. Lo restituì a sua madre. Perché continui ad averne cura, perché sia partecipe di una nuova cultura di risurrezione e di vita. Certo, anche a noi piacerebbe poter fare lo stesso gesto quando una madre perde un figlio. Ma in questo gesto di amore Gesù ci sta dicendo: ricordati che quello che distrugge il potere della morte è l’amore. Opera in questa direzione e vedrai che la morte ha i giorni contati. Pensate a quella donna inglese che nei giorni scorsi è intervenuta a Londra dopo l’omicidio del soldato britannico, parlando con l’assassino che ancora teneva in mano il coltello sanguinante, impedendo che la strage continuasse e mettendo a rischio la propria vita. Ha detto due frasi che hanno molto colpito l’opinione pubblica: «Ho visto un ragazzo sconvolto». «Meglio io che un bambino». Anche in questo caso è l’amore di una madre che viene attivato. Madre che non vede un fanatico omicida, ma un ragazzo disorientato. E madre che pensa ad altri bambini come se fossero suoi, tanto da prendere il loro posto. Ecco in che modo sconfiggiamo la morte anche se ci appare col machete in mano: vivendo gesti d’amore. Perché qui gesti né si pérdono, né ci pérdono.

Il cristianesimo non è buoni consigli. È annuncio di risurrezione e di vita nella pagina più terribile che possiamo trovare: quella della morte. Continueremo a misurarci con tale realtà ma con la consapevolezza che la danza macabra può finire quando inizia la danza dell’amore.

domenica 12 maggio 2013

Omelia 12 maggio 2013

Ascensione del Signore 2013

A Gerusalemme, nella piccola moschea che oggi racchiude il luogo dell’ascensione, viene custodita una roccia dove ci sarebbe l’impronta del piede destro di Gesù. Ma l’orma autentica di Gesù non è quella che egli lascia sulla pietra, bensì nel cuore dei suoi discepoli mentre li saluta per raggiungere il Padre. L’evangelista Luca, ci consegna la scena alla fine del vangelo e all’inizio del libro degli Atti e in essa indica l’eredità che il discepolo raccoglie mentre il suo Signore sale al cielo.

1.     L’eredità anzitutto è Gesù, la sua presenza che nuovamente raggiungerà i discepoli mediante il dono dello Spirito. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso. Il cristianesimo non ha il volto della nostalgia, ma quello della presenza: non viviamo di bei ricordi ma del Vivente che ci accompagna e ci riveste di forza dall’alto. Il nostro cristianesimo occidentale ha sviluppato la consapevolezza dell’operosità puntando molto sulla responsabilità dell’uomo, sulla sua iniziativa e il suo impegno. Quello che talvolta dimentichiamo è il mistero della presenza di colui che ci abita. Mediante il dono dello Spirito, Dio diviene parte di te e tu divieni parte di lui. Sei abitato. Nei giorni scorsi il sessantenne cantante emiliano Giovanni Lindo Ferretti, nell’ambito di un convegno ha parlato della sua esperienza di conversione, da militante comunista anticlericale alla riscoperta cristiana. E ha detto: Avevo perso la fede ma la fede non ha mai perso me. Sono tornato a casa. Nel nostro cuore c’è la presenza di Dio che non ci perde e pazientemente ci riporta a casa.

2.     Una seconda eredità è la sua parola. Così sta scritto: il Cristo. Gesù insiste perché i suoi discepoli ricordino tutto quello che ha fatto e insegnato e perché vivano di tale messaggio. L’orma che ci accompagna è il Vangelo che custodisce la bella notizia della risurrezione ma anche il cammino che ad essa ha portato. Se vivi di quella parola anche tu risorgi e sali al cielo, come Gesù. Di quale parole viviamo? Oggi siamo stregati dalle parole in streaming e pensiamo che averle a disposizione subito e avere le parole di tutti possiamo cambiare le cose. Ma non si tratta solo di controllare le parole: si tratta di capire che parole ci muovono, di quale parola ci fidiamo, quale opera novità. E purtroppo non sempre attiviamo lo streaming evangelico. Lo scorso mese è uscito “Il male ero io”, libro testimonianza di Pietro Maso, quel ragazzo che nel 1991 a 19 anni ha ucciso i suoi genitori. È in buona parte la storia di un cambiamento avvenuto mediante l’incontro con un sacerdote che è riuscito a bucare l’isolamento nel quale il giovane si era rinchiuso ed era stato confinato. Parlando del prete, Pietro Maso dice: «A volte era paterno. Altre duro, aspro. Non sapevo mai cosa aspettarmi. Ma c'era sempre. Non ha mai saltato un sabato. La sua fede, la sua tenacia, mi hanno dato una forza incredibile. Se lui faceva questo per me, dovevo diventare degno del suo sacrificio». E poi il giorno dell’incontro con le sorelle, con tutta la paura di affrontarle, loro che fanno il primo passo e gli dicono: «Pietro, ti vogliamo bene, sei nostro fratello». «Ho gli occhi chiusi. Dio mi sta facendo il regalo più grande della mia vita. Non posso crederci, sta succedendo davvero, a me. Non me lo merito». Ecco, quando si liberano parole evangeliche, nella vita succede l’inaudito.

3.     La terza eredità sta negli ultimi gesti di Gesù: «Alzate le mani li benedisse». La benedizione nella bibbia è un momento importante: benedire vuol dire consegnare il senso della vita. E Gesù lo fa alzando le mani. Come se volesse dire: il senso della vostra vita è in alto. Non lasciatevi appiattire. Cercate sempre orizzonti più grandi di quelli che vi accerchiano e che cercano di imprigionarvi. Qui sta la vostra benedizione. Ci troviamo ormai di fronte a un appuntamento elettorale che interessa la nostra città e, lo sappiamo, i cristiani sono presenti in tutti gli schieramenti. E per tutti c’è stima, anche se alla fine qualcuno sarà eletto, qualcun altro no. A tutti però diciamo: dateci la benedizione dell’alto! Una politica alta: che non si insterilisca nelle polemiche partitiche ma intraveda il bene comune. Un’amministrazione alta: che non sia solo tombini ma sforzo di ripensare questa città. Un servizio alto: che non si limiti alle polemiche sugli stipendi, ma intraveda il senso di una missione. L’alto non cancella il basso, la concretezza e l’urgenza delle problematiche, ma gli impedisce di fossilizzarsi, di confondere la terra con il cielo di cui sempre abbiamo bisogno per capire chi siamo e dove siamo.

Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. La festa dell’ascensione – lo abbiamo capito – non riguarda solo Gesù. Ci appartiene. E ne viviamo un frammento ogni volta in cui anche noi, accanto allo ius soli, come facciamo in questo tempio, ricerchiamo lo ius caeli, che Dio stesso ci ha garantito.

domenica 28 aprile 2013

Omelia 28 aprile 2013

Quinta domenica di Pasqua

Ieri le ho contate, perche nel portafoglio non ci stavano più. Ed erano una quindicina. Sono tessere e carte che identificano l’esistenza. Ci sono quelle delle banche che consentono i pagamenti, quelle del lavoro che scandiscono l’orario d’ufficio, quelle della palestra, dell’autobus, del fisco e della sanità. E poi quelle dei negozi: un’infinità. E i negozi, ogni volta che passi la carta alla cassa, ti danno dei vantaggi, ma soprattutto essi ne hanno vantaggio: ti tengono legato, colgono i tuoi gusti, sanno quali sono gli orari che preferisci, capiscono come dosare i prodotti. Dimmi che carte hai e ti dirò chi sei.
Anche Gesù ci dà una carta di riconoscimento. Ma non sta nel portafoglio: sta nei gesti e negli atteggiamenti, negli orientamenti e nelle scelte della vita. Ed è la carta dell’amore. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. Ci sono religioni che parlano con la forza dell’ascesi e della purificazione, altre con la meditazione, altre con l’irruente presa di posizione nei confronti del mondo. I cristiani invece si riconoscono dall’amore. Di che amore si tratta e come funziona?

1.     Anzitutto Gesù anticipa questi discorsi parlando di gloria: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui». La gloria è il mondo di Dio, la realtà che ne custodisce il mistero. Ma la gloria divina non se ne sta nei cieli: essa si manifesta attraverso Gesù e il dono di sé che egli fa nella croce. La gloria di Dio è amore totale, libero e disinteressato. I discepoli di Gesù Cristo vivono l’amore perché il Dio che hanno conosciuto è così. È quello che Andrej Rublev cercava di dirci con l’icona della Trinità: tre persone sedute a tavola, con un lato del banchetto aperto per ospitare l’osservatore, per ricordargli che anche lui ha un posto in quella medesima realtà. Chi vede la carità vede la Trinità. Forse avete sentito che Magdi Allam, noto giornalista che si era convertito dall’Islam al cristianesimo, ha lasciato la chiesa. Se ne è andato perché non accetta un’impostazione “buonista” che, a suo dire, ha messo da parte l’esigenza di affermare la verità di Gesù Cristo e di combattere contro la “dittatura del relativismo”. Non gli va, inoltre, lo stile di dialogo che questo papa ha incoraggiato, ricevendo addirittura la delegazione islamica. Ma qual è la verità del cristianesimo, se non l’amore? La gloria di Dio appare in questo modo.

2.     Un altro aspetto dell’amore è che corrisponda a un comandamento. Ha una forza obbligante, come ogni comandamento. Ma è un comandamento nuovo, poiché l’obbligo non deriva dalla coercizione, ma dall’adesione, dall’aver intuito qualcosa di bello e promettente. È quello che molti percepiscono in relazione all’attuale pontefice: vedi che i suoi gesti di affetto, di accoglienza, di carità costituiscono per lui una sorta di imperativo. Ma è un imperativo che gli esce spontaneamente e al quale ci crede. A volte noi facciamo dell’amore un consiglio opzionabile o un comandamento senza adesione interiore. Nel primo caso lo riduciamo a una prerogativa part-time, legata ad alcuni interventi filantropici, nel secondo poniamo dei gesti senza troppo coinvolgimento. Dobbiamo sempre vigilare perché, quando non accogliamo il comandamento dell’amore, altri comandamenti sono in agguato. Dell’opportunismo, del calcolo, del moralismo, del ritorno pubblicitario, della convenienza. Ma queste derive non solo ci rendono poco solidali con gli altri: tradiscono quello che siamo. Perché se siamo stati creati da un Dio che è amore, di amore siamo fatti e di amore ci alimentiamo. Il comandamento non salvaguarda una nobile altruistica propensione, ma salvaguarda la nostra identità. Non amiamo per risolvere i problemi dell’umanità, ma per evitare di perdere la nostra. Ecco perché è così importante.

3.     Infine l’amore cristiano ha un termine di riferimento costante: come io ho amato voi. Come. Il cristiano trova le misure dell’amore nelle misure di Gesù. È una tensione inesauribile, ma salutare, che impedisce all’amore di confondersi, di sottosvilupparsi. Perché può capitare che le nutrie divengano più importanti degli uomini e che a Treviso la loro causa trovi più spazio nei giornali più di quanto non ne abbia il neonato centro d’ascolto delle parrocchie cittadine. Ma, per cercare questioni più rilevanti: quello che sta accadendo in Francia, con il riconoscimento dato ai matrimoni omosessuali, pratica dell’adozione compresa, è in sintonia con il “come” di Gesù? E anche in Italia il tentativo di far passare l’idea che siamo un paese retrogrado perché non ci apriamo a simili conquiste di civiltà. Come io ho amato. L’amore di Gesù è dono, reciprocità, rispetto. E lo è di tutti, anche di un bambino che ha diritto ad un padre e a una madre e non è l’oggetto delle tue rivendicazioni e conquiste.

Il comandamento nuovo di cui ci parla il vangelo trova oggi una singolare corrispondenza con quei cieli e terra altrettanto nuovi di cui ci parla l’Apocalisse. Cieli e terra crocevia di quella città che scende dal cielo e ridisegna la convivenza degli uomini. Il comandamento dell’amore allora non è poesia per cuori romantici, ma la modalità con cui i discepoli di Gesù partecipano alla costruzione del suo Regno e con lui dicono: Ecco, io faccio nuove tutte le cose.