domenica 26 aprile 2015

Omelia 28 aprile 2015


Quarta domenica di Pasqua

Alcuni commenti che sono stati postati su facebook dopo la tragedia del Mediterraneo più che creare indignazione lasciano senza parole. Perché ti chiedi se chi ha scritto certe frasi, oltre ad aver perso di vista la pietà, non abbia abdicato anche all’umanità. Settecento persone annegate? Eh, le navi affondano... Sempre troppo pochi. Se ne stessero in Africa. Settecento parassiti in pastura.

Nella rete tuttavia ci sono anche prese di posizione, distanze ed accuse feroci rispetto a chi scrive espressioni del genere. E questo ci fa capire che le due immagini che ritornano nel vangelo di oggi sono di straordinaria attualità: nella vita puoi essere un pastore o puoi essere un mercenario. E non solo in relazione ai migranti, ma anche come genitore, come educatore, come insegnante, come politico, come prete, come amico… Quando hai delle persone che ti sono affidate, questa alternativa si apre continuamente di fronte a te.

E Gesù ci insegna a diventare pastori come lui. Chi è il pastore? Che cosa lo distingue dal mercenario?

1.    Il pastore è qualcuno di bello. L’aggettivo in greco è proprio questo: kalós. Tu sei pastore quando indichi e interpreti qualcosa di bello. Semina bellezza. La bellezza è un frammento della vita di Dio, del suo modo di vedere le cose, del suo mistero, qualcosa di eterno. Abbiamo visto in questa settimana l’approvazione della legge sul divorzio breve. Non c’è il rischio che questa nuova prassi porti con sé la banalizzazione dell’istituto matrimoniale? Lo si può liquidare velocemente e lo stato ti aiuta. Come dire: il matrimonio dura finché dura, non ti preoccupare. E mentre vediamo grande impegno per approvare una legge come questa, non ne vediamo altrettanto nella difesa delle politiche familiari, come quando ti capita di fare i conti con un figlio disabile, come emergeva questa settimana nel dialogo con alcune famiglie segnate da questa problematica e alle prese con la guerra annuale dell’insegnante di sostegno. Fai vedere che la vita può essere qualcosa di bello, che la famiglia può essere qualcosa di bello.

2.    Il buon pastore conosce e dà la vita per le pecore. È un atteggiamento diverso da quello del mercenario che, quando vede venire il lupo, abbandona il gregge e fugge. Le pecore non gli appartengono. Il pastore rimane, senza orario, senza paura di reagire contro il lupo in agguato. Il pastore bello non pensa di mettere in salvo la vita. C’è quando hai bisogno. Provate a pensare alle fughe. Dalle proprie responsabilità. Professionali, sociali, famigliari, comunitarie. Le pecore non gli appartengono. E di fughe, tattiche, qualche volta ben camuffate, ce ne sono parecchie. E molte di essere riguardano padri e mariti. Mi pare che in questo paese ci sia un’identità maschile segnata da modelli culturali non ben… aggiornati. Anzitutto c’è un’esasperazione del lavoro che porta a perdere il contatto con la moglie e i figli. “Ora abbiamo un impegno economico cui far fronte, osservi, poi ci riprenderemo”: ma quel poi non arriva mai e ti allontani sempre di più. Ma c’è anche una certa sopravalutazione del ruolo che porta ad anacronistiche pretese, come quella di seminare i vestiti in giro mentre ti spogli, tanto c’è tua moglie che li raccatta: lei, del resto, è a casa tutto il giorno! L’uomo è l’uomo, non può fare certe cose. E poi la latitanza dai luoghi dell’educazione: la scuola, la parrocchia. Non ho tempo. Però fatalità il tempo per gli amici e per il giro in moto c’è! E se tua moglie ti fa notare che qualcosa non va concludi, supportato dai tuoi compagni di merende, che le donne sono tutte uguali e non sono mai contente. Forse la logica del mercenario non se ne sta solo sulle rotte clandestine del Mediterraneo. Percorre qualche volta anche le nostre case e il lupo divora serenità, condivisione, unità, speranza. Divora anche il futuro equilibrato di un bambino. Il buon pastore dà la vita.

3.    E infine il pastore vero ha anche altre pecore che non sono di questo ovile. Anche queste deve condurre. Sei pastore se non ti prendi a cuore solo ciò che sta nel recinto di casa tua, ma anche una realtà più ampia che ti è affidata perché possa essere partecipe di una storia di vita. Per questo Gesù si fa pastore, perché allunga le strade di Dio. Dove ti dà appuntamento il Signore? In parrocchia, magari allargando lo spazio di presenza, non solo nel momento in cui fai l’animatore o il catechista. E in relazione ai problemi di una città, alle esigenze di questa nostra società: la presenza dell’AVIS ci ricorda oggi anche questa forma di partecipazione mediante la quale materialmente regali ad un altro che non conosci, qualcosa di te! La tua vita scorre oltre le tue vene! E cresce una mentalità universale con la quale perlomeno smetto di allinearmi a visioni riduttive, segnate dai confini dall’orto di casa, cercando di aprire un po’ di più il cuore e la mente a quello che succede dall’altra parte del mondo.

Pastori o mercenari? Il pastore, quello vero, non cessa di dirci che la vita bella è la vita donata e che nella forza di alcune decisioni radicali c’è una sorpresa. Quella di diventare se stessi e quella di aiutare gli altri ad esserlo.

mercoledì 22 aprile 2015

Funerale Emilia Gallina


Funerale Emilia Gallina
 (S. Agnese 22.04.2015) Rm 8,31-39 – Mt 6,25-34

Ci sono persone che camminano sulla terra ma che portano con sé la leggerezza del cielo. Persone che ti passano accanto e ti lasciano sulla pelle una carezza quasi impercettibile della quale, quando ti rendi conto, ne scopri la necessità. Persone che sembrano tenaci custodi di una dolcezza sopravvissuta ed esule che prepotentemente rivendica diritti di cittadinanza. E non sai, quando incontri questa gente, se sia l’ingenuità a condurli o quella beatitudine riservata ai piccoli con la quale Dio, ancora una volta, confonde la sapienza del mondo.
Emilia era un riflesso di cielo, occhi di benevolenza nei quali l’Onnipotente si tuffava e lasciava intravedere riflessi del suo mistero: di pazienza e di attesa, di stupore e tenerezza, di fiducia incondizionata donata ad ogni uomo. Sentimenti divini prestati ai traffici di una donna che accostava la vita con incrollabile speranza. Non preoccupatevi: guardate gli uccelli del cielo, guardate i gigli del campo. Una pagina che insegna a ridisegnare la vita sulle strade di un Dio provvidente che non viene mai meno e che invita a fidarsi di lui.
  1. Ed Emilia si è fidata innanzitutto nel 1985, quando suo marito Sergio se n’è andato. Tre figli da far crescere e una vita familiare da sostenere. Ma prima delle responsabilità economiche c’era un legame da custodire, con uno sposo e un padre. Una memoria che Emilia ha sempre alimentato con grande tenacia in quella relazione che sentiva più forte della la morte: Ricordatevi che un papà in cielo vale molto di più di un papà sulla terra. Lei faceva fatica a identificarsi nei pressi della vedovanza e forse non è un caso se Emilia ha deciso di andarsene proprio oggi, anniversario del suo matrimonio con Sergio avvenuto il 22 aprile 1961. Finalmente lo festeggiano insieme, ancora una volta. Quello che costruiamo nell’amore non va perduto: lo ritroviamo nel mistero di Dio arricchito delle nostre attese, delle sofferenze che attraversiamo, della nostra voglia di immaginarci ancora insieme. Non temere: ci si ritrova.
  2. Ma una famiglia non è solo ricordi da alimentare: ci sono le responsabilità da assumere, specie se hai dei figli a carico. Ed Emilia. sulle strade della Provvidenza e della fiducia. ha incrociato una nuova pagina di vita, quella dell’insegnamento della religione a scuola. Un ambito dove ha dato il meglio di sé e che paradossalmente non avrebbe aperto se non fosse rimasta sola. Se la vita chiude le porte, il Signore le riapre - diceva Emilia - anche quando ti sembra impossibile. Diciannove anni di cui diciassette alle medie di Paese tessendo una grande pagina professionale ed educativa. Una media di seicento studenti all’anno che lei conosceva per nome. E quello che immancabilmente emergeva era il credito di fiducia che lei attribuiva ad ognuno. Mai azioni disciplinari, neanche nei casi più difficili, e se talvolta richiamava qualcuno, la prima a soffrirne era proprio lei. Lo stesso atteggiamento ritornava a catechismo in parrocchia: a volte io la incoraggiavo ad essere un po’ più …energica, ma sapevo che erano parole al vento. Lei era sempre pro reo, non solo in dubio ma anche in flagranza. “Ma, guardi che preso da solo non è così… Bisogna conoscere anche la sua famiglia… Sta attraversando un brutto momento”. Ogni tanto io ci pensavo e mi dicevo: guarda, Dio è proprio così. Non cessa di aspettarci e anche quando lo mettiamo in croce; quelle mani inchiodate e distese gli servono per dire le misure del suo amore. Chi ci separerà da quell’amore? Su Dio non ci convincono i ragionamenti, ma solo i sentimenti, i suoi che egli affida a uomini e donne che ne divengono interpreti e ci regalano la certezza che egli non si è dimenticato di noi.
  3. Ma i sentimenti di Dio Emilia non se li inventava. Li scopriva e li maturava in una relazione che si nutriva di ascolto, di preghiera, di eucaristia quotidiana. La vedevi qui in chiesa dopo la messa, ancora assorta a pregare, tanto che ti spiaceva disturbarla. E quando veniva in canonica per il servizio pomeridiano del venerdì se ne stava in ufficio con il rosario in mano. E poi preparava il the che solo raramente le abbiamo visto bere perché di venerdì un po’ di mortificazione ci stava bene. Emilia non viveva gioie superficiali: il suo sorriso era frutto di una paziente gestazione che avveniva anche nel groviglio dei pensieri che talvolta la rapivano. La fede non è un dolcificante che inganna le pagine oscure della vita: è piuttosto lotta, tenace abbandono anche quando l’esistenza ti mette alla prova. Lo aveva ben capito Emilia in questi ultimi giorni di ospedale, quando la situazione stava precipitando. Ho paura, diceva ogni tanto ai suoi familiari. Tranquilla, Emilia, la paura ce l’ha avuta anche Gesù. E dopo l’unzione degli infermi, la difficoltà a parlare non impediva di leggere sulle sue labbra il grazie più volte ripetuto che diventava il suo congedo da questo mondo. Grazie! Siamo noi che te lo diciamo, cara Emilia, per quello che sei stata e per quello che ci hai dato. Bisogna prendere la vita col sorriso, hai detto ai tuoi figli dopo la morte di Sergio. Oggi facciamo nostro questo invito custodendo con gioia il tuo affetto e la tua testimonianza di fede.  
 


 


Omelia 19 aprile 2015


Terza domenica di pasqua

I ricordi, queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo, questo strascico di morte che noi lasciamo vivendo i lugubri e durevoli ricordi, eccoli già apparire: melanconici e muti fantasmi agitati da un vento funebre. E tu non sei più che un ricordo.

Sei trapassata nella mia memoria.

 

È una poesia di Vincenzo Cardarelli che parla di ricordi: essi sono come fantasmi agitati da un vento funebre. Ricordi come qualcosa di triste: melanconici e muti dicono la realtà di un trapasso. A volte pensiamo che anche Dio e l’esperienza della fede siano così, come emerge dal vangelo di oggi: Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. I discepoli fanno fatica a credere nella risurrezione.

Ecco, allora la domanda: la tua fede è legata a fugaci e lontani ricordi o è l’incontro pasquale con il risorto? Hai incontrato Gesù o hai incontrato un fantasma? Quali passaggi ci invita a fare Gesù? Nel mezzo, nel corpo, nella testimonianza.


  1. Anzitutto il vangelo dice che Gesù in persona stette in mezzo a loro. Stette traduce il verbo greco ístemi che vuol dire fermarsi, starci ben saldo. Dove sta saldo Gesu? In mezzo a loro. Gesù ha in mente una comunità di fratelli in cui lui sta al centro. La fede pasquale nasce quando incontri il Signore presente nella comunità che si riunisce in nome suo. Questo aspetto ci fa riflettere su due versanti: il primo è legato a chi ha preso una certa distanza dalla comunità e qualche volta ha la pretesa di essere anche meglio di coloro che la frequentano. Guarda che la fede cristiana non è mai un fatto privatizzabile e quando perdi i fratelli rischi di perdere anche Gesù. Il secondo è l’invito, rivolto anche a chi frequenta, a chiedersi se al centro di quello che facciamo ci stia davvero Gesù e se lui si stia fermando. Perché può capitare di fare molte attività e di perdere di vista lui. E può anche capitare di chiedere un incontro con lui, ma senza sostare troppo. Un religioso che fa fatica a diventare credente. Una messa e dopo tutti a cena. Una benedizione della fabbrica e poi bestemmie come prima. Un momento di raccoglimento per l’anniversario dell’eccidio ma le guerre continuano a casa nostra. Stette in mezzo a loro. Custodisci l’incontro.
     
  2. Un altro tratto del risorto è l’esperienza della sua corporeità: «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Una delle prime eresie con cui si è confrontato il cristianesimo era il docetismo. Parola che deriva dal greco dokein, apparire. Invece Gesù si fa vedere, toccare, addirittura mangia una porzione di pesce arrostito. E questo per dire la consistenza dell’esperienza corporea. Il cristianesimo non è come alcune religioni dell’oriente che predicano il distacco dalla materia. Il cristianesimo annuncia la risurrezione della carne. Ecco perché il nostro corpo è così importante.
    A volte pensiamo che alcune posizioni cristiane che riguardano la corporeità siano fondate sul disprezzo e sul rifiuto del corpo. Invece è proprio il contrario. Pensate all’esperienza della sessualità: la chiesa che sembra fuori dal tempo perché ti dice di aspettare, di essere padrone dei tuoi gesti, di capire quello che c’è in gioco. È un modo per affermare che il corpo non è solo gioco di ormoni: è luogo di una vita nuova in cui anche i gesti hanno valore. Pensate anche all’assistenza dei malati. Dove è nato l’ospedale? In casa dei cristiani, per affermare che anche il corpo di un malato è luogo di incontro con il Signore. Dio non perde niente di quello che siamo: nessuna lacrima, nessun sorriso.
     
  3. Infine il Signore risorto lo si incontra nella testimonianza. Della sua vita, della sua morte, della sua risurrezione. Di questo voi siete testimoni. In greco il termine è martyres. Vediamo che il martirio in questo tempo è una pagina di sorprendente e triste attualità. Ma quella pagina ha altre espressioni, molto più semplici e feriali nelle quali il Signore si fa presente. E tutti possono prendervi parte. Anche un bambino. Ieri ho incontrato una coppia che da qualche anno convive. E la loro bambina di 4 anni ha detto: come mai tu e papà non  andate alla comunione? E questo è bastato perché i due si presentassero a chiedere del matrimonio. Gesù risorto appare quando lo testimoni e ti lasci raggiungere dalla testimonianza. E allora cessa di essere un fantasma e riconosci che è più vivo di quel che avevi pensato.
     
    Ecco, chi è Gesù risorto? Lontano e fugace ricordo o colui che è risorto e vivo? Le sorprese di Dio non sono finite e nell’esistenza di ogni giorno, nella carne che ti appartiene lui ti dà appuntamento.

domenica 12 aprile 2015

Omelia 12 aprile 2014


Seconda domenica di Pasqua


Ci si sta preparando all’ostensione della Sindone e com’era prevedibile si accendono i dibattiti sulla verità di questo lino. «Quella della Sindone è la storia di una incredibile leggenda […] fatta passare dalla Chiesa per “autentica”». L'ha scritto recentemente Paolo Mieli, giornalista e storico, su due intere pagine del Corriere della Sera. Quello che è singolare è che mentre si cerca di avvalorare tale tesi, venga ignorata quasi totalmente la mole di ricerche scientifiche che hanno rivelato tutto ciò che quel telo contiene di “storico”, visibile e microscopico. Esse documentano un'immagine la cui formazione non si può spiegare scientificamente e che però corrisponde alle descrizioni del Vangelo. Il che rende altamente probabile la sua autenticità. Se dobbiamo fare scienza, dobbiamo metterci di fronte a tutta la realtà, senza selezionarla in base alle nostre idee. Questa vicenda ci riconduce ancora una volta all’esperienza della fede: come si diviene credenti? C’è uno spazio di ragionevolezza che dia solidità umana a questo atteggiamento?

Tommaso ci guida nel cammino. Lui è il “Gemello”: gemello delle nostre incertezze e delle nostre aperture, dei nostri sospetti e della ritrovata possibilità di credere. Che succede a Tommaso?

  1. Anzitutto i vangeli ci mettono di fronte a un’assenza. Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro quando venne Gesù. Dov’era Tommaso in quel momento? Non lo sappiamo. Sappiamo però che quell’assenza pesa sulla sua vicenda credente. Ecco, quando non ci sei la tua conoscenza del Signore si indebolisce. L’incontro con il Signore è custodito in un’esperienza di comunione, è custodito dalla fede di chi vive la medesima avventura credente. Oggi noi vogliamo privatizzare la fede e ci dimentichiamo che la professione personale della fede è sempre collegata a quella comunitaria: io credo-noi crediamo. La fede non te la inventi ma ti è sempre consegnata da una comunità che te ne fa dono e se prendi le distanze da tale comunità anche la tua fede ne esce indebolita.
  2. Tommaso ad un certo punto rientra ma quella distanza lo ha trasformato: invece di accogliere con gioia il racconto degli amici inizia ad avanzare pretese. Se non vedo il segno dei chiodi e non metto la mano nel suo costato non crederò. Sembra una richiesta legittima quella di Tommaso che non si accorge tuttavia di limitare le sue possibilità di indagine e di conoscenza. Lui vuole conoscere mettendo le mani, manipolando con i propri criteri. A volte questo è l’atteggiamento che anche noi abbiamo e che ci preclude le strade di Dio. Oggi noi siamo sudditi di un sistema sperimentale dove riteniamo che il criterio del vero debba essere affidato alla scienza. È vero ciò che può essere riprodotto in laboratorio. È proprio così? Ma l’incontro con Dio non è la combinazione di elementi chimici! L’incontro con Dio è un rapporto interpersonale: e le persone si conoscono nel rispetto, nella libertà, nella gratuità. Quand’è che hai conosciuto qualcuno? Quando hai preteso il suo DNA o quando ci sei stato insieme? Nei confronti di Dio noi abbiamo tante pretese: se interviene in certe circostanze, se la messa è in una certa maniera, se i fatti della vita sono spiegabili. Ho già deciso come dev’essere Dio! E se avesse qualcos’altro da dirti? Un altro volto da mostrarti? Passa dalla pretesa alla sorpresa!
  3. E infine Tommaso riconosce il Signore. Otto giorni dopo. E il Risorto gli mostra le ferite. Tommaso però mette via le sue pretese. Il vangelo non ci dice che abbia messo la mano. Ci ricorda invece la sua professione di fede: Mio Signore e mio Dio! Che cosa ha visto Tommaso? Come è nato il credente? Tommaso ha visto una trasformazione possibile, più forte della morte. Ha visto che la ferita può essere una feritoia, può essere attraversata dalla luce. Ecco, credenti non si diventa per ragionamenti, per estenuanti confronti fede-ragione. Si diventa per la forza della pasqua, quando sui terreni delle fatiche e delle ferite umane scopri che si sta aprendo un varco. A volte noi ci portiamo dietro numerose ferite: della nostra infanzia, dei rapporti mal gestiti, di parole pesanti come pietre, di rimorsi e di rammarichi. Prova a vedere se la ferita può ospitare un po’ della luce di Dio. Il biglietto da visita con cui il Risorto si presenta è pace e perdono. Tu incontri il Signore se lasci che questi atteggiamenti trasformino la vita.
    Molti altri segni sono stati compiuti da Gesù. Di che segni si tratta? Di quelli non scritti che, ovunque c’è un discepolo, possono essere posti e diventare nuova occasione di incontro di Dio e della sua sorprendente iniziativa nella vita degli uomini.

lunedì 6 aprile 2015

Omelia pasqua 2015


Pasqua 2015

Ieri un giornalista mi chiama: «Ha sentito che cosa è capitato in Sicilia? Il Vescovo di Noto ha fatto la predica con le canzoni di Noemi e di Marco Mengoni. E lei domani ha qualcosa di strano?». Non gli ho dato molta retta ma nel pomeriggio ho avuto anch’io un’idea musicale perché c’è un gruppo il cui nome potrebbe dare il titolo al giorno di pasqua: Rolling Stones. Avete già capito perché! Pietre che rotolano. La pasqua è la festa di una pietra che è stata tolta da un’apertura liberando un varco inedito verso qualcosa che sembrava inaccessibile: la morte. E da quando questa pietra è stata rimossa altre pietre hanno iniziato a rotolare. Quale pietra ti pesa nel cuore? Quale macigno sembra fare da padrone nella tua vita? Il masso dell’illusione divenuta delusione, dello sconforto che annega i tuoi giorni, del rancore che si è trasformato in distanza e indifferenza anche dalle persone più care? Oggi Dio ti invita a percepire il brivido dei suoi Rolling Stones, delle sue pietre rotolanti. E ti invita a farlo come Maria di Magdala, come Pietro e come il discepolo amato.

1.    Maria di Magdala: raccogli una storia antica. Maria si reca al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio e, in quell’oscurità, vede che la pietra era stata tolta. Perché Maria si reca al sepolcro? Perché il cuore di una donna non trova facile consolazione: ripensa al cammino con Gesù, ripensa a quei momenti in cui l’ha visto morire in croce. Mentre i discepoli se n’erano andati lei era rimasta. Le pietre si muovono quando ritrovi un cammino antico in cui il Signore è stato tuo compagno di viaggio, quando torni a ricordare la sua parola e i momenti che hai trascorso con lui, forse anche quelle relazioni buone nelle quali un tempo ti ha custodito. Quelle relazioni che oggi hai interrotto e sulle quali non sei più disposto ad investire nonostante qualcuno bussi alla tua porta, nonostante qualcuno ti chieda perdono. Non lasciare che l’oscurità imprigioni la tua speranza: recati al sepolcro dove hai seppellito tuo fratello e come Maria di Magdala lascia che il Risorto ti sorprenda.

2.    Pietro: fai attenzione ai segni. Pietro Arriva dopo ma entra per primo. Pietro entra nella cavità sepolcrale e inizia a guardarsi attorno. Osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Pietro comincia a mettere insieme i pezzi, a capire che cosa fosse successo. Fosse stato trafugato il corpo di Gesù i ladri non lo avrebbero certo spogliato e non si sarebbero attardati a piegare il sudario. C’è qualcosa di nuovo che sfugge al controllo, alle previsioni. Ecco, le pietre si ribaltano quando cogli la novità di Dio. Un papà ieri mi confidava di aver ridimensionato molto i tempi del suo lavoro. E tutto per una richiesta di suo figlio: «Quand’è che non vai a lavorare e possiamo stare un po’ insieme?». E mi ha confessato: «Mi sono venuti i brividi quando ho sentito queste parole». Prova a osservare che cosa sta succedendo intorno a te e prova a raccogliere i segni con cui il Signore risorto sta liberandoti dai macigni che gravano sulla tua esistenza e forse anche su quella degli altri.

3.    Il discepolo amato: credi. Anche questo discepolo entra nel sepolcro. Ma non si limita a fare ricognizioni. Dice il vangelo che lui vide e credette. È l’esperienza della fede che smuove le pietre. Però quel verbo che viene adoperato non ha una forma perentoria. Potremmo tradurre con: incominciò a credere. Questo spiega anche il versetto successivo: non avevano ancora compreso le scritture che egli cioè doveva risorgere dai morti. Ci sarà da aspettare ancora un po’ prima di vedere il Signore ma intanto Giovanni inizia a fidarsi, a percorrere una strada che ormai è stata aperta, anche se i risultati non sono visibili. Provate a pensare a quello che è successo in Kenya, a quei 142 studenti cristiani massacrati dagli shaabab islamisti. Fatti come questi ti fanno pensare che la pietra sia ancora ben ferma, al suo posto. Eppure nelle testimonianze appare la professione di fede di questi ragazzi che morendo dicono. «Gesù, ti prego, salvaci». Il discepolo amato ci dice: Credi, credi anche quando ti sembra impossibile, credi anche quando logiche molto più boriose e tracotanti sembrano avere la meglio sul mondo. Senti il fremito della roccia che si muove e attendi con fiducia l’imprevedibile di Dio.

sabato 4 aprile 2015

Omelia venerdì santo 2015


VENERDI’ SANTO 2015

Nel racconto della passione che abbiamo appena ascoltato ci sono ben ventuno domande. Punti interrogativi che ci fanno capire che la vicenda della morte di Gesù non è una storiella devota, neppure un rapido passaggio o un incidente di percorso verso il mattino della pasqua. Ventuno domande sono il crocevia delle inquietudini presenti nel nostro cuore, interrogativi che martellano nelle nostre vicende oscure, nei drammi dell’umanità, nelle conclusioni troppo veloci che appartengono alla fede.

Ci sono domande che pone Gesù e domande che pongono gli uomini. Alcune ci interpellano e ci provocano.

1.     La prima domanda la pone Gesù, per ben due volte: Chi cercate? È la grande domanda dell’uomo; la ricerca che troviamo già nel primo capitolo di Giovanni, con la chiamata dei discepoli. Ma se all’inizio del vangelo Gesù aveva chiesto “Che cosa cercate”, ora chiede “chi”. Dalle cose alle persone. Noi siamo assetati di relazione e di relazione autentica. Gesù ti invita ad entrare in rapporto con lui, a non farne solo una tradizione, ma un’amicizia, un legame. Chi è Gesù? Quale volto hai incontrato? E la pagina della passione costituisce una sfida, perché bisogna passare dai quadretti oleografici di Gesù al suo volto sofferente. Lì trovi il suo mistero, un Dio che si identifica con i derelitti dell’umanità, che si nasconde anche in fondo alle tue miserie, per mostrare misericordia.

2.     La seconda domanda è quella rivolta a Pietro dalla serva impertinente: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». È la domanda che chiede ragione della nostra fede. Che cosa rispondi quando qualcuno ti rivolge oggi la stessa domanda? I nostri silenzi per non creare imbarazzo, i nostri equilibrismi per non apparire fuori moda, qualche volta anche la bestemmia piantata nel nostro territorio come una radice velenosa dicono tutta la nostra complicità con il rinnegamento di Pietro. Posizioni che ancor più ci addolorano se pensiamo che a questa domanda qualcuno, proprio in questi giorni, in Kenya, sta pagando un prezzo altissimo. Non sei anche tu dei suoi discepoli? Il crocifisso che scopriremo tra poco e che stasera porteremo in processione è testimonianza di una fede antica, di nonni e di padri che in quell’uomo della croce hanno creduto, sperato, amato, tanto da custodirne l’immagine nel sacello dell’apostolo Pietro. Proprio a casa di colui che prima ha rinnegato il Signore e poi si è lasciato rinnovare dal suo perdono. Con un’altra domanda: Simone di Giovanni, mi ami tu?

3.     E l’ultima domanda è quella di Pilato: «Che cos’è la verità?». Ecco, tante volte ce lo chiediamo anche noi. In tante circostanze del complesso vivere odierno. Una domanda che ci facciamo anche nelle conflittuali vicende dei rapporti, concludendo talora che la verità è nostra e che accanitamente la dobbiamo difendere. E i nostri legami si lacerano. Che cos’è Signore Gesù la verità? Quale verità ci mostri dalla tua croce? È la verità dell’amore. Che abbraccia, che perdona, che crede nella recuperabilità degli uomini. Non rimanere prigioniero della tua verità, perché potrebbe essere la grande menzogna. Ricercala in quell’abbraccio spalancato, quello che anche tu sei invitato a riaprire, con tuo figlio, con tua madre e tuo padre, con tuo marito o tua moglie, con i parenti e i vicini di casa. Solo in quel momento tu scopri cos’è la verità.

Aiutaci, Signore, ad ascoltare queste domande, spacca con esse il nostro cuore indurito e all’ombra della tua croce insegnaci a trovare risposta. 

venerdì 3 aprile 2015

Omelia giovedì santo 2015


GIOVEDI’ SANTO 2015

Ci sono dei musicisti che, realizzando un’opera sinfonica, amano aprire la composizione con un pezzo nel quale anticipano i brani che seguiranno. Un’introduzione che serve ad aprire un varco e consentire all’ascoltatore di accedere con le emozioni e l’intelligenza a quanto verrà proposto. Questo brano iniziale si chiama ouverture.

Ebbene, anche la cena pasquale di Gesù è anticipata da una solenne ouverture, raccolta in quelle parole che abbiamo ascoltato: Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Avendo amato, amò. Tutta la vita di Gesù è stata guidata dall’amore e nell’amore Gesù consegna anche gli ultimi istanti. Chi vuol trovare l’opera sinfonica di Gesù dovrà cercarla sulle note dell’amore. E quell’amore si diffonde su tre movimenti: L’amore è nutrimento, l’amore è comunione, l’amore è servizio.  

1.    L’amore è nutrimento.  Il vangelo di Giovanni non si sofferma sui gesti del pane e del vino. Quei gesti erano già ben conosciuti dai cristiani ai quali l’evangelista si rivolge. Egli dunque può limitarsi a dire: durante la cena. Si sa bene che è quella Cena, quella di cui ci ha dato notizia Paolo. Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Gesù ha voluto assicurare il suo amore anzitutto ad un pezzo di pane. Poteva farlo in tanti altri modi, ha preferito il segno del cibo e i gesti di chi nutre. Di che cosa ti nutri? Chi ti nutre? Guarda che non tutto il nutrimento ti sostiene, non tutti ti offrono vita. Nell’eucaristia Gesù ha voluto racchiudere la sua vita, quella vita donata che vince la morte. Se tu mangi questa vita sei trasformato in questa vita!

2.    L’amore è comunione. Il cibo non solo ti nutre ma crea legami, condivisione. È brutto mangiare da soli, perché noi siamo affamati di prossimità. Gesù ha voluto custodire i suoi discepoli in un’esperienza relazionale segnata dall’amore. Perché questo dice la sua e la nostra verità. Gesù infatti con il Padre e lo Spirito vive una comunione profondissima. E noi che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio siamo fatti dello stesso DNA. L’eucaristia ce lo ricorda e ci rafforza in tale legame. Il Corpo di Cristo infatti non è solo il pezzo di Pane eucaristico che riceviamo, ma siamo ciascuno di noi, uniti al Signore Gesù. Non te lo dimenticare mai: non fare della comunione una devozione privata. L’eucaristia non è mai un affare privato: ti aiuta a scoprire una partecipazione comunitaria, i legami famigliari, le relazioni con chi ti vive accanto perché la comunione di Dio cerca ogni uomo.

3.    L’amore è servizio. L’evangelista Giovanni ce lo ricorda con il racconto della lavanda dei piedi: l’amore di Gesù è concreto e solidale. Un amore che si fa dono totale, nell’atteggiamento del servo. Secondo l’evangelista quell’asciugatoio che Gesù si cinge ai fianchi, quel grembiule improvvisato, non se lo toglie più. Gesù vuole farti capire che la vita realizzata è una vita donata nella continua dedizione agli altri, fino al sacrificio più grande. È stata bella per  me la testimonianza di una donna della nostra comunità che accudisce la mamma anziana e paralizzata. Gli arti rattrappiti e le piaghe nei piedi. Non è stato facile farsi carico dell’assistenza e soprattutto delle medicazioni. «Non riuscivo ad affrontare quelle emorragie. Mi veniva il voltastomaco», diceva questa donna. «Poi un giorno ho guardato il crocifisso e ho detto: Gesù queste sono le tue piaghe. E da allora lo faccio sempre». Ecco la concretezza del servizio, del grembiule che nel quotidiano siamo invitati a indossare! È questo amore testimoniato che rende la sinfonia cristiana un capolavoro, perché alle note di Gesù, al suo sacrificio, si uniscono anche le nostre note, in un dono che assume tante espressioni, quante sono le possibilità di metterci a disposizione degli altri.

Riviviamo ora il gesto di Gesù e in quel grembiule collochiamo anche la nostra vita.