mercoledì 6 novembre 2019

Omelia esequie Giuliana Toniolo


Omelia esequie Giuliana Toniolo Marchesan - 6 nov. 2019

(Rom 8,31-35.37-39 / Lc 24,13-35)


La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, due discepoli erano in cammino. Anche don Stefano ed io domenica sera eravamo in cammino, verso la casa di Giuliana. E in quel cammino, appesantito dalla tristezza per il messaggio che poco prima ci era arrivato, non eravamo da soli. C’erano Alfredo, Valentina, Leonardo, Davide, i famigliari di Giuliana e altre persone che le volevano bene. E c’era lei, Giuliana, che ci aveva appena lasciato, sul cui corpo, oltre all’acqua benedetta, scendevano lacrime, domande, inquietudine e la fatica di stare in un guado che non avremmo voluto attraversare. Anche noi eravamo simili ai discepoli di Emmaus, fermi col volto triste e incapaci di riconoscere il Signore. «Tu solo sei così forestiero a Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». A volte abbiamo l’impressione che il Signore sia forestiero, a Gerusalemme come a Godego, lontano dalle nostre tribolazioni, da quello che ci attanaglia il cuore, dalle nostre speranze di guarigione. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele. Quante volte anche Giuliana viveva il dramma delle speranze infrante, di fronte alle diagnosi cliniche che si susseguivano impietose: Ma possibie che par mi no rive mai nostra bona notissia? Giuliana però non si fermava a quelle sentenze e lei, indomabile, come spesso si definiva nei social, aveva intrapreso un cammino in cui, alla lucidità e alla grinta con cui viveva la malattia, si aggiungeva, insieme alla salutare presenza di tanta gente, la compagnia del viandante di Emmaus che regalava ai giorni nuova consapevolezza e profondità. Di questo singolare itinerario vorrei ricordare tre aspetti: i passi, le parole, i segni.


1.    I passi. Di passi Giuliana ne ha fatto davvero tanti. I passi della sua giovinezza, di una ragazza schietta e solare capace di colpire il cuore di Alfredo e di intraprendere una vicenda famigliare, i passi accanto ai suoi figli imparando a dosare tenerezza e libertà, i passi dell’esperienza professionale a volte non priva di fatiche. i passi - tanti! – in questa comunità parrocchiale che ha visto Giuliana muoversi tra questa chiesa, scuola materna, canonica e oratorio, senza guardare l’orologio, per sistemare dei fiori, riordinare gli armadi, fare catechismo, organizzare il grest. Erano proprio le doti organizzative a renderla così speciale, in un turbinio di attività dove Giuliana riusciva a incastrare tutto, compresi i suoi figli che spesso si trovavano, loro malgrado, a tenere tese le lunghe tovaglie dell’altare mentre la loro madre le percorreva in lungo e in largo col ferro da stiro. «Questo ze l’ultimo anno», esordiva. Ma era una specie di mantra che la rendeva ancor più convinta di quello che stava facendo. Venerdì scorso, quando ho visto Giuliana per l’ultima volta, mentre mi raccomandava di non dire troppe cose al suo funerale, io le ho chiesto: «E ti, cossa vuto dirghe a sta parrocchia?». Ci ha pensato, ma neanche tanto e con un filo di voce ha esclamato: «Grazie. Grazie parchè ze stato beo». I passi di Giuliana, che pure hanno attraversato una malattia dai tratti oscuri e impertinenti, alla fine sono passi di bellezza e di gratitudine, di chi, nonostante tutto quello che ha dato, si stupisce per la sproporzione di ciò che ha ricevuto. Grazie. Una parola importante che riempie la vita di verità e che ci aiuta a ricordare che quello che siamo, il bello che ci appartiene è legato ad un dono che dalle mani di Dio ci arriva rimbalzando nelle mani degli altri. Anche di Giuliana, alla quale anche noi oggi diciamo grazie.


2.    Le parole. «Non ci ardeva forse il cuore quando parlava con noi lungo la strada?». Il servizio nella catechesi dei ragazzi ha portato Giuliana a dare attenzione alla sua preparazione e ad approfondire qualche percorso biblico. Aveva una fede informata e formata all’ascolto, come testimoniano alcuni volumi della sua piccola biblioteca catechistica. Ma non era donna che si attardava tra i libri. L’ascolto di Dio per lei era collegato alla vita, a quello che succedeva e a quello che le succedeva. E come si metteva in ascolto, così parlava, anche al Signore, con la temerarietà di chi qualche volta metteva sottosopra anche il paradiso. «Coraggio, Giuliana, le avevo scritto il 2 ottobre. Oggi è il giorno degli angeli custodi. E lì con te ne hai qualcuno, con le ali e senza ali». Risposta: «A sto riguardo se sentimo». Come a dire: attento a non esagerare con gli angeli. Con lei non si poteva barare e non si potevano usare parole di circostanza. Specie nel momento in cui le si è profilata davanti la parola più impegnativa che non è da dire o da ascoltare, ma da portare: la parola della Croce. Verso metà ottobre don Stefano le aveva chiesto se avesse voluto la comunione. Risposta: «Ma mi soi in comunion col Signore?». «Me par de sì, aveva aggiunto don Stefano, te si in croze co lu». E a quel punto lei aveva annuito e le erano uscite due lacrime. Da quel momento la croce che d. Stefano le aveva regalato e che fino a quel punto era chiusa nel cassetto, aveva trovato posto poco sopra il suo letto, come se Giuliana e Gesù condividessero la stessa realtà. Stolti e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti. Non bisognava che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria? Perché bisognava? Per essere accanto a tutti i crocifissi, per aprire in ogni sofferenza un varco di libertà. Giuliana lo aveva compreso e lo aveva accolto, riguadagnando per sé le parole che abbiamo ascoltato poco fa: Chi ci separerà dall’amore di Dio in Cristo Gesù? Forse la tribolazione, la nudità, il pericolo la spada? Noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 


3.    E infine i segni. Essi raccolgono i nostri passi e le nostre parole e li trasformano in persuasione, in varco, in promessa. È quello che avvertono i pellegrini di Emmaus quando il forestiero che li accompagna fece come se dovesse andare più lontano. Gesù ci porta sempre un po’ più in là di quello che pensiamo, delle nostre umane destinazioni. E i viandanti che hanno assaporato la bellezza della sua compagnia, non se la lasciano sfuggire: «Rimani con noi perché si fa sera». Rimani con noi, Signore, perché il grande male che ci attanaglia è la solitudine, il vuoto che sperimentiamo sulla terra e il vuoto che talvolta vediamo nei cieli. Ed egli entrò per rimanere con loro. Anche per Giuliana è andata così, anche lei ha conosciuto il Signore nel momento in cui ha spezzato il pane, nel momento in cui ha ricevuto l’unzione degli infermi e la comunione. Allora i loro occhi lo riconobbero. Ecco il segno. Non è stato per niente facile l’approccio sacramentale, ma chi conosceva l’indomabile ha visto da quel momento la nascita di una nuova Giuliana abitata dal Signore. Una Giuliana che non aveva più paura della morte, ma ne parlava con tranquillità, a suo marito e ai suoi figli, a chi la andava a trovare continuando a ripetere: «Mi so in pace. Desso so in pace». Venerdì ha fatto chiamare anche me. Entrando in camera ho chiesto: «Eora, come zea?». Risposta: «Apri». «Apri cosa?» ho domandato, pensando di dover aprire una scatola o un cassetto. «Apri le tue braccia» ha aggiunto. Parlava di sé e parlava di Dio e ne parlava con le parole di un canto che in quel momento diventava la sua vita. Apri le tue braccia, corri incontro al Padre. «Sei pronta?». «Sì».

I passi, le parole, i segni. Anche Giuliana è stata un segno: della velocità della vita, della fragilità che ci appartiene. Ma anche della speranza che ci abita, dell’importanza dei legami e delle sorprese di Dio.

Apri le tue braccia, Giuliana. E in quell’abbraccio di risurrezione e di vita continua a rimanerci vicina, a vegliare sulla tua famiglia, sui tuoi amici e su questa comunità. 

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