lunedì 6 agosto 2018

Omelia 5 luglio 2018


Diciottesima domenica del Tempo Ordinario

Prima di valutare se una risposta è esatta si deve valutare se la domanda è corretta. È un’affermazione di Immanuel Kant, noto filosofo tedesco che alle domande era abituato. E anche noi facciamo tante domande, ma non sempre chiare e opportune, non sempre coerenti con le situazioni che viviamo. Così accade anche alla gente che ha mangiato i pani e insegue Gesù nel tentativo di non lasciarselo scappare. Rabbi, quando sei venuto qua? Una domanda che non c’entra niente con quello che ha fatto Gesù e con quello che Gesù voleva far capire. Per questo Gesù risponde: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». Che vuol dire: a voi interessa unicamente la pancia piena. Ma guardate che la vita non è solo pancia! Cercate il cibo che non perisce, ma quello che dura per la vita eterna. Qual è questo cibo di cui il Signore vuole che ci nutriamo? Il cibo è lui, è la vita che lui ha in mente. Ma per nutrirsi di quel cibo occorre imparare uno stile, un altro modo di …mangiare. E per questo le folle chiedono: Che cosa dobbiamo fare? Come possiamo accedere a questa risorsa di vita?

1.    Innanzitutto è un cibo che domanda la fede. «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Smetti di andare dietro a tutte le sciocchezze, le illusioni, le mode, la superficialità che occupa il divertimento, l’informazione e credi in Gesù e nel suo vangelo. Pensate al tempo che gli italiani hanno perso in questi mesi in una trasmissione dai densissimi contenuti umani, morali, famigliari (!): Temptation island. Uno share televisivo altissimo e, stranamente, tra i giovanissimi dai 15 ai 24 anni che normalmente sono i meno coinvolti dalla TV. Un brutto segnale che ci dice di che cosa ci nutriamo: di trasgressione, di invidia, di insidie, come se la pagina dell’amore umano potesse regalarci solo queste esperienze deteriori. E ci stupiamo perché la gente non si sposa. Credi che c’è un altro mondo, un altro modo per giocare la vita ed esserne nutriti. Non comportatevi più come i pagani, raccomandava Paolo. Il vangelo è quello di Gesù, non quello di Maria de Filippi.

2.    Il cibo di Dio ci viene dato col coraggio di accogliere la novità di Dio e di non rimanere imprigionati di un passato che non nutre più. La gente dice a Gesù: Tu vuoi darci il pane? Il pane lo ha dato Mosè ai padri nostri nel deserto: Diede loro un pane dal cielo. E Gesù che ribatte: In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. La mamma degli israeliti marciva il giorno dopo, perché dovevi fidarti ogni giorno di Dio. Tu trovi vita vera se la smetti di ancorarti ad un passato senza presente, ad una tradizione senza profezia, se la smetti di ritenerti cristiano solo perché sei nato in un paese con una storia cristiana, anche perché non è detto che quella fede sia ancora tale. Gli episodi contro gli stranieri che si sono sommati in questi giorni interrogano la nostra fede, non solo per quello di cui è capace qualche psicopatico o qualche giovane annoiato, ma per il clima di ostilità che qualche volta appartiene ai nostri discorsi, ai nostri post, alle battute. E chiesa, messa, comunione come se niente fosse! Quella comunione deve farti venire il singhiozzo perché è vuota di Dio. È pane raffermo di chi ha smesso di ascoltare il Signore e si è fatto un Dio a proprio uso e consumo. L’Italia non è cristiana per il pane di Mosè, ma per il pane che oggi riusciamo a spezzare.

3.    Infine il pane di Gesù lo ricevi se lo chiedi. «Signore, dacci sempre questo pane». Il Signore ci nutre se ci interfacciamo con lui, se abbiamo ancora qualcosa da domandargli. Oggi la difficoltà è il rifiuto degli interlocutori, anche di quell’interlocutore che è Dio, perché abbiamo la pretesa di bastare a noi stessi e di essere autosufficienti in tutto. Ci piacciono i self made man ma anche questo mito che ha segnato l’impresa degli anni ’90 sta lasciando il posto a idee più partecipate del successo imprenditoriale, che valorizzano il lavoro di squadra. E se in squadra mettessimo anche il Signore? Forse alcuni problemi li risolve meglio di noi. Forse su alcune cose dovremmo arrangiarci come sempre, ma un po’ di luce in più la porteremo a casa e anche la certezza che non siamo da soli, specie quando attraversiamo momenti di fatica e di oscurità. Signore, dacci sempre questo pane, fa’ che ti sentiamo accanto, fa che ancora ci nutriamo di te.

domenica 1 luglio 2018

Omelia 1 luglio 2018


Tredicesima domenica del T. O.

In questo periodo si parla molto di migranti, di risposte efficaci da dare contro il traffico di esseri umani, di responsabilità dei governi, dell’azione delle ONG. Discorsi, come quelli piuttosto deludenti condivisi al vertice europeo: la collocazione dei richiedenti asilo avverrà su base volontaria da parte di alcuni paesi. Ma se non avveniva su base obbligatoria, come potrà avvenire su base volontaria? Intanto si muore e quelle piccole vite spezzate, i corpi di quei bambini raccolti da braccia pietose poco oltre le coste libiche, sono, insieme a un centinaio di naufraghi inghiottiti dal mare, la denuncia di una realtà inaccettabile che solo un cuore di madre o di padre può comprendere. Ebbene, nel vangelo di oggi c'è proprio un padre che ci dà appuntamento, un padre che supplica Gesù: La mia bambina sta morendo. È il grido che anche oggi riecheggia in cerca la nostra solidarietà, grido che martella la coscienza anestetizzata di un vecchio continente assente ed egoista, che sancisce il principio per cui chi approda in Italia approda in Europa, salvo poi fuggire di fronte alle responsabilità. È l’Europa il vero naufrago, in balia di onde opportuniste e menefreghiste tra cui scompare umanità e dignità.

Cosa dice Gesù al padre di quella bambina, come reagisce nel momento in cui forze oscure sembrano travolgere la vita?

1.    Non temere, continua soltanto ad avere fede. La fede è l’atteggiamento di chi si fida di Dio e crede che siano possibili altre strade, anche quelle che sfidano l’impossibile. Intorno a quel padre che invoca Gesù c’è infatti chi dice di lasciar perdere: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». E quando Gesù, nel tono della sfida, afferma che la bambina non è morta, ma dorme, addirittura lo deridono. È questo atteggiamento di rassegnazione, di supponenza, di scherno che impedisce il miracolo della vita. Non rassegnarti mai alla morte e alle sue tristi pompe funebri, perché la morte ha la meglio quando le si attribuisce il potere che non ha. Non solo la morte in mare dei naufraghi, ma anche la morte dei rapporti, della pace, della concordia, dell'onestà, della legalità: "Funziona così, non ci si può far niente…". Continua ad aver fede, continua a credere in un altro mondo possibile.

2.    Altro aspetto interessante è che Gesù si circonda di alcune persone, non molti a dire il vero: i genitori della bambina e i discepoli che erano con lui. Gesù lascia perdere la folla e vuole con sé la piccola comunità che lo sta seguendo e chi porta nel cuore una riserva di affetto, come solo un padre e una madre possono avere. Ci salviamo dal naufragio se stabiliamo rapporti di comunione, se stringiamo legami di solidarietà, di compassione. E noi qui ammicchiamo agli Stati Uniti perché ci seduce l’idea di armarci, di poterci difendere con una pistola, come non fossimo già sufficientemente armati di cattiveria, egoismo e bramosia di possedere, ritorsioni e vendette che lacerano anche i rapporti familiari e i momenti più sacri della vita, ivi compresi battesimi, matrimoni e funerali. E a soccombere sono anche i nostri ragazzi, piccoli naufraghi di adulti che hanno perso la rotta. Guarda che ci sono altre armi da usare: spara condivisione, vicinanza, affetto, perdono. Il contrario della morte non è la vita: è l'amore. Ama e allora la vita rifiorisce.

3.    Infine quella mano stesa e quell’invito di Gesù: Talità kum! Parole e gesti di risurrezione che continuano nell’invito rivolto ai genitori di dar da mangiare alla bambina. Come se Gesù volesse dirci: Io agisco, ma anche voi datevi da fare! Dal naufragio non ci si salva se rimaniamo con le mani in mano, ma se le prestiamo alla forza della risurrezione. Mani che possono avere tanti protagonisti come quelle di quell’iman musulmano che in Nigeria ha messo al sicuro 262 cristiani, salvandoli da un massacro e dicendo: sono musulmani. Quando c’è un naufragio non c’è un bianco o un nero, un cristiano o un musulmano. C’è un uomo che va salvato e ogni mano che fa questo è una mano prestata al Risorto. Che il Signore ci inviti a tirare fuori le mani di tasca, a spostarle dai tavoli di burocrati inconcludenti e ad operare per l’uomo. Quello che ci vive accanto, quello di cui ci sarà chiesto conto. 

sabato 30 giugno 2018

Omelia 24 giugno 2018


Natività di S. Giovanni Battista

Venezia, ponte di rialto. L’idea di unire le due parti della città attraversando il Canal Grande risale al X secolo, quando era stato realizzato un ponte di barche. A metà del XIII secolo il ponte di barche venne sostituito da una più solida struttura, sostenuta da pali. Nel 1554 la Serenissima pubblicò un bando per la realizzazione di un ponte di pietra. Dopo molte discussioni e polemiche si decise realizzare quello dell’ingegnere veneziano Antonio da Ponte, pensato con un'unica arcata  in modo da permettere agevolmente il transito in Canal Grande. Qualcuno si opponeva, tra cui una donna un po’ focosa che diceva che se il ponte non fosse caduto un fuoco poteva bruciarla. E i costruttori hanno realizzato una piccola scultura che rappresenta fiamme a lambire parti poco nobile della donna.

Realizizare un ponte è sempre una sfida. Forse però non ci sono solo difficoltà pratiche: ve ne sono anche di tipo culturale perché fare un ponte vuol dire ridisegnare la vita, le relazioni tra gli uomini, i confini e non sempre si è disposti a farlo. Non a caso questo è più il tempo dei muri che dei ponti.

La nascita di Giovanni Battista rappresenta un ponte. Un bambino sancisce un passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento. E neanche questo ponte è di semplice costruzione tanto che qualcuno rimane scettico, qualche altro prigioniero del passato. Accogliere la novità, i varchi di Dio è tutt’altro che semplice, anche per noi. Quali sono le difficoltà e come si superano?

1.    La prima difficoltà è rappresentata da Zaccaria. Quando l’angelo gli rivela i progetti di Dio e cioè che avrebbe avuto un figlio da Elisabetta, la moglie ritenuta sterile, lui non ci crede. E a motivo di questa mancanza di fede diventa muto. Ma siccome per fargli capire le cose gliele spiegano con i gesti, non doveva essere solo muto, ma anche sordo. Ecco: quando non accogli la novità di Dio diventi sordo e muto. Rimani prigioniero di te stesso delle tue idee e non hai più niente di buono da dire all’umanità. In questi giorni Melania Trump ha fatto parlare di sé, perché dopo aver visto la situazione drammatica dei bambini separati dai genitori arrestati ai confini del Messico, ha detto: «Abbiamo bisogno di vivere in un Paese che segua tutte le leggi ma anche che governi con il cuore». E la sua voce è rimbalzata nei social americani, da un telegiornale all’altro fino ad arrivare agli orecchi del suo presidenziale marito che mercoledì ha firmato un decreto per il ricongiun-gimento dei nuclei famigliari. Mentre avveniva questo, qualcun altro in Italia diceva che l’audio dei bambini che piangevano per l’assenza dei loro genitori era “spazzatura buonista”. Quale mondo sogna Dio? Attento a non essere sordo ai suoi appelli, perché se resti sordo diventi anche muto, ripeti slogan ma non è detto che sia quello che Dio ha in mente.

2.    Altro problema è la gente: volevano chiamarlo col nome di suo padre Zaccaria. La novità di Dio è bloccata dalle resistenze della tradizione, dal si è sempre fatto così. I ponti a volte sono distrutti ancora prima di essere costruiti perché non vogliamo oltrepassarli e ci sentiamo sicuri nella terra di sempre. Qual è la terra di sempre? Quella dei tuoi comodi che diventano abitudini e pretese sugli altri. Quella delle tradizioni che diventano dei contenitori vuoti. Quella che ci fa credere che siamo indispensabili e dobbiamo occupare un posto per sempre: senza di me non potete far nulla. Può dirlo solo Gesù Cristo. Prova a cercare qualche nome nuovo e prova a pensare che puoi essere anche tu un nome nuovo che porta un contributo nelle vicende di un paese, di un’associazione, di un servizio. Zaccaria vince il suo mutismo, quando reagisce alla pressione dei parenti e della tradizione e decide di dare al figlio il nome che Dio ha pensato.

3.    Il brano del vangelo si conclude con una domanda mista di attesa e di curiosità: «Che sarà mai questo bambino?». I ponti si costruiscono rimanendo aperti all’azione di Dio, accompagnando e scrutando la sua azione, i suoi modi di fare. Perché c’è una novità degli inizi e una novità del prosieguo. E questa novità passa attraverso le regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione. E allora i ponti si costruiscono con pazienza, anche quando l’arcata è difficile da realizzare. Non vengono i figli sperati: hai pensato a un affido? Matrimonio da preparare: che ne dici di mettere in conto anche il corso? Difficoltà di coppia: prima di rompere hai pensato di farti aiutare? La novità di Dio non è un fuoco di paglia. Ma brace che mantiene il calore. Ponti o passerelle? Il Signore ci sostenga nei passaggi che ha in mente e ci renda costruttori di novità.

lunedì 18 giugno 2018

Funerale Angelo Moresco


Funerale Angelo Moresco (18 giu. 2018)
(Rom  8,31-35.37-39 / Mt 6, 25-34)
Quando la vita ci sorprende con i suoi imprevisti possiamo rimanere disorientati, arrabbiati, tristemente rassegnati. 
Possiamo passare da un giornale all’altro recuperando la cronaca, indagando le cause che hanno determinato una tragedia, come se le informazioni tecniche fossero risolutive.
Possiamo cercare rifugio nelle parole della vicinanza e del cordoglio, peraltro necessarie,  sentendo però che esse solo fino ad un certo punto riescono a rompere il silenzio che vorremmo vincere.
Possiamo anche cercare un veloce riaggancio alla vita, ai suoi ritmi consueti, ma quando la morte ci ruba qualcuno di caro, la vita non è come prima e siamo poco convinti che the show must go on.
Ci rimangono strade di fede. La vicenda cristiana non ignora le domande dell’uomo, non ci risparmia l’inquietudine generata da alcuni eventi e non ci sottrae dall'esigenza di essere accanto a chi maggiormente patisce la scomparsa di una persona cara: Antonella, Angela, Alberto, i fratelli, la famiglia, l’azienda, gli amici.
Nello stesso tempo la fede cerca di percorrere strade di verità legate alla vita e al suo senso, ai percorsi degli uomini e ai confini che incontrano, a quello che si vede e si tocca e a quello che talvolta ci sfugge.
Su questi terreni poco frequentati il Signore ci dà appuntamento, per restituirci un po’ di sapienza in più e per accogliere le stesse persuasioni che Angelo oggi meglio potrebbe capire e farci capire. Ci sono tre movimenti della sua vita che costituiscono una forte provocazione, per come li ha vissuti, ma anche  per i significati che portano con sé: l’immersione, la corsa, il volo.
1.  Immersione. Angelo aveva un brevetto subacqueo e quel mondo sommerso lo affascinava, portando ogni volta in superficie il ricordo dei fondali misteriosi, della fauna marina incontrata, delle sorprese che la natura sapeva creare. E in quel mondo aveva sovente trascinato moglie, figli e molti dei suoi nipoti, contagiandoli con il suo entusiasmo. Immergersi. A volte ce lo dimentichiamo, ma nell’immersione è custodita la pagina primordiale della nostra vicenda credente. Battesimo vuol dire proprio questo: immersione. Non nei fondali caraibici, ma in quelli del mistero di Gesù Cristo, della sua morte e risurrezione, del suo amore. Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Vuol dire: Guarda che da questo momento sei immerso in una relazione d’amore, nell’abbraccio di un Dio che apre la sua famiglia anche per te. Un Dio che ti avvolge di tenerezza, ti accompagna con fedeltà, non ti perde neanche quando tu ti perdi. Ce l’ha ricordato S. Paolo: Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? …Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Dio ha stipulato una garanzia che sottrae la nostra vita al più devastante dei nostri nemici, la morte. Perché anche lui è morto e morendo è entrato in casa della morte e l’ha sconfitta. Io sono persuaso che né morte né vita,… né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore. Immergiti in quell’amore, ritrova il tuo battesimo, mantieni il tuo contatto con Dio e non lo abbandonare mai. Perché in quel legame c’è la tua vita, la mano che ti strappa dalle funi della morte.
2.   Corsa. Angelo però è anche l’uomo della corsa. Corsa vera e propria, perché in macchina non aveva certo paura dell’acceleratore. Lui alzava sistematicamente l’asticella del limite, cercava il brivido e qualche volta lo faceva venire anche agli altri… Ma la corsa di Angelo era anche quella dell’ambiente di lavoro, di un’azienda gestita con i suoi fratelli. E di questa corsa quotidiana, fatta impegni e responsabilità, di budget e di verifiche contabili, di tensioni e di “eliche umorali” che giravano vorticosamente... sorprendeva la capacità di Angelo di dedicare tempo anche agli altri. Perché, fosse un famigliare, un amico o un cliente, lui c’era. E c’era non per compiacenza o buona educazione, ma con l’entusiasmo e la verità. Hai bisogno? Ci sono! Ecco, anche noi nella vita corriamo abbastanza. E la corsa a volte ci travolge o travolge le persone che abbiamo vicino. Prova a fare due conti, sembra dirci oggi Angelo, forse mettendo in discussione anche le sue stesse corse. Prova a vedere se correndo hai trovato ciò che conta o ti sei perso qualcosa per strada: i valori importanti della vita, la capacità di non prenderti troppo sul serio, il tempo dato alle persone, la tua vita interiore. Guardate gli uccelli del cielo, ricorda Gesù. Non seminano e non mietono, eppure il Padre vostro li nutre. Guardate i gigli del campo, chi è vestito come loro? Non è l’invito all’irresponsabilità ma a ritrovare le corrette misure dell’esistenza, quelle che qualche volta ci sfuggono dandoci l’illusione che sia tutto nelle nostre mani e che tutto dipenda da noi. Fermati, respira. L’onnipotente è un altro. E se chi ha fatto le auto ha pensato di dotarle di un acceleratore e di  un freno, forse un motivo ce l’aveva. Ogni tanto, ricordati dell’altro pedale...
3.    Volo. E qui possiamo recuperare il terzo movimento di Angelo: il volo. Volare, dalla notte dei tempi, è il sogno dell’uomo e anche la passione di Angelo era nata da un sogno che lo aveva particolarmente colpito, tre anni fa: lui che pilotava un aereo e che lo faceva conoscendo a perfezione tecniche e strumentazione. E così in gran segreto si era iscritto al corso di volo. Forse era il modo con cui Angelo arrestava la corsa lavorativa e ritrovava se stesso, la sua interiorità, la semplicità del bambino che osserva e si stupisce. Perché, quando scendeva, i suoi racconti erano ricchi di paesaggi, di monti e torrenti, di aquile, di camosci, di meticolose descrizioni delle sue traiettorie. L’aliante. Catturare le correnti e salire in alto, lasciarsi portare da una forza che non generiamo, che non ci appartiene. Sembra la metafora della vita con Dio perché anche lui è un appassionato di volo e attraverso le sue correnti ci porta in alto. Non sappiamo bene quale fosse il rapporto di Angelo con il Signore, ma forse il suo ultimo volo ci ricorda un’ascensione più elevata di quella stabilita dall’altimetro dell’aliante, quella dei nuovi cieli e della nuova terra che Dio tiene in serbo per noi. Quando sabato Angelo tardava a rientrare, qualcuno diceva: «Forse ha trovato la corrente giusta». Qual è la corrente giusta? È quella che non ci schiaccia e sempre ci ricorda che la nostra vita è fatta ci cielo, di varchi oltre il visibile, di residenze non costruite dalle mani degli uomini. Al Cielo affidiamo dunque Angelo; Dio lo liberi da ogni zavorra che può aver appesantito la sua vita, gli apra gli orizzonti dell’eterno e restituisca anche a noi tutti un po’ di passione per il volo, per non essere imprigionati dalla terra e affidarci sempre a correnti ascensionali. Quelle che Dio ci regala e nelle quali continua a darci appuntamento. 

sabato 16 giugno 2018

Omelia funerale Bertilla Stangherlin


Funerale Bertilla Stangherlin (14 giu. 2018)

(Is 43,1-7 / Mt 11, 25-30)

Il medico che l’ha ricoverata la scorsa settimana ha chiesto: «Quanti anni ha?». «Ottantuno». «Povera donna, ha aggiunto senza conoscerla: ottant’anni di sofferenza». E in realtà era proprio così, perché Bertilla è nata con un ampio angioma che le occupava quasi interamente il volto, segnando pesantemente la sua esistenza. Inizialmente, con l’incoscienza dei bambini, cercava la normalità delle frequentazioni, delle amicizie, della vita in paese. Poi, complici anche ignoranza e cattiveria di parecchia gente, degli stessi coetanei, non è più uscita di casa, facendo coincidere il suo mondo con quello delle pareti domestiche, con un lavoro di sartoria abilmente imparato e con l’accoglienza che fratelli, sorelle, nipoti e alcune persone care non le hanno fatto mancare.

La sua vita corre su un crinale sottile tra la paura e il desiderio di uscire, tra le umiliazioni subite e la voglia di poter acquisire un diritto di cittadinanza in questo mondo talvolta crudele. «Va’ ti, che mi sto ben anca casa», diceva a chi la invitava ad uscire. Ma non era vero che stava bene, perché talvolta rimaneva prigioniera dello specchio, quasi ad interrogare i suoi giorni e la sua condizione. E aveva elaborato alcune strategie per ritornare nel mondo degli uomini, come quando si faceva accompagnare in macchina alla sagra del paese. E senza scendere dall’auto rimaneva a breve distanza dallo stand musicale, per udire le orchestre e vedere la gente che ballava. Per lei non c'erano danze. 

Ecco, di fronte, a questa vicenda umana, molte domande di Bertilla sono anche le nostre e, ragionevolmente ci chiediamo: cosa avrà voluto dirci il Signore attraverso questa sorella, di cui forse qualcuno si era anche dimenticato?

1.    Il Signore ci dice che ogni vita, in ogni condizione, è preziosa ai suoi occhi ed è degna di stima e di accoglienza. Oggi, ci ricorda spesso papa Francesco, viviamo pesantemente segnati dalla cultura dello scarto che ha imprigionato anche Bertilla tra gli scartati della terra. La cultura dello scarto nasce dalla selezione della specie, alimentata non solo da criminali di passati regimi, ma anche dai criteri dittatoriali con cui anche oggi dividiamo il mondo in belli e brutti, in fighi e sfigati, in gente libera di circolare e in chi se ne deve stare a casa sua. Abbiamo lo sguardo annebbiato e non riusciamo più a cogliere nelle persone il fuoco sotto la cenere, la dignità dell’uomo oltre le sue apparenze. E dimentichiamo quello sguardo divino che va all’essenziale: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni… Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo». Bertilla è un appello a guardare l’uomo in maniera diversa, a guardare talvolta anche se stessi in maniera diversa, perché l’uomo vede l’apparenza, il Signore guarda il cuore.

2.    Un altro messaggio che Bertilla ci rivolge è quello di non trascurare la forza del male. Di quello che la vita porta con sé e che ci lascia talvolta senza parole, senza spiegazioni plausibili. Ma anche del male di cui noi siamo artefici, che passa non solo attraverso i giudizi e le decisioni, ma anche attraverso i nostri sguardi, le nostre espressioni, le nostre battute. Bertilla sapeva riconoscere facilmente chi la osservava per curiosità o per compatimento e da essi si ritirava immediatamente, quasi fosse stata violentata. Ma quando coglieva uno sguardo di benevolenza, ti riversava una valanga di affetto: parlava, ricordava, interrogava, sorrideva… Sembrava in quel momento che i suoi problemi non esistessero più. E questo ci fa capire che se la forza del male è devastante, la forza dell’amore vince. Non ti dimenticare che l’amore è l’antidoto con cui Dio libera il mondo dalla cattiveria, dall’odio, dall’egoismo. Guarda che quello che ti deturpa il volto non è l’angioma ma l’indifferenza rispetto al male, la rasse-gnazione di fronte ai rapporti perduti e non più ricostruiti, la chiusura agli appelli dell’altro. Non lasciarti sconfiggere da questo morbo maligno. Libera l’antidoto che ci sottrae dalla forza della morte. Libera l’amore.

3.    Infine Bertilla ci parla con la sua morte, avvenuta in maniera inattesa e piuttosto veloce. Nonostante i suoi patimenti lei era una donna che non rinunciava alla vita. Ultimamente però, nella preghiera e nei sonni aveva spesso in mente la sorella Utelia, morta qualche mese fa, alla quale era molto legata e dalla quale si sentiva difesa. Diceva di vederla e di chiederle come stesse dall’altra parte. Suo cruccio era che la sorella non rispondesse. Chissà, forse ad un certo punto Utelia, che ben conosceva i patimenti della sorella, ha pensato di chiamarla con sé e di farlo ricorrendo ad un santo con il quale Bertilla aveva un rapporto molto stretto: S. Antonio. Non sappiamo come funzionino certe cose in paradiso, ma nella comunione dei santi le coincidenze hanno spesso misteriose ragioni. E così alla vigilia della festa di S. Antonio, Bertilla se n’è andata, cercando nei cieli quella gioia che a fatica ha assaporato sulla terra. Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati e io vi darò sollievo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore. Bertilla ha portato ogni giorno un giogo pesante. L’ha fatto con le sue fatiche e con le sue risorse. Il Signore Gesù ora le tolga quel giogo e la stringa nell’abbraccio della misericordia e della tenerezza. E le regali anche un po' di danza, nel suo paradiso. 


domenica 6 maggio 2018

Omelia 6 maggio 2018


Sesta domenica di Pasqua

Da qualche giorno il giardino della canonica è frequentato da tre gatti innamorati che miagolano, piangono, gridano e qualche volta ti svegliano anche di notte. A volte assomigliamo ai gatti: ci lasciamo travolgere dalle nostre emozioni, pensiamo che sia amore, invece è una strana miscela di istinti scomposti che non crescono e non ci fanno crescere. Ricordate il film di Troisi? Credevo fosse amore, invece era un calesse. A volte confondiamo le prospettive dell’amore o le riduciamo, alterandone l’identità. Nel vangelo di oggi Gesù ripetutamente parla di amore e raccomanda di amare. Ma che cosa intende, quale amore ha in mente?

1.    Intanto ci parla di un amore agganciato. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Vuol dire che l’amore si nutre, che ha bisogno di essere attaccato a una spina, altrimenti si affievolisce e muore. È quello che diceva San Giovanni: «Amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio …Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore». Dio è amore, non noi. Noi possiamo solo lasciarlo scorrere. C’è una polemica in corso perché una nuova norma scolastica prevedrebbe la partecipazione dell’insegnante di religione alla commissione di esame di terza media. E si scatenano alcune note associazioni anticlericali che hanno a cuore la laicità della scuola. Certo, l’insegnate di religione agli esami è proprio un affronto alla libertà della scuola e a ragazzi che non devono essere oppressi da poteri confessionali! Queste stesse associazioni invece tacciono quando una studentessa diciassettenne cade dalla finestra mentre era in gita scolastica, dopo essersi fumata uno spinello. Ma ecco le rassicurazioni della scuola stessa che ha a cuore la libertà dei ragazzi: «Hanno fatto una stupidata – si è affrettato a dire un collaboratore del dirigente scolastico. - Qualcuno dei ragazzi ha comprato dell'erba per strada, durante la gita a Napoli, e l'ultima sera prima del ritorno a Milano se la sono fumata in compagnia, hanno fatto branco. Voglio precisare - ha aggiunto - che la ragazza è una studentessa modello, che sono tutti bravi ragazzi e che gli accompagnatori sono tre docenti esperti». Ha comprato l'erba per strada. Normale. Come comprare le patatine. Dove li colleghiamo questi ragazzi? Abbiamo combattuto contro la religione, dichiarandola "oppio dei popoli"; la religione è sparita ed è rimasto l’oppio, e neanche metaforico!  Stacchiamo la spina di Dio e cosa resta?

2.    C’è una seconda caratteristica dell’amore. È un amore intenso. Gesù non si limita al comandamento antico, amare Dio e amare il prossimo. Prepara il suo comandamento. Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. C’è un come che indica una misura diversa nel modo di vivere l’amore. Avete sentito di quella donna senegalese licenziata da una casa di riposo perché gli anziani non gradivano il colore della pelle: «Non ci piaci, sei nera». È una vicenda piuttosto triste perché anche da anziano ti può colpire l’interruzione d’amore. Puoi essere in casa di riposo e lamentarti che figli e nipoti non ti vengano a trovare, rivendicando un amore sul quale tu però hai cessato di investire. Come io ho amato voi. Vuol dire superare i pregiudizi, gli standard confezionati, le logiche massificate, il si è sempre fatto, perché anche se si è sempre fatto, o si è fatto molto, non è detto che si sia fatto secondo il vangelo. Come Gesù. Voler bene come lui.

3.    Infine l’amore è autentico quando porta frutto. Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga. L’amore è autentico quando produce amore in giro. Perché oggi ci sono idee un po’ new age in circolazione. L’amore come pace universale. Che vuol dire io sono in armonia col mondo ma non rompetemi e non chiedetemi di darvi una mano. Un amore che più che frutti fa foglie, dietro le quali ci si nasconde. Il 2 maggio Israele ha dato la cittadinanza a Gino Bartali, il grande ciclista toscano, che salvò dal lager centinaia di ebrei. Partiva con la sua bici nascondendo nel telaio numerosi documenti segreti che portava ad Assisi, a Roma, in Vaticano. Strade dissestate e controllate dai militari. E quando le pattuglie lo fermavano lo lasciavano andare tranquillo: È Bartali che si allena! Finché visse, il campione non ne parlò mai. Solo prima di morire rivelò la sua storia dicendo: “Perché il bene si fa e non si dice”. Ecco i frutti, sono arrivati senza clamore, ma hanno prodotto un’umanità differente. Quella che nasce solo dall’amore.

Ecco, ami davvero o come il gatto? È amore o è un calesse? Qualunque cosa chiederete nel mio nome, il padre la concede. Forse dobbiamo tornare a chiedere di amare. Come Gesù e in nome suo.


venerdì 20 aprile 2018

Omelia 15 aprile 2018


Terza domenica di Pasqua

Un fantasma. È una presenza che abita il nostro immaginario oscuro e che si intromette anche nell’incontro tra i discepoli e il Risorto: Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. La fede a volte può trasformarsi nella sensazione che si tratti di fantasmi o di ritenere che i credenti siano una sorta di strani ghostbuster che invece dei film popolano le chiese. Gesù invita i suoi discepoli a non inseguire fantasmi né a lasciare che gli altri pensino che questa sia la nostra attività. E si fa riconoscere in tre esperienze importanti: toccare, mangiare, testimoniare.

1.    La fede pasquale innanzitutto passa attraverso le mani. «Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Uno dei problemi che oggi incontra il cristianesimo è la sua evanescenza, perché i discepoli del Signore non scendono nella concretezza della vita e delle scelte, ma anche perché a livello culturale va bene così. Un cristianesimo dei valori sui quali tutti possono andar d’accordo, salvo poi dimostrare se in quei valori ci sia davvero il vangelo. Pensate alla pace, primo dono di Gesù risorto. Pace a voi. E chi non vuole la pace? Gli scenari di guerra in Siria ci danno però l’idea di quanto questa parola possa essere fraintesa, da un regime criminale ma anche da chi ha fretta di fare pulizie per motivi che forse non sono del tutto nobili e umanitari. Toccare, suggerisce Gesù. Capire cosa sta capitando. Capire che la prima vittima del conflitto forse è proprio la verità. Così anche nella situazione del nostro paese: se un tempo i discorsi che si facevano erano legati alla necessità di intervenire su alcune problematiche ora sembra che il problema sia il gioco delle sedie. Sedersi accanto a chi? E i problemi possono aspettare. Non perdere il contatto con la realtà, con le famiglie, con la denatalità. I cristiani nel mondo richiamano questa esigenza, ivi compreso il nostro comune e coloro che si preparano ad amministrarlo. Fate in modo che i problemi della gente e della comunità non retrocedano rispetto al problema delle sedie.

2.    Poi Gesù apre una seconda esperienza. Avete qui qualche cosa da mangiare? E gli offrirono una porzione di pesce arrostito. Mangiare insieme è riconoscersi famiglia, è condividere la vita. I cristiani sono uomini e donne di incontro e di relazione. Il Risorto abita in questi crocevia della convivialità. Ieri mattina mentre varia gente veniva a prendersi qualcosa da mangiare alla Caritas, mi è venuto in mente che in frigo avevo parecchi yogurt. Ho chiamato un giovane papà africano e l’ho invitato ad aspettare. Sono sceso con i miei yogurt e glieli ho dati. Ho visto che si è commosso e si asciugava gli occhi. «Che succede, gli ho chiesto?». «Grazie della gentilezza», mi ha detto. Ho capito che quegli yogurt per lui erano differenti, anche da quelli che la Caritas dà con l’intenzione di fare del bene. I cristiani non sono artefici di prestazioni, ma di relazioni. Erano yogurt che avevano il sapore dell’incontro. Una porzione di pesce arrostito. Non il pesce e basta, ma il pesce che ha il sapore della griglia di casa tua, di una famiglia che si apre. Così scopri il risorto.

3.    Infine il vangelo si chiude con un invito. Di questo voi siete testimoni. Non basta sperimentare, toccare, sincerarsi; non basta neanche mangiare insieme. C’è un terzo verbo che fa spazio al risorto: testimoniare. E testimoniare vuol dire ricordare il vangelo, liberarlo nella vita, prendere posizione anche quando occorre sfidare la mentalità corrente. Pensate al caso di Alfie Evans il bambino inglese che un ospedale britannico non vuole più mantenere in vita nonostante l’opposizione dei suoi genitori che continuano a sperare per il loro figlio. Il giudice, dimostrando la stessa freddezza dei medici, ha dichiarato che la vita di Alfie era “futile”, “inutile”, perché il bambino era in stato vegetativo ovvero non più un essere umano. “Non andava bene dargli del cioccolato”, come ha fatto la mamma per vedere se il bambino reagiva, ha detto il giudice, perché “il cioccolato sporca, interferisce con l’igiene dell’ospedale”. Certo, l’accanimento terapeutico è ingiusto, ma altrettanto ingiusto è commissariare e, di fatto, pretende di esautorare l’amore di due genitori che non compiono nessun misfatto e chiedono semplicemente di stare vicino al proprio bambino e di accudirlo sino alla morte, senza precipitarla. Di questo voi mi sarete testimoni. Di che cosa? Della vita che vince sulla morte, della dignità del dolore umano, del rispetto dovuto a due genitori e al loro bambino. Se dimentichiamo questa testimonianza, diventiamo testimoni dei soprusi e dell’ingiustizia e artefici di un mondo che alla fine di umano avrà ben poco. Perché qualcuno si sentirà autorizzato a decidere della vita altrui.

In che Dio credi, in un fantasma evanescente o in colui che abita le vicende umane e in esse ti dà appuntamento?