martedì 13 febbraio 2018

Omelia 11 febbraio 2018


Sesta domenica del T. O.

Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Quante volte questo grido è risuonato nella storia, sia da parte di chi si è trovato a vivere una situazione di emarginazione, sia da parte di chi ha emarginato, ghettizzato, privato qualcuno del diritto di esserci. La Giornata del Ricordo, ci ha rammentato ieri la tragedia di molti nostri connazionali barbaramente uccisi e gettati nelle foibe da dove solo un esiguo numero di cadaveri è stato recuperato. Quanta lebbra segna i rapporti umani, quanta presunzione di stabilire confini tra puro e impuro, tra chi può stare a questo mondo e chi no! Nel vangelo di oggi Gesù è alle prese con questa situazione: un lebbroso, un escluso dalla legislazione giudaica che lo raggiunge sfidando tutte le precauzioni sanitarie e i divieti sociali. Vediamo che succede, perché l’approccio di Gesù forse può essere d’aiuto anche a noi per superare alcune barriere che ci dividono e sconfiggere le lebbre che ci colpiscono.

1.    L’evangelista ci dice che Gesù ebbe compassione. Ed è bello questo approccio pieno di tenerezza e di partecipazione interiore. Ma alcuni codici antichi, anziché parlare di compassione, parlano di indignazione da parte di Gesù. Sembra un sentimento opposto, in realtà è l’altra faccia della compassione. Mentre Gesù dimostra accoglienza e misericordia verso l’escluso, si arrabbia per tutto ciò che genera esclusione. Compassione e rabbia. Sono i due sentimenti con cui Gesù si oppone al male. Servono entrambi, perché la rabbia da sola degenera in violenza, la compassione rischia di fermarsi all’assistenza. Noi ci commuoviamo quando sentiamo la canzone di Mirkoeilcane a Sanremo, che ci racconta l’emigrazione con gli occhi dei bambini, ma ci siamo dimenticati della rabbia, della lotta per la giustizia, del coraggio della denuncia. E mangiamo tranquillamente i mandarini di Cosenza  raccolti da immigrati che ricevono un euro a cassa. La compassione è fatta anche di rabbia.

2.    Poi Gesù fa un gesto. Tese la mano e lo toccò. La lebbra si vince toccando, mettendo mano. Un gesto sconcertante che sanciva una scomunica sociale anche per Gesù. Chi toccava un lebbroso era considerato ugualmente lebbroso.  Finché noi non mettiamo mano nelle concrete vicende dell’altro non c’è guarigione. Gesù non salva con i decreti attuativi ma con le mani in azione. Penso alle mani della sorella del presidente nordcoreano che hanno consegnato un invito al presidente della Corea del Sud in occasione dei giochi olimpici, per ristabilire quanto prima i rapporti tra i due paesi. «Facciamolo accadere», ha detto il presidente sudcoreano. Ecco le mani che si toccano, che sconfiggono la lebbra della boria, della presunzione egemone, della violenza e che forse potrebbero sconfiggere anche alcune nostre distanze e scomuniche. Facciamolo accadere.

3.    Infine mi pare che per sconfiggere la lebbra e l’esclusione serva anche la volontà, la decisione. «Se vuoi, puoi guarirmi». Come “se vuoi?”, sembra chiedere Gesù: certo che lo voglio, sono venuto per questo! E infatti, dichiara: «Lo voglio, sii purificato». Non bastano le emozioni o le intenzioni: ci vogliono le decisioni, le scelte. Ce l’ha fatto capire quel papà che martedì è venuto a raccontarci l’esperienza vissuta con Emanuele, suo figlio sedicenne morto di droga. Amministratore delegato di una grossa azienda, non si era reso conto di quello che stava vivendo suo figlio che una notte decide di farla finita. A quel punto crolla tutto il castello imprenditoriale e professionale, ma a quel punto nasce anche la decisione di mettere la vita a disposizione di altri ragazzi e genitori perché non si ripeta quel tragico errore. Lo voglio, ha detto papà Giampietro: ci sarò. E ha detto a suo figlio: Scusami, Ema, se non mi fermo a piangerti come farebbero altri padri: io vado avanti. Atteggiamento ben diverso da quei genitori di Lucca conniventi con l’assunzione di sostanze dopanti da parte dei loro figli ciclisti. Non solo sapevano: incoraggiavano. Ecco la lebbra che per essere vinta ha bisogno di responsabilità, di volontà, di e di no. E allora la vita cambia. E forse non sentiremo più il grido “Impuro, impuro” ma quello di un’umanità sollevata, liberata dalla lebbra, restituita a se stessa, quella cui anche noi possiamo contribuire a dar forma. 


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