Funerale papà Danilo – 13
luglio 2020
Rm
8,31-35.37-39 Lc
12,35-40
Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne
accese, siate simili a coloro che aspettano.
Aspettare. Era un verbo con cui il papà aveva una certa
consuetudine, anche se non era un tipo che amasse troppo le attese. Ogni volta
che si doveva andar via, saliva in macchina almeno dieci minuti prima del
previsto, costringendo la mamma, rea di essere sempre in ritardo, ad accelerare
i suoi preparativi. Varda mi che presto
che fao. Così quando lo accompagnavo a Montebelluna per la chemioterapia,
lui era pronto già di buon mattino e non c’era verso di fargli capire che, a
motivo Covid, in reparto bisognava andare all'orario stabilito. E se per strada succede qualcosa? E se c’è
traffico? Così mi è parso strano che giovedì scorso non fosse già sulla
porta ad aspettarmi. Pochi istanti, il tempo di renderci conto di quello che
stava succedendo. Il papà era in attesa di Qualcun altro che era venuto a
prenderselo. Il padrone era arrivato e, scombussolando tutte le nostre
tempistiche, aveva già portato Danilo con sé. Era la morte che lui si augurava,
per la quale pregava, cozzando qualche volta contro le nostre rimostranze
famigliari. Perché la bella morte, obiettava il figlio prete, non è solo quella
i cui si fa presto, ma anche quella cui ci si prepara.
E lui faceva capire che non trascurava tale esigenza. So ndato confessarme da don Paolo anca l’altro
dì. In realtà, il male che gli era stato diagnosticato lo stava mettendo
alla prova e lui, abituato a dire poco di sé, in qualche occasione aveva
confidato al medico la sua inquietudine: Come
va signor Giacometti? El pensiero ze sempre là. Aveva ben presente il travaglio
di numerosi compagni di lavoro, che se ne erano andati per la stessa malattia
polmonare e per questo era disposto a barattare con il Signore un po’ di anni
perché gli fossero risparmiate le sofferenze. E sembra che il Signore lo abbia accontentato.
Ecco, il papà con il Signore era di poche parole, ma evidentemente si capivano,
in una relazione di fede semplice e quotidiana dove c’era posto per Dio e per
gli altri, per la preghiera e l’operosità, per le responsabilità di una
famiglia e per una famiglia più grande fatta di numerosi contatti, alcuni dei
quali a volte ci sfuggivano. Ci sembra questa un’eredità preziosa che rende
cristiana la vita e la morte e che ci fa credere che, al di là della velocità
con cui il papà ci è stato tolto, lui, come raccomandava Gesù, non si sia
lasciato scassinare la casa. Quale casa?
1.
Custodiva innanzitutto quella casa che
eravamo noi, la sua famiglia, rallegrata dai nipotini. E custodiva la casa che con
la mamma e con tanto sacrificio aveva costruito in Via S. Giorgio. Quanto
costasse quella casa, io bambino lo vedevo nelle tute di lavoro che a lungo
dovevano stare in ammollo, quando ancora non avevamo una lavatrice. E lo vedevo
nelle sue mani sempre screpolate e callose, sulle quali quintali di Glysolid non sono riusciti ad avere la
meglio. Un lavoratore. Il papà non aveva avuto lunghe frequentazioni
scolastiche, ma una poesia gli era rimasta in mente, l’unica che spesso
ripeteva a noi figli: Dice il Signore a chi batte alle porte del suo Regno:
“Fammi vedere le mani; saprò io se ne sei degno” (Renzo Pezzani). E lui era proprio convinto che al Signore
avrebbe fatto vedere le mani, lasciapassare indiscutibile per il paradiso, al
quale non si accedeva con i discorsi, ma con la fede operosa e la vita spesa
per gli altri. Della poesia il papà, forse per modestia, ricordava solo la
prima strofa, ma cercando su internet in questi giorni ho recuperato anche le
altre due. L’operaio fa vedere le
sue mani dure di calli:/ han toccato tutta la vita terra, fuochi, metalli./
Sono vuote d’ogni ricchezza, nere, stanche, pesanti./ Dice il Signore: “Che
bellezza! Così son le mani dei Santi!”. C’è un po’ di enfasi poetica, ma
c’è anche l’invito a ricordare che mani pulite, per i cristiani, non sono
sempre una virtù. La casa dell’operosità.
2.
Ma la casa che il
papà non si è lasciato scassinare era anche più ampia di casa nostra.
Nonostante la Fervet, insieme al pane quotidiano, gli avesse fatalmente minato
la salute, attivando solo in tempi recenti le precauzioni contro l’amianto, di
quell'azienda manteneva un ricordo grato, specialmente per le relazioni che
aveva vissuto al suo interno. Non ne faceva mostra, ma custodiva con un segreto
orgoglio una medaglia pesantissima, in ghisa, fatta dai suoi compagni di
lavoro, quando se ne era andato in pensione. Niente di artistico, ma solo una
scritta che per lui valeva come il Nobel: Al buon Danilo. A dire il
vero, non era sempre così tranquillo: ogni tanto si accendeva, si alterava. Ma
erano temporali primaverili che non lasciavano rancore né risentimento. Perché
degli altri aveva bisogno. Lo vedevamo chiacchierare con chi passava per strada
mentre curava l’orto, offrendo consigli, saluti, giovialità, insieme a zucchine
e pomodori. Gli piacevano questa comunità della Pieve, i suoi preti, la sua gente
e ricordava con nostalgia il passato sportivo come calciatore e allenatore, anche sul campo dietro a questa chiesa, cui si affacciava dalle finestre della sacrestia, quando da chierichetto le prediche erano troppo lunghe. Io
ci vedevo una tessitura buona, avvolgente, fatta di amabilità, di disponibilità
di cui oggi abbiamo bisogno e di cui tutti possiamo essere artefici. L’ultimo
gesto che il papà ha fatto è stato quello di seminare radicchio, ma mi pare che
abbia seminato qualcosa in più e che lui abbia ospitato nel suo campo anche i
semi buoni del vangelo. Almeno qualcuno.
3.
C’è infine la
terza casa che papà non si è lasciato scassinare. Quella della sua vita
interiore, con il Signore. Non era esente da limiti e da debolezze, ma ci ha
lasciato il ricordo buono della sua coerenza cristiana, della preghiera
semplice, della messa domenicale che non ha mai perso, delle bestemmie che non
ha mai detto. Non reggeva un rosario intero, ma gli piaceva dirne un pezzo con
il Card. Comastri e ci teneva che, finita la chemioterapia, tornassimo
dall'ospedale di Montebelluna non per la statale fatta all'andata, bensì per
Fanzolo, dove, presso il Santuario del Caravaggio, chiuso anch'esso per il
lockdown, si sostava in macchina e si recitava un’ave-maria. Mi venivano in
mente ogni volta i Magi che, dopo aver visto il Bambino e la Madre, per
un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Era la strada della fede che
il Signore chiedeva al papà e a noi, quella che oggi ci fa credere che le
preghiere non sono state fatte per niente, che il Signore vede più in là di
quello che oggi ci sembra incomprensibile, che c’è un’altra realtà da
accogliere e abitare. Chi ci separerà dall'amore di Dio in Cristo Gesù? Che
questa domanda guidi le nostre domande, divenga rassicurazione buona sul
presente e sul futuro, compassione e misericordia per il papà, consolazione e
speranza per tutti noi.
Dice il Signore a chi batte
alle porte del suo Regno:
“Fammi vedere le mani;
saprò io se ne sei degno”.
L’operaio fa vedere
le sue mani dure di calli:
han toccato tutta la vita
terra, fuochi, metalli.
Sono vuote d’ogni ricchezza,
nere, stanche, pesanti.
Dice il Signore: “Che bellezza!
Così son le mani dei Santi!”.
R.
Pezzani – Le mani dell’operaio
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