In
questi giorni la notizia di una ragazzina di Pordenone che tenta di togliersi
la vita. Ci danno un salutare scossone e ci fanno bene le parole di un insegnante che riflette sulla faccenda, ma forse bisogna aggiungere qualche considerazione più. Per gli insegnanti e non solo.
Oggi
una ragazza della mia città ha cercato di uccidersi. Ha preso e si è buttata
dal secondo piano.
No, non è morta. Ma la botta che ha preso ha rischiato di
prenderle la spina dorsale. Per poco non le succedeva qualcosa di forse
peggiore della morte: la condanna a restare tutta la vita immobile e senza
poter comunicare con gli altri normalmente.
“Adesso sarete contenti”, ha scritto. Parlava ai suoi
compagni.
Allora
io adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma c’ho ‘sta cosa
dentro ed è difficile lasciarla lì. Quando la finirete? Quando finirete di
mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno? Quando finirete di far
finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non
abbiano conseguenze, e poi di mettervi lì a scrivere quei messaggi – li ho
letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di
merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”.
Quando
la finirete di dire “Ma sì, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere
“non meriti di esistere”?
Quando
la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa,
quando la finirete di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di
sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati?
Che cosa deve ancora succedere, perché la finiate? Che cosa
aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella,
a voi?
E
poi voi. Voi genitori, sì. Voi che i vostri figli sono quelli capaci di
scrivere certi messaggi. O quelli che ridono così forte.
Quando
la finirete di chiudere un occhio?
Quando
la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”?
Quando
la finirete di non avere idea di che diavolo ci fanno 8 ore al giorno i vostri
figli con quel telefono?
Quando
la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul
libretto personale?
Quando
la finirete di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)?
Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la
diversità non è una malattia, o un fatto da deridere, quando inizierete a non
essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole ma gli esempi,
gli insegnamenti migliori?
Perché
quando una ragazzina di dodici anni prova a buttarsi di sotto, non è solo una
ragazzina di dodici anni che lo sta facendo: siamo tutti noi. E se una
ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una
piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì non hanno visto, non hanno
fatto, non hanno detto. E tutti noi, proprio tutti, siamo quelli che quando
succedono cose come questa devono vedere, fare, dire. Anzi urlare. Una parola,
una sola, che è: “Basta”.
Prof. Enrico Galliano
Ed ecco alcuni ulteriori pensieri...
E
voi, insegnanti, fino a quando farete della scuola una sorta di feudo e
avvertirete come minaccia il tentativo di operare in sinergia?
Certo,
i genitori non sono sempre quello che vorreste e neppure quello che dovrebbero,
ma a volte vivono e patiscono con voi e più di voi le contraddizioni dei
giorni, come quella di non essere sempre all’altezza delle sfide che vita ed
educazione portano con sé. Non vi pare che invece di reciproche scomuniche dovremmo
sederci allo stesso tavolo, invitando magari anche l’allenatore, il catechista
o il capo scout? Perché qui non è in gioco la comprensione del teorema di
Pitagora, ma la comprensione della vita cui anche la scuola cerca di condurre.
Si tratta di allenare un uomo e di attivare tutte le sue risorse: la testa, il
cuore, le mani e talvolta anche le gambe.
Cari
insegnanti, quando la smettete di caricare di compiti la domenica, sottraendo
quel giorno alla gratuità e alla festa: non vi pare che vi mettano già le mani
in troppi? Non vi pare che stiamo smarrendo il senso del tempo e delle
relazioni?
E
fino a quando permetterete che la natura laica della scuola sia preda di un
laicismo d’altri tempi che, oltre a indebolire la vostra azione, sacrifica sull’altare
dell’ideo-logia il bisogno di senso che ogni ragazzo porta con sé?
Perché
se una dodicenne arriva a pensare drammaticamente di buttarsi dal secondo
piano, forse non è solo per la cattiveria dei coetanei, ma perché qualcuno le
ha sottratto il piano in più: quello che le consente di vedere il cielo, di
aprire la vita alla speranza e di capire che un uomo è più grande di ogni
etichetta che gli si affibbia, di ogni buca che l’affossa.
Le
vostre responsabilità, cari prof, richiamano anche le nostre, quelle della
comunità cristiana. Perché anche noi ci sentiamo terribilmente provocati dal
gesto che ci è stato posto innanzi e capiamo che non sempre siamo in grado di
offrire risposte sollecite e convincenti.
Risposte
che prima ancora siano proposte: sul modo di stare insieme, di impiegare il
tempo, di divertirsi, di pensare, forse anche di pregare.
Quando
impareremo, con i duemila anni che ci portiamo appresso, che la sfida vera è
rivolta al futuro ed è legata in buona parte a ragazzi e giovani? Quando faremo
sentire loro la nostalgia di casa? Quando le nostre messe riusciranno a parlare
anche agli adolescenti? Quando sostituiremo il criterio dell’attività con
quello della relazione e ci convinceremo che la partita di calcio a volte vale
quanto un’ora di catechismo? E quando noi preti, scornati da pedofilia e
sommersi di burocrazia, ci convinceremo che il nostro posto è ancora tra i
ragazzi, dietro i quali, secondo evangeliche promesse, ama nascondersi il
Signore?
«Adesso
sarete contenti», diceva quel drammatico biglietto. No, non siamo contenti
adesso. Lo saremo quando riusciremo a ripigliarci come uomini ed educatori e a
comprendere che nel grande mare della vita ci si inoltra insieme.
Don Gerardo Giacometti
Carissimo, ci sarà da essere contenti solo quando la vita arriverà in tutta la sua attrattiva a tutti in tutta evidenza, così che nessuno, giovane e meno, si lasci subissare da ciò che in lui in lei soffoca speranza. Ha ragione, è un compito una responsabilità non solo del clero e degli educatori, spostando un poco lo sguardo anche di banche e aziende, ma di tutti noi. Siamo noi che amiamo questi nostri figli, anche noi che non siamo genitori. Siamo noi messaggeri di pace al prossimo, animatori e missionari per le strade. Dobbiamo essere consapevoli dei pericoli di cui il mondo è irto. Non c'è solo il gioco orrendo del nemico, noi stessi rischiamo di essere ingannati e di cadere nel fare il suo gioco ogni volta che seguiamo orgoglio. Dobbiamo seguire Gesù Signore. Anche una parola di troppo può uccidere e portare al suicidio. Per quanto riguarda la piaga della pedofilia, il Signore è chiaro: "Lasciate che i bambini vengano a me". Questa è già la più grande scomunica alla malizia dell'uomo. Le rivolgo un caro saluto, il Signore la sostenga e la custidisca. Veronica Fratter
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