sabato 14 febbraio 2015

Omelia 15 febbraio 2015


Sesta domenica del Tempo Ordinario

Tu, lebbroso, mio fratello. Tu che sei isolato, evitato, rifiutato, respinto, Tu che gli uomini non vedono, non vogliono vedere, Tu lebbroso, sei mio fratello. […] Tu, lebbra, sei nemica degli uomini. Sei il fetore del nostro disprezzo. Tu sveli l’orgoglio che ci consuma, riveli il putridume delle nostre ipocrisie, manifesti l’isolamento dei nostri cuori.

Sono parole di Raoul Follereau da cui prende avvio l’opera straordinaria di un uomo che ha fatto per trentadue volte il giro del mondo per curare i lebbrosi e convincere i potenti della terra che quel male poteva essere vinto. Il lebbroso è un fratello e la lebbra è il putridume dell’indifferenza che crea distanze nei confronti dell’uomo escluso dai giudizi prima ancora che dalla sua malattia.

Oggi è come avere addosso l’aids: se te lo sei preso qualche motivo c’è e certo non ti fa onore. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Ma pensate anche alla disabilità, ai malati psichici, agli immigrati, a tutti coloro che “la cultura dello scarto” ha ghettizzato in nome della vita ritenuta normale.

Gesù prende le distanze, non dal lebbroso, ma da questo mondo disumano dove la malattia diventa giudizio, le regole precedono le persone, i criteri dell’efficienza perdono l’uomo. E indica la strada della guarigione.

1.    Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Interessanti queste parole: se vuoi. Non è l’attesa di un’arbitraria concessione che può arrivare o meno, ma una ricerca di volontà. Se vuoi. Cosa vuole Dio? Vuole davvero queste sofferenze per mettere alla prova la nostra pazienza? È un Dio assetato di lacrime? A volte attribuiamo a Dio situazioni che non gli appartengono, cosparse di quella sensazione di castigo che facciamo fatica a scrollarci di dosso. Oppure arriviamo alla conclusione che, stante una situazione dolorosa, Dio non esista. Non solo nella malattia, ma anche nei drammi del mondo: un uomo bruciato vivo, i profughi travolti dalle onde e calati a picco in mare. Dov’è Dio? Non c’è o vuole farci capire fin dove possiamo arrivare senza di lui? È un Dio che cerca la sofferenza o un Dio che ti sta dicendo: non è questo che voglio? Ritrova la volontà di Dio, il suo progetto, la sua voglia di vita, di umanità, di fraternità.  

2.    Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». Ecco cosa vuole Dio, non l’indifferenza, ma la compassione, non la distanza, ma il contatto. E la sua mano torna al lavoro, come la mano tesa alla suocera di Pietro. È la mano creatrice, come quella di Dio sulla volta della Cappella Sistina. La lebbra è quella dell’ipocrisia, come ci ricordava Raoul Follereau, che ci fa pensare che dobbiamo trattare tutto in maniera sanitaria e giuridicamente accertata. Ieri è venuto un papà e mi ha mostrato un testo che leggevo senza difficoltà. Poi me ne ha mostrato un altro: inizialmente non ci capivo nulla perché i caratteri erano stranissimi, ma poi le parole prendevano forma e mi rendevo conto che era il testo precedente. «Ecco, concludeva quel padre, mio figlio vive lo stesso problema. Ma con un po’ più di tempo ce la fa». Pensate a questi bambini che sono anche alla nostra scuola materna: avrebbero bisogno di sostegno, ma la struttura pubblica vuole spesso delle dichiarazioni. Una catalogazione: deficit cognitivo, disturbi di apprendimento, difficoltà sensoriali, motorie… Ma questo vuol dire spese e allora si va per le lunghe. E perdiamo tempo prezioso in attesa di una mano che sembra persa nei meandri di un ping-pong infinito. Lo voglio, guarisci. Che cosa vuoi? Compassione, tendere la mano, toccare. Non starsene chiusi in un ufficio. La più grande / disgrazia che vi / possa capitare è di non essere / utili a nessuno (R. Follereau).

3.    Infine il brano si chiude con una sorta di monito che sembra quasi contrastare la tenerezza precedente: ammonendolo severamente, lo cacciò via subito. Sono i verbi dell’esorcismo, come quando Gesù caccia i demoni. Perché questa durezza? Gesù sta cacciando il lebbroso, ma lo sta cacciando da se stesso, da quel modo di pensare che ha intaccato anche lui. Come se volesse dire: esci da queste convinzioni, come hai potuto pensare che Dio ti volesse punire, che da parte sua ci fosse una volontà diversa da quella dell’amore e della guarigione? Nei giorni scorsi una donna rimasta vedova mi parlava degli ultimi anni vissuti col marito. «Quando abbiamo scoperto il suo male ci è crollato addosso il mondo». Ma poi aggiungeva: «Non l’ho mai abbandonato e quegli ultimi anni sono stati i più belli, perché dopo tanto tempo a pensare ai figli ci siamo ripresi come coppia. Se tornassi indietro rifarei la stessa cosa». Lasciati esorcizzare dalle idee sbagliate di Dio, della vita, della sofferenza. Lasciati esorcizzare da quella paura di stare accanto al disagio perché può essere proprio la grande possibilità per diventare uomo e per continuare ad esserlo.

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