domenica 19 gennaio 2014

Omelia 19 gennaio 2014


Seconda domenica del T.O.


Su L’Espresso dei giorni scorsi quattrodici personaggi scelti tra scienziati, scrittori, registi, musicisti, politici, astronauti hanno scritto una lettera ai loro figli per consegnare loro una pagina di vita. Vi si parla di tutto: la memoria storica, il ruolo del cinema, il razzismo, l'ambiente, la musica, la rete, l'economia, la giustizia, il lavoro, l'amore, il ribellismo, la globalizzazione, Napoli, l'omosessualità, la nostalgia, l'odio, il perdono. Ma che fatica trovare un riferimento a Dio! Certo, siamo su L’Espresso, che più laico non si può, ma sembra che nel futuro di un figlio per questa parola non ci sia posto.

La figura di Giovanni Battista ci aiuta a riflettere sulla testimonianza della fede, su un messaggio che interpella l’idea e le misure dell’esistenza e che contiene una promessa di vita intesa come buona. Io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio. Come funziona la testimonianza?

1.    Anzitutto essa si dà in vario modo. Riguarda la coerenza dei comportamenti. La vita di Giovanni Battista appartiene radicalmente a Dio e con tale radicalità Giovanni è un messaggio per Israele. La testimonianza si gioca inoltre nel momento rituale, in quel battesimo che Giovanni  praticava. Ma il vangelo ci propone anche un Giovanni che parla e che con un discorso esplicito indica Gesù: Ecco l’agnello di Dio. La testimonianza si regge su questo equilibrio complessivo: coerenza di vita, gesti espressivi, parole. Noi siamo sensibili alle testimonianze sostenute dai fatti, ne intuiamo il valore anche se non sempre ci scopriamo coerenti. Abbiamo poi un legame con gli appuntamenti sacramentali, con un battesimo che ancora viene celebrato. Ma con le parole facciamo fatica. Non solo perché non sappiamo cosa dire ma anche perché ci chiediamo se sia opportuno dire. Perché l’altro a volte non è sintonizzato e potrebbe non comprendere o perché quello che viviamo è troppo personale per poter essere condiviso. Sono ragioni che vanno considerate, ma non fino al punto da dimenticare le parole. Perché noi siamo fatti di parola e le nostre esperienze ci vengono consegnate, oltre che per il loro darsi, anche attraverso la comunicazione che ne consegue. Perché hai bisogno di parlare di quello che ti capita? Perché lo elabori, te ne appropri, comprendi. La testimonianza non è solo un regalo per l’altro. È un regalo per sé, per capire quello che si sta vivendo, quanto incida nella vita, il modo con cui avviene, che cosa ce ne possiamo fare.

2.    Ma, recuperata l’importanza delle parole, quali parole dobbiamo dire? Giovanni articola due piani di comunicazione. Si serve di un’immagine biblica e di un’esperienza personale. L’immagine è quella dell’agnello, figura fortemente evocativa che ricorda l’esodo e l’agnello condotto al macello del profeta Isaia. Quei riferimenti consentono di capire chi è Gesù in un progetto di salvezza che parte da lontano e che Dio stesso custodisce. Ma poi c’è l’esperienza personale: Io non lo conoscevo ma ho visto scendere e rimanere lo Spirito su di lui. Ecco le parole della testimonianza: devi sempre riceverle da qualcuno che viene prima di te e che è più grande di te, ma avvalorarle con la tua esperienza, perché tale esperienza le rende comprensibili. Se citi solo la bibbia rischi di fare come quelli che ti fermano per strada e sciorinano versetti; se citi solo l’esperienza rischi che dica di te ma non molto di Dio. La testimonianza è Dio incontrato con la vita, il Signore, i suoi progetti che cerco sempre più di approfondire, di interpretare. Ricordo la testimonianza di un ragazzo albanese che è giunto al Battesimo grazie alla testimonianza della madre. Il mondo albanese è legato da tradizioni vendicative difficilissime da estirpare. Ma questa donna cui uno del paese aveva ucciso il figlio, il giorno di Natale si è presentata in chiesa e al segno della pace è andata dalla madre dell’assassino, dicendo: Pace in terra agli uomini di buona volontà. La parola aveva incrociato la vita e la vita si apriva a una parola ancora più grande.  

3.    Questo episodio ci aiuta a capire un terzo elemento della testimonianza: è sempre espressione di una vita buona. Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Non solo i peccati, come diciamo a messa, ma il peccato, quella disposizione oscura che ci abita e ci porta a vivere male e a tradire la nostra umanità. Sei testimone quando affermi che non è questa la vita, che c’è un’altra umanità che hai conosciuto e che non ti stanchi di perseguire. Pensate alle polemiche e alla grancassa che rimbomba per il trasbordo delle armi chimiche di Assad nel porto di Gioia Tauro. Si sa che in questi casi si accendo gli animi localistici e gli interessi degli amministratori a cavalcare il malcontento popolare ma è impossibile non vedere in questa vicenda una mancanza di senso di responsabilità unita a una preminenza per l’interesse particolare e di corto respiro. Le armi chimiche di Assad non sono diverse da molte altre sostanze nocive che nei porti italiani vengono trattate in assoluta sicurezza. Certo, il quantitativo è diverso, ma non può essere un segno solidarietà internazionale da accompagnare con saggezza e prudenza per le ragioni della pace in una terra martoriata? Ecco il testimone. Con le ragioni di una vita buona, quella che Dio ha in mente.

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