domenica 12 febbraio 2012

Omelia 12 febbraio 2012

Sesta domenica del Tempo Ordinario

Il Tribunale di Bologna il 13 gennaio scorso ha condannato un giovane di 26 anni per aver insultato un coetaneo eritreo: «Sporco negro». Parole che evocano discriminazioni che ci piacerebbe fossero finite ma che ogni tanto ritornano e ci fanno capire come la nostra società sia percorsa da linee invisibili di demarcazione che racchiudono varie tipologie umane e la pretesa di essere più uomini di altri o con più diritti di altri. Nel vangelo di oggi c’è una mano tesa che supera questo subdolo confine e cerca una prossimità nella quale è custodita l’autentica misura dell’umano. La lebbra ai tempi di Gesù più che una malattia era una segregazione e una condanna, un’esclusione, di chi ne era affetto, da ogni vincolo sociale. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.

Quante volte si è udito questo grido nella storia. Lo ha ribadito il presidente Napolitano che, in occasione della recente Giornata della memoria, ha ricordato che la Shoah, oltre ad essere un genocidio sistematico di un popolo, procurava anche lo sterminio degli oppositori politici del regime, di omosessuali, disabili fisici e mentali, delle popolazioni rom e sinti. E vediamo che l’onda lunga di tale devastante discriminazione non è ancora passata e il filo spinato continua a percorrere la i nostri rapporti con l’altro percepito come diverso.
Che cosa ci suggerisce Gesù? Come si comporta?

1.    Anzitutto si pone di fronte al suo interlocutore udendone la supplica. «Se vuoi puoi purificarmi». Puoi sottrarmi da questa esclusione. Pensate a come tale supplica oggi ci raggiunge e da parte di chi. È la supplica della gente immigrata che ci invita a superare la xenofobia con cui anche oggi ci misuriamo, è il grido contro il negazionismo che tenta di cancellare la memoria di un eccidio come un tempo si è cercato di cancellare l’altro. Ma pensate anche all’incalzante monitoraggio cui ogni donna incinta è sottoposta: da un lato rassicura in un’esperienza importante come quella della gestazione, dall’altro espone continuamente di fronte alla domanda non solo sulla salute dell’embrione, ma anche della sua “normalità”. E se bisogna verificarla, significa che qualcuno normale non è e a quel punto sembra legittimo chiedersi se val la pena di metterlo al mondo. Ma chi stabilisce la normalità? Se vuoi puoi. Puoi udire un grido, puoi sfidare la mentalità corrente, puoi prendere posizione. Puoi rompere il muro di silenzio che talvolta è più lacerante del filo spinato di Auschwitz.

2.    Gesù non si limita a udire e ad osservare. Ne ebbe compassione, tese la mano e lo toccò. Vibra delle percezioni dell’altro e lo raggiunge senza esitazioni. La discriminazione può essere vinta solo se raggiungiamo la reale situazione altrui, se tocchiamo con mano. In questi giorni è ritornata la polemica a proposito del decreto definito “svuota carceri”. E subito a preoccuparsi perché le strade saranno nuovamente piene di malviventi. Impuro, impuro… C’è un decreto molto equilibrato che affida al magistrato, non ad una generica amnistia, la possibilità di trasformare una residua parte di pena in forma sostitutiva alla detenzione. Ma qualcuno non ne vuole sapere. Carcere, sbarre, rigore, sicurezza. Buoni e cattivi. Ma dentro ad un carcere non ci sei mai stato, non hai visto il degrado di un ambiente che trasforma l’ultima possibilità di redenzione della vita nella definitiva perdita di sé e della speranza. Leggete “Alice nel paese delle domandine” di Monica Sarsini che racconta l’esperienza delle detenute nel carcere di Solliciano, vicino a Firenze. Le domandine sono quelle che le detenute devono fare per tutto, anche per tenere un paio di mutande in più rispetto a quelle che indossano e che ogni sera lavano. Toccare con mano e riattivare la compassione. È più obiettivo che analizza con freddo disincanto o chi riattiva anche il cuore? L’essenziale è invisibile agli occhi.

3.    Infine Gesù raccomanda di non dire niente a nessuno. È impressionante questo silenzio che Gesù cerca rispetto all’efficacia dei suoi gesti che gli potrebbero procurare grande popolarità e favore. Ma ciò che a lui preme non è tanto la restituzione di immagine quanto il cambiamento dell’uomo. E non solo dell’uomo guarito, ma anche di quell’uomo che gli vive accanto: Va’ a mostrarti al sacerdote. Il sacerdote era il crocevia di un riconoscimento sociale che decretava la guarigione del malato, indagando però anche sulle circostanze. E in quelle circostanze c’era un inedito che non rientrava nella prassi comune: un’azione di Dio che guariva mediante la medicina dell’amore. Ecco, non basta curare un malato: occorre promuovere una cultura della relazione nella quale ci rendiamo persuasi che oltre all’antibiotico occorre il rispetto, l’umanità, la pazienza di spiegare un referto, la possibilità di includere anche la fede tra le chances di un malato. Gesù invita la società del suo tempo a riorganizzare i suoi criteri di giudizio per non dover più gridare all’impuro e ritrovare autenticamente se stessa. C’è la lebbra della pelle che conosce vari morbi e ci inquieta, ma c’è anche una lebbra dell’anima, più pericolosa e sfuggente nella quale la compassione di Gesù nuovamente si effonde, stende la mano perché diventi la nostra.

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