Patrizia Silvestri in Buoncompagno
(18 giu. 2025)
(Ez 34, 11-16 – Lc 10, 29-37)
Certe vocazioni sono inscritte
nel patrimonio genetico, anche quella di Patrizia che voleva fare il medico.
Fin da piccola, quando operava le bambole per vedere cosa ci fosse dentro o
quando ne fasciava un braccio o una gamba che, non si sa come, si erano rotte. A
dodici anni ad operarla di un’appendicite fu, cosa rara ai quei tempi, una
giovane chirurgo all’ospedale di Crespano con cui fece amicizia. E da quel
momento comprese che medico era esattamente la rotta della sua vita, che la
portò a iscriversi a medicina, a laurearsi col massimo dei voti e a specializzarsi in ginecologia.
Brillante negli studi, avrebbe potuto intraprendere una carriera clinica, ma il
desiderio di farsi una famiglia la portò a preferire la medicina di base.
Guardie, sostituzioni fino
all’assegnazione dell’incarico a Resana nel 1996 dove è rimasta fino allo
scorso anno quando la malattia ha portato ad anticipare i tempi della pensione.
Medico di famiglia, dove quella specificazione indica non solo un ambito di
lavoro ma la caratteristica del servizio stesso. Di famiglia, come gli stessi
pazienti fossero tali.
Alla competenza, infatti,
Patrizia aggiungeva tanta umanità, con quell’ingrediente segreto che sancisce
la differenza tra chi passa oltre quello sventurato ferito dai briganti e chi
si prende cura di lui: la compassione. Lo vide e ne ebbe compassione. Era
l’atteggiamento di chi si sentiva interpellato da tante vicende e alla
professionalità aggiungeva empatia, vicinanza, comprensione, sostegno,
concretezza e gratuità. È la traduzione di quel decalogo della carità nascosto
nel racconto di Gesù, che insegna a usare gli occhi, il cuore, la testa, i
piedi, le mani per soccorrere chiunque sia nel bisogno. Chi dei tre ti
sembra sia stato il prossimo di colui che è capitato tra i briganti? Chi ha
avuto compassione di lui. Va’ e anche tu fa lo stesso. E Patrizia ha fatto
lo stesso, con le tante donne che ha curato con delicatezza e rispetto, con le
donne straniere che in lei potevano trovare un medico e una confidente, con gli
orari di lavoro che costringevano a volte il marito ad andarla a cercare e a
capire dov’era, magari prendendosi qualche rimbrotto, con una reperibilità che
non veniva meno neanche nei tempi della pandemia, neppure quando lei stessa ne
era stata colpita. È una pagina luminosa, evangelica, che intreccia la
professione di missione e ci ricorda che il buon samaritano a tutti consegna
due denari di carità perché ci prendiamo cura di qualcuno. E quello che
spenderemo in più ce lo restituisce il Signore al suo ritorno e con le
sue sorprese.
Ma Patrizia era approdata alla
medicina di base perché voleva farsi una famiglia. E già questa alternativa è
interessante per capire che qualche volta la carriera può escludere questa
possibilità. Lei però a Padova aveva conosciuto Angelo e ne era nata una storia
bella che l’avrebbe portata al matrimonio nel 1993 e alla nascita dei loro tre
figli. E anche con loro tanta passione, di moglie, di madre, cercando di
esserci, di sostenere, di incoraggiare. Perché non è sempre facile articolare
una famiglia quando hai un ambulatorio cui badare. Eppure i suoi figli l’hanno
sempre sentita accanto con quell’abilità che hanno le madri di esserci in
maniera differente, di capire le esigenze di ciascuno, di dosare sapientemente
complicità e autorevolezza, magari alzandosi presto al mattino per fare un po’
di scuola guida con chi non aveva il coraggio di affrontare il traffico delle
ore successive. Forse era questo suo essere madre che consentiva a Patrizia di
essere accanto a tante madri e forse le tante madri che lei ha accolto e curato
le hanno regalato una misura in più di maternità di cui lei a casa ha saputo
farne tesoro.
Ad un certo punto però il medico
è diventato paziente. È qualcosa che non dovrebbe funzionare così perché i
dottori ci stanno per farti guarire e loro stessi non dovrebbero ammalarsi. Ma
forse nella ricompensa per quello che spenderai in più c’è anche questo
passaggio che il buon samaritano ti chiede e ti rimborsa: quello di lasciarti
lavare i piedi dopo che li hai lavati a molti, quello di mostrarti vulnerabile
dopo che gli altri ti credevano invincibile, quello di affidarti a un altro
medico, dopo che ai tuoi mali hai badato da te. È un passaggio costosissimo,
che Patrizia ha vissuto con verità, con umiltà, con speranza. Tutte le terapie
possibili con fiducia, ma anche la consapevolezza di un morbo aggressivo. Una
punta di umorismo di chi dice l’erba cattiva non muore ma anche la
preparazione di marito e figli a quanto stava capitando. La voglia di
continuare ad esserci ma anche la decisione sofferta di concludere il servizio,
anticipando la pensione. La sosteneva la sua famiglia, sua mamma, sua sorella, tante relazioni buone,
ma anche la sua fede maturata tra gli scout, vissuta in parrocchia, anche in
questa parrocchia che continuava a ritenere ancora la sua. Un anno fa aveva
ricevuto l’unzione degli infermi e nei giorni scorsi, sentendo che il tempo si
era fatto breve, aveva disposto con sua sorella che avrebbe voluto qui i suoi
funerali con le note del Buon Pastore. Non ha fatto in tempo a precisare altro
perché proprio in quel momento la situazione è precipitata. Ma il Buon Pastore
aveva già fatto in tempo ad udirla e oggi a raggiungerla con le parole di
speranza che abbiamo appena ascoltato: Perché così dice il Signore
Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un
pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue
pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le
radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di
caligine. Sulle spalle del Buon Pastore, Patrizia trovi ottimi pascoli, sia
accanto ai suoi cari, ci regali la sua forza e la sua speranza.